mercoledì 29 aprile 2020

La follia della megapatrimoniale


In queste problematiche, surreali giornate, sta circolando la voce della “inevitabilità” di una megaimposizione patrimoniale, che colpirebbe i cittadini italiani.

Si dice: i CCF non vengono capiti / accettati. La rottura dell’euro non ci si rassegna ad attivarla. Per cui ?

Per cui, una patrimoniale da centinaia di miliardi è “l’unica altra possibilità per risolvere la situazione”.

Allora, chiariamoci le idee: una megapatrimoniale non risolve nessuna situazione. Devasta totalmente l’economia italiana, getta in povertà altri milioni di persone, produce ulteriori decine (o centinaia) di migliaia di fallimenti, fa saltare in aria il sistema bancario e il sistema assicurativo.

E dopo che tutto questo è avvenuto ? dopo, la rottura dell’euro è comunque inevitabile.

La megapatrimoniale non è una soluzione, è una follia.

Se poi mi dite che di follie se ne sono già viste tante e quindi non se ne può escludere una in più, posso essere d’accordo.

Il MES è una follia.

Il Fiscal Compact è una follia.

Il bail-in dei risparmi in banca è una follia.

E la follia più grande di tutte è l’euro.

Dopo tante follie, nessuno – purtroppo – può essere certo che non ne mettano in atto un’altra ancora. Ma non è una soluzione. E’ il passo che conduce – rapidissimamente – alla deflagrazione del sistema.

Se invece vogliamo immaginare una strada che porta a un sistema sostenibile, e minimamente sensato, le vie sono altre.

La BCE che garantisce (non formalmente ma di fatto) i debiti pubblici.

I CCF o forme equivalenti di strumenti monetari paralleli all’euro.

O lo scioglimento dell’euro medesimo.

Queste sono soluzioni.

La megapatrimoniale è il tasto di autodistruzione del sistema.


sabato 25 aprile 2020

Non so se ci rendiamo conto


Di che cosa ? della situazione demente in cui ci siamo infilati.

La crisi sanitaria sta producendo una riduzione dei livelli di attività economica; quindi minore produzione e minori redditi. Diciamo, giusto per fare cifra tonda, che nel 2020 si avrà un calo di PIL del 10%.

E’ un problema ? sì, certo. Ma per un paio di mesi una buona parte della popolazione rimane chiusa in casa e spende di meno. Per due mesi non hai comprato auto, elettrodomestici, mobili, vestiti. Non hai viaggiato, non hai speso in turismo, viaggi, alberghi e benzina.

Una menata, certo. Ma poi torni alla normalità.

Oddio, non del tutto: non viaggerai come prima per un po’ di tempo, non farai turismo come prima, non andrai allo stadio. Ci sono alcuni settori più colpiti, che richiederanno sostegni e/o riconversioni. Il che è un problema, sicuramente: ma un problema specifico che tocca alcuni comparti, non il totale dell’economia.

Se lo Stato interviene emettendo moneta e integrando i redditi che non si sono potuti generare in quel paio di mesi, comunque, nessuno fallisce, nessuno cessa di pagare mutui e affitti, e produzione e redditi possono tornare ai livelli precedenti non dico immediatamente, ma in tempi brevi.

E invece ?

E invece l’Italia non può emettere moneta, la deve prendere a prestito. Ogni intervento comporta debiti da ripagare. O da rifinanziare. Con vincoli e parametri che non si possono sforare pena non si sa quali reazioni dei mercati e di questa entità chiamata UE – che secondo qualcuno ci protegge e ci difende e meno male che esiste.

E quindi ?

E quindi un problema che, quantomeno a livello aggregato, si ridurrebbe a meno reddito pareggiato da meno consumi per un paio di mesi, rischia di innescare insolvenze, fallimenti, disoccupazione di massa, milioni di (altre) persone gettate in povertà.

Con strascichi per anni, decenni, generazioni.


mercoledì 22 aprile 2020

Il saldo commerciale estero dell’Italia


L’interscambio commerciale italiano con l’estero era partito alla grande all’inizio del 2020, come si scopre esaminando i dati raccolti dalla Banca d’Italia.

Il surplus commerciale estero aveva raggiunto, nel 2019, il record storico di 58,4 miliardi di euro. Il bimestre gennaio-febbraio 2020 ha registrato un ulteriore notevole ulteriore miglioramento rispetto all’anno precedente. I mesi iniziali dell’anno per motivi stagionali sono più deboli della media. Ma comunque il surplus è salito da 2,4 a 6,5 miliardi.

E’ l’effetto combinato di una crescita del 5% nelle esportazioni di beni e servizi (per meglio dire dei beni, +6,1%, mentre i servizi sono scesi del -0,8%) a fronte di importazioni pressoché piatte al +0,2% (beni +0,5%, servizi -1%).

Questo, prima del lockdown. Sarò molto curioso di scoprire che cosa sta succedendo tra marzo e aprile. Non mi stupirebbe che il surplus cresca in misura ancora più accentuata.

Ovviamente la produzione è calata perché molte aziende sono chiuse, ma il mio sospetto è che l’export abbia (relativamente) tenuto, in quanto la restrizioni dei nostri partner commerciali sono state quasi sempre (forse senza il quasi) parecchio meno accentuate delle nostre. In pratica, chi ha prodotto (e chi ha smaltito il magazzino) ha venduto proporzionalmente più all’estero che in Italia.

Mi aspetto invece un crollo dei nostri consumi interni, e di conseguenza anche delle importazioni.

La caduta del prezzo del petrolio è un fattore in più che spinge nella stessa direzione. Due giorni fa il WTI per consegna aprile è sceso all’incredibile livello di meno 40 dollari al barile. Si veniva pagati per comprare. Questo fenomeno è connesso alla saturazione dei siti di stoccaggio negli USA. Si ricevono soldi, in pratica, se si è in grado di ritirare (nel senso fisico) i barili e di aiutare il decongestionamento.

In effetti il petrolio europeo, il Brent, sta invece oscillando su valori meno assurdi, intorno a 20 dollari o poco più. Ma prima della crisi sanitaria eravamo a 50-60.

Nel frattempo, al 31.12.2019, la NIIP (Net International Investment Position) dell’Italia si è quasi azzerata: -30 miliardi, ovvero -1,6% rispetto al PIL. Aveva raggiunto -27% tra fine 2013 e inizio 2014.

La NIIP è la differenza tra attività patrimoniali estere possedute da residenti italiani, e attività patrimoniali italiane possedute da residenti esteri. In altri termini, è il passivo patrimoniale italiano verso l’estero.

Questo indicatore era quasi a zero a fine 2019 e con ogni probabilità in questi mesi si sta portando in territorio positivo. La prossima volta che sentite qualcuno dire che “l’Italia è piena di debiti”, mordetegli un polpaccio da parte mia.

I problemi finanziari dell’Italia nascono da un errore, uno solo: aver convertito il debito pubblico in una moneta straniera, sopravvalutata rispetto ai fondamentali della nostra economia.

domenica 19 aprile 2020

Euroausterici, Argentina e debito in valuta


Indebitarsi in moneta estera è un presupposto per mettersi nei guai. Data la storia secolare di paesi andati in crisi per la difficoltà di ripagare un debito in valuta forte, sembrerebbe arduo contestare questa affermazione.

Tuttavia, quando ne parlo con alcuni sostenitori delle politiche di bilancio pubblico “prudenti e responsabili”, che nel 99,9% dei casi sono anche difensori dell’eurosistema (quelli, insomma, che io chiamo euroausterici) riaffiora una (chiamiamola così) controargomentazione.

Se quei paesi si sono indebitati in moneta estera era perché “avevano evidentemente bisogno di farlo”, perché la loro moneta “non vale niente”, perché “non la vuole nessuno”.

Un aspetto curioso di questa affermazione è che gli euroausterici sono, di norma, antistatalisti. A loro parere, lo Stato dovrebbe fare il meno possibile. Però, curiosamente, questo Stato – che a loro avviso sbaglia quasi sempre – se si indebita in moneta straniera lo fa invece per un qualche tipo di motivo razionale (in realtà non ben precisato). Non è concepibile che, semplicemente, stia commettendo un errore.

Eppure la storia anche recente offre esempi che confutano totalmente queste “argomentazioni”.

Prendiamo l’Argentina. Il suo esperimento di dollarizzazione – la convertibilidad, ovvero l’impegno “irreversibile”, fissato addirittura nella Costituzione al cambio fisso perenne e imperituro 1:1 tra peso e dollaro - nonché l’assunzione di enormi finanziamenti pubblici in valuta, ha prodotto, sul finire degli anni Novanta, una spaventosa depressione economica.

Il risultato finale è stato il default a fine 2001, unitamente alla fine del cambio fisso con il dollaro.

Tutto questo era inevitabile ? L’Argentina non poteva fare a meno di finanziarsi in valuta, come sembrerebbero sostenere gli euroausterici ?

Pare proprio di no. Tra il 2002 e il 2015 i governi che si sono avvicendati – peronisti, populisti, brutti e cattivi – non hanno più emesso un centesimo di debito in moneta straniera.

L’Argentina ha risolto tutti i suoi problemi ? no, l’inflazione ad esempio è rimasta alta. Ma sono comunque stati anni di recupero e di intensa crescita. E ovviamente non si è verificato alcun default sul debito pubblico in valuta (perché non ce n’era).

Poi che succede ? viene eletto presidente Macri, l’idolo del Fondo Monetario Internazionale. Che per prima cosa “riacquista la fiducia dei mercati finanziari” ed emette qualche decina di miliardi di debito in dollari.

In un paio d’anni, che cosa capita ? l’Argentina ricade in una pesantissima crisi economica, e in un nuovo default.

Dal che si comprende: che il debito in valuta non è una necessità ma una scelta; che assumerlo non risolve nessun problema; e che espone invece ad un mare di rischi e ad un mare di guai.

E allora, perché questo evidente errore viene comunque, non infrequentemente, commesso ?

Ad esempio, perché un governo vuole finanziare (temporaneamente) alti deficit di saldi commerciali esteri. Che equivalgono a quello che (a parole) gli euroausterici detestano: indebitarsi per vivere al di sopra dei propri mezzi. Dura finché dura (di solito poco) ma un politico spregiudicato, incompetente, o comunque interessato solo al risultato di brevissimo termine può cadere, indubbiamente, in questa tentazione.

Oppure (spiegazione che non esclude l’altra) l’establishment del paese può avere interesse (interesse proprio, non del paese) a vincolare i propri concittadini a un sistema di controllo esterno. Per comprimere diritti e redditi di alcuni ceti sociali (a partire dal costo del lavoro). Per forzare processi di cessione del patrimonio pubblico, molto remunerativi per chi, dall’interno, li gestisce. Per asservire, in generale, i propri concittadini a un sistema di potere esterno di cui quell’establishment costituisce il terminale.

Insomma, ci sono alcune spiegazioni che fanno capire perché l’indebitamento in valuta estera forte è un fenomeno ricorrente. Naturalmente spiegano anche molto bene che, se si è interessati al benessere dei propri cittadini, se ne deve sfuggire come alla peste (stavo per dire come al Covid19).

A modo loro, devo dire, gli euroausterici sono coerenti. Plaudono alla decisione italiana di essere entrati, e di restare, nell’euro. Per ragioni molto simili a quelle che li portano a giustificare la scelta argentina dell’indebitamento in valuta estera.

Plaudono a scelte catastrofiche per i paesi e per chi ci vive. O quantomeno le ritengono “necessarie”. E sono scelte che nascono dalle stesse motivazioni.

Dalle stesse inique, antisociali, distruttive, folli motivazioni.


mercoledì 15 aprile 2020

Perchè i CCF non sono - non possono essere - debito

In anteprima, a questo link, un articolo del Gruppo Moneta Fiscale (Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini).

Si mette la parola FINE a qualsiasi ipotesi di assimilazione dei CCF a una forma di debito.

domenica 12 aprile 2020

CCF: perché il silenzio della politica ?


E’ la via che evita deflagrazioni, compensa gli effetti economici della crisi sanitaria, supera le disfunzioni dell’eurosistema. Perché ancora non la si percorre ?

Nella serata del 9 aprile, l’Eurogruppo ha partorito un accordo che nella migliore, anzi proprio nella più sfrenatamente ottimistica delle ipotesi, è completamente inutile.

Abbiamo un SURE (il meccanismo UE di gestione della disoccupazione) che è una partita di giro tra soldi dati e messi dagli Stati, e che erogherà cifre (al netto di contributi e garanzie) del tutto inadeguate.

Idem per il potenziamento dei fondi BEI.

Non parliamo poi del MES: l’utilizzo senza condizioni è reso possibile solo per i costi legati alla crisi sanitaria. Assolutamente no per gli ammontari, enormemente superiori, necessari a fronteggiarne le conseguenze economiche.

Quanto a un meccanismo d’intervento comune con debiti mutualizzati, c’è un riferimento molto vago e nessun impegno preciso. Non ho alcun dubbio che non si tradurrà mai in niente di concreto e operativo. E’ sempre stata la tattica tedesca, del resto: esprimere un vago possibilismo, non prendere nessun impegno definito, e poi non fare nulla.

In sintesi: un risultato inesistente (se il MES “condizionato” non verrà mai attivato) o pessimo (in caso contrario).

L’Italia aveva, e ha, strade diverse per fronteggiare l’impatto economico del Coronavirus ? certo. E senza chiedere niente alla UE, dalla quale niente di utile arriverà mai.

Le linee secondo le quali occorre procedere sono le seguenti.

La BCE ha deliberato un estensione del programma di QE che per l’Italia vale, pro-quota, 220 miliardi di lire.

Bene, l’Italia inizia a emettere questi 220 miliardi e completa il programma, compatibilmente con l’esigenza di non “ingolfare” il mercato, nei tempi più rapidi possibili.

Il rapporto debito pubblico / PIL dell’Italia a fine 2020, secondo alcune stime recenti, schizzerà a qualcosa tipo il 160% rispetto al 135% attuale, come effetto combinato di un deficit (quindi crescita del numeratore) del 10% e di un calo del PIL intorno, anche questo, al 10%.

Partivamo da 135 / 100, arriviamo a 145 / 90 = 160% (161% per i pignoli… ma sono stime approssimative, ordini di grandezza, non possono essere previsioni puntuali, a questo stadio).

Tutto ciò premesso, alla UE, come si diceva, non si deve chiedere assolutamente nulla.

Occorre invece sviluppare una serie di azioni di politica economica – investimenti e assunzioni nel settore pubblico (nell’immediato, specialmente nella sanità), integrazioni di redditi, spesa sociale, riduzione di tasse – emettendo CCF per alcune decine di miliardi all’anno.

Questo, in aggiunta alle azioni di “tamponamento” da attuare (il più rapidamente possibile: soldi a cittadini in difficoltà e ad aziende che rischiano di chiudere) con i 220 miliardi di BTP.

I CCF non rientrano nel debito pubblico secondo le definizione dei trattati (“Maastricht Debt”) e non devono essere collocati sul mercato.

Ancora più importante, i CCF non danno luogo a impegni di rimborso: quindi non è possibile forzare lo Stato italiano al default sui CCF.

L’Italia deve avviare tutto questo, dichiarando fin da subito, unilateralmente, come impegno non tanto o non solo nei confronti della UE, ma nei confronti dei mercati finanziari, della comunità internazionale, dell’universo mondo, che

l’Italia non darà luogo alla rottura dell’euro (non ne ha bisogno perché con i CCF ne risolve le disfunzioni), e che

il rapporto debito pubblico / PIL scenderà di cinque punti percentuali all’anno, rispetto al livello di fine 2020. Dal 160%, caleremo quindi al 60% in vent’anni.

La riduzione avverrà in primo luogo grazie al recupero del PIL, già nel 2021, per effetto dell’essersi lasciati alle spalle (speriamo !) l’emergenza sanitaria.

E il recupero sarà rafforzato delle azioni espansive attuate mediante i CCF.

Se mancherà qualcosa al raggiungimento dell’obiettivo, si aumenteranno le emissioni di CCF nella misura necessaria.

Non c’è da temere (da parte dei partner europei) un qualsiasi tipo di “indisciplina” nell’emissione dei CCF. I CCF non sono soggetti a rimborso in euro e quindi non c’è nessun rischio di default da “tamponare” (in uno scenario sfavorevole).

L’essenziale è che i CCF che giungono a scadenza ogni anno rimangano una modesta frazione del gettito fiscale lordo del settore pubblico (oltre 800 miliardi nel 2019).

Nel caso si esageri, ci sarà uno svilimento di valore dei CCF in circolazione (troppi CCF che rischiano di ingenerare “vischiosità” al momento di utilizzarli come sconti fiscali). Ma quand’anche questo scenario si verificasse, sarà esclusivamente un problema italiano.

Se tutto questo è vero, se questo percorso è noto, perché la politica è silente ?

In realtà non lo è del tutto. Anzi.

Una proposta di legge è stata depositata per la discussione in Senato da parte dei deputati M5S Cabras e Trano (e firmata da 90 parlamentari).

Uno specifico ordine del giorno è stato messo ai voti dal senatore de Bertoldi di Fratelli d’Italia, e approvato.

I Minibot proposti da Claudio Borghi della Lega sono anch’essi uno strumento di Moneta Fiscale (come i CCF).

Un piano di salvezza nazionale che prevede, tra i vari strumenti, la Moneta Fiscale è stato sottoscritto da 23 membri del parlamento (e da 20.000 cittadini).

La politica non è silente, ma le voci di chi ha compreso la direzione in cui muoversi sono avversate da interessi costituiti fortissimi. E le ragioni non sono difficili da comprendere.

Il progetto CCF (e/o altre varianti sul tema “Moneta Fiscale”) ridanno discrezionalità di azione allo Stato.

Riducono, quindi, l’influenza dei mercati finanziari.

E limitano lo strapotere di un fortissimo sistema di interessi costituiti, tra loro collegati: la UE, la BCE, gli Stati Nordeurozonici, i grandi gruppi finanziari e industriali.

Le resistenze sono quindi enormi.

Ma la totale emergenza del momento può, anzi deve, essere la leva per far rompere gli indugi.


sabato 11 aprile 2020

Ordine del giorno Andrea de Bertoldi – Senato, 7.4.2020


Atto Senato 7 aprile 2020 – approvato

Ordine del Giorno 0/1766/46/05 presentato dal Senatore Andrea de Bertoldi (FdI).

Il Senato,

premesso che

il disegno di legge in conversione, contiene una molteplicità di interventi, che intervengono nella scadenza, in ogni segmento del sistema economico, sociale, del lavoro e produttivo del Paese, oltre che prioritariamente sulla tutela e la salvaguardia della comunità nazionale, diretti a fronteggiare una crisi epidemiologica senza precedenti, causata dall’epidemia Covid-19;

in tale ambito, le misure adottate dal Governo, finalizzate a sostenere l’impatto economico e sociale, sui lavoratori, le famiglie e le imprese, nettamente insufficienti e incapaci a fronteggiare i gravissimi effetti negativi e penalizzanti che a partire dal breve periodo, si manifesteranno sull’intero sistema-Paese, appaiono peraltro, rivolte più alla tutela di determinate fasce di lavoratori, che nei riguardi degli autonomi, i liberi professionisti e le piccole e medie imprese;

al riguardo, fra le ulteriori misure fiscali ed economiche prioritarie che si rendono indispensabili introdurre in tempi rapidi (il cui costo dell’esitazione potrebbe risultare irreversibile per la tenuta sociale del Paese) si evidenziano gli interventi per assicurare la necessaria liquidità alle famiglie e alle imprese, unitamente a disposizioni di assoluta emergenza nei riguardi dei contribuenti, volte a differire i termini di pagamento di ogni tipo di imposta e tributo, nonché misure innovative in grado di sostenere il tessuto economico e produttivo nazionale, nell’attuale fase emergenziale e in quella futura;

all’interno di tale scenario, appare pertanto urgente e necessario prevedere politiche d’espansione in grado di prevedere nel sistema economico, una maggiore quantità di potere d’acquisto, mettendola a disposizione degli operatori che si muovono nell’ambito dell’economia reale ovvero: famiglie e le imprese, attraverso una netta diminuzione del carico fiscale, aumentando nel contempo i trasferimenti e incrementando la spesa pubblica statale diretta;

l’istituto della moneta fiscale, inteso come qualunque titolo privato o pubblico che lo Stato accetta dai possessori per l’adempimento dei propri obblighi fiscali nella forma di sconti sugli importi dovuti o di pagamento dei medesimi, può costituire al riguardo, un’importante sostegno all’economia reale, la cui manovra monetaria, è in grado di apportare significativi risultati in termini di ripresa della domanda interna e miglioramento della competitività delle imprese, in particolare nell’attuale fase di estrema emergenza sanitaria e successivamente economico e finanziaria, che sta coinvolgendo l’intero Paese;

tale strumento è rappresentato attraverso titoli, che non costituiscono moneta legale né impegnano lo Stato a garantire la conversione in moneta legale, ma tuttavia sono negoziabili, trasferibili a terzi e scambiabili sul mercato, in grado di garantire il diritto al titolare, di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione (per tasse, imposte, contributi) a partire da due anni dopo la loro emissione e non devono essere collocati sul mercato, ma attribuiti direttamente a una pluralità di soggetti, quali: le persone fisiche, il sistema delle imprese e gli enti pubblici territoriali, per finanziare investimenti e spese correnti (in primo luogo, nell’immediato, le azioni di contrasto all’emergenza Coronavirus);

a tal fine, in relazione alla crisi dei mercati finanziari e al perdurare dei contrasti tra i Governi che si manifestano a livello europeo e internazionale (che evidenziano la mancanza di adeguate risposte coordinate e globali) in sintonia con le accelerazioni della diffusione del Coronavirus su scala mondiale, appare pertanto urgente e necessario, introdurre nuovi strumenti di politica fiscale, in grado di stimolare la ripresa economica per il nostro Paese, come lo strumento della moneta fiscale, (inteso quale mezzo di pagamento) nella consapevolezza che tale iniziativa potrà nei prossimi anni, anche in relazione agli scenari economici che si intravedono oggettivamente, difficili e complessi, garantire un effetto moltiplicatore finalizzato al rilancio dell’economia interna, senza contravvenire alle regole europee e del Trattato di funzionamento dell’Unione europea;

impegna il governo

a valutare l’opportunità di prevedere in tempi rapidi, in relazione ai prossimi scenari che si determineranno per il sistema economico e finanziario nazionale a partire dal breve periodo, nonché alle forti previsioni di ribasso del prodotto nazionale lordo, ad ampliare le fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della pubblica amministrazione, anche attraverso titoli riconducibili alla più ampia categoria dei certificati di compensazione fiscale, definendoli, quale “moneta fiscale”, complementare, priva di corso legale, basata su sconti fiscali differiti, relativi a imposte non ancora maturate.


domenica 5 aprile 2020

Se Giuseppe Conte mi chiedesse “che faccio” ?


E mi riferisco all’impatto economico del Coronavirus. Non alla crisi sanitaria, in merito alla quale leggo e mi documento, come tutti, ma non ho nessuna competenza specifica) e quindi non saprei che cosa suggerirgli.

Se mi chiedesse che cosa fare per parare il colpo della crisi sanitaria sull’economia, gli direi quanto segue.

La BCE ha deliberato un'estensione del programma di QE che per l’Italia vale, pro-quota, 220 miliardi di euro.

Bene, inizia a emettere questi 220 miliardi e completa il programma, compatibilmente con l’esigenza di non “ingolfare” il mercato, nei tempi più rapidi possibili.

Il rapporto debito pubblico / PIL dell’Italia a fine 2020, secondo alcune stime recenti, schizzerà a qualcosa tipo il 160% rispetto al 135% attuale, come effetto combinato di un deficit (quindi crescita del numeratore) del 10% e di un calo del PIL intorno, anche questo, al 10%.

Partivamo da 135 / 100, arriviamo a 145 / 90 = 160% (161% per i pignoli… ma sono stime approssimative, ordini di grandezza, non possono essere previsioni puntuali, a questo stadio).

Torniamo al nostro amico Giuseppe. Alla UE, non deve chiedere assolutamente nulla.

Deve invece sviluppare una serie di azioni di politica economica – investimenti e assunzioni nel settore pubblico (nell’immediato, specialmente nella sanità), integrazioni di redditi, spesa sociale, riduzione di tasse – emettendo CCF per alcune decine di miliardi all’anno.

Questo, in aggiunta alle azioni di “tamponamento” già da attuare (il più rapidamente possibile: soldi a cittadini in difficoltà e ad aziende che rischiano di chiudere) con i 220 miliardi di BTP.

I CCF non rientrano nel debito pubblico secondo le definizione dei trattati (“Maastricht Debt”) e non devono essere collocati sul mercato.

Ancora più importante, i CCF non danno luogo a impegni di rimborso: quindi non è possibile forzare lo Stato italiano al default sui CCF.

Deve (Giuseppe) fin da subito dichiarare unilateralmente, come impegno non tanto o non solo nei confronti della UE, ma nei confronti dei mercati finanziari, della comunità internazionale, dell’universo mondo, che

l’Italia non darà luogo alla rottura dell’euro (in quanto ha trovato il modo di risolvere le disfunzioni del sistema), e che

il rapporto debito pubblico / PIL scenderà di cinque punti percentuali all’anno, rispetto al livello di fine 2020. Dal 160%, scenderemo al 60% in vent’anni.

La riduzione avverrà in primo luogo grazie al recupero del PIL, già nel 2021, per effetto dell’essersi lasciati alle spalle (speriamo !) l’emergenza sanitaria.

E il recupero del PIL sarà rafforzato delle azioni espansive attuate mediante i CCF.

Se mancherà qualcosa al raggiungimento dell’obiettivo, si aumenteranno le emissioni di CCF nella misura necessaria.

Non c’è da temere (da parte dei partner europei) un qualsiasi tipo di “indisciplina” nell’emissione dei CCF. L’essenziale è che i CCF che giungono a scadenza ogni anno rimangano una modesta frazione del gettito fiscale lordo del settore pubblico (oltre 800 miliardi nel 2019).

Se si esagera, ci sarà uno svilimento di valore dei CCF in circolazione (troppi CCF che rischiano di ingenerare “vischiosità” nell’utilizzarli tutti come sconti fiscali). Ma sarà esclusivamente un problema italiano.


sabato 4 aprile 2020

Cattive notizie, buone notizie


C’è una cattiva notizia: all’Italia servono centinaia di miliardi per uscire dalle conseguenze economiche delle crisi (la crisi sanitaria, che si somma alla crisi già in corso da anni, indotta dall’euroausterità).

Ma c’è una buona notizia: i soldi che servono possono essere stampati, quindi emessi senza creare debito. Non esistono rischi di inflazione, nel contesto attuale.

Ma c’è una cattiva notizia: all’interno dell’eurosistema, non è possibile, agli stati membri, emettere euro.

Ma c’è una buona notizia: possiamo stampare moneta nazionale.

Questo è il tema. Altro che MES QE PEPP BEI SURE XYZ QWERTY.

Che fare ? annunciare che la repubblica italiana emette quanto necessario sotto forma di moneta nazionale – Moneta Fiscale / CCF, per esempio.

E se la UE / BCE non ci stanno ? si rompe l’euro.

Per citare Dario Zamperin: o Lira o l’ira. A voi la scelta.

Oppure, se la UE vuole avere un ruolo realmente utile…

Helicopter Money in euro, unico limite non mandare fuori controllo l’inflazione; spendibile da ogni singolo paese nella misura necessaria ad affrontare la crisi.

Impossibile ? improbabile ? chissà. Questi non sono tempi normali.


mercoledì 1 aprile 2020

Inflazione, crisi sanitarie e guerre


Cerco di fare chiarezza su un dubbio che, a quanto vedo, continua a essere sollevato: gli interventi di spesa e di immissione di liquidità nel sistema economico, in fase di attuazione per tamponare gli effetti economici della crisi sanitaria, rischiano di creare inflazione elevata – se non oggi, nel prossimo futuro ?

La risposta è no, e le motivazioni meritano di essere illustrate in dettaglio.

Sia Olivier Blanchard che, in un articolo di cui si sta parlando molto, Mario Draghi, hanno paragonato l’emergenza sanitaria a una guerra: addirittura a una guerra mondiale.

E le guerre mondiali hanno, in effetti, innescato fenomeni inflattivi di ampia portata.

Tuttavia, tra il Coronavirus e una guerra ci sono ovviamente anche differenze, su cui vale la pena di riflettere.

La guerra non riduce la spesa totale nell’ambito del sistema economico: anzi, in guerra la disoccupazione scompare. Tutti lavorano. Milioni di persone stanno al fronte, altri milioni nelle aziende che danno sostegno allo sforzo bellico.

La domanda totale non cala. Ci sono soldi in circolazione come e più di prima. Il problema è che crolla la produzione fisica di tutta una serie di beni e di servizi, perché gran parte delle aziende devono essere riconvertite e c’è meno forza lavoro a disposizione.

Occorre quindi razionare quanto non è più fisicamente disponibile nelle quantità precedenti. E la crescita dei prezzi è un tipico meccanismo di razionamento.

In più, ci sono beni di primissima necessità – a partire dal cibo – che devono soddisfare i minimi vitali per tutti. Qui non si possono lasciar salire i prezzi: ed entrano quindi in gioco strumenti quali le tessere annonarie (e anche l’imposizione di prezzi massimi, che però scatena fenomeni di mercato nero).

Una crisi sanitaria è diversa perché non c’è un grande incremento di spesa pubblica. Non bisogna pagare armi, eserciti e logistica di supporto.

Ci sono maggiori costi per medici, infermieri e strutture ospedaliere, ma niente di confrontabile alla mobilitazione generale causata dalle guerre.

Gli Stati stanno, certo, immettendo liquidità nel sistema economico, ma principalmente per consentire a tutti di soddisfare le necessità vitali, e per non innescare catene di insolvenze (aziende che non pagano finanziamenti e fornitori, individui che non pagano affitti e mutui, eccetera) che, in aggiunta a tutti gli altri problemi, dissesterebbero il sistema finanziario.

Nel frattempo, la domanda privata per beni e servizi è caduta perché la gente è chiusa in casa e consuma prodotti alimentari, farmaci e poco altro.

Di quelli, anzi, fa scorta, e su quei beni si stanno in effetti constatando alcuni incrementi di prezzo.

Ma su tutto il resto no. La domanda di beni di consumo durevoli è a livelli bassissimi. La produzione industriale è molto inferiore al normale, quindi cala il consumo di energia. Idem per i carburanti. Il petrolio è a 20 dollari: un prezzo che non si vedeva da diciassette anni.

Al momento, la domanda totale di beni e servizi è molto bassa e l’utilizzo di capacità produttiva è sceso di conseguenza. In queste condizioni, non c’è inflazione – e non si vede come ce ne possa essere.

Questa è la situazione attuale. Cambierà con il ritorno a condizioni normali ?

Una limitazione di capacità produttiva si potrà avere se le aziende chiudono e non riaprono, il che rende importante evitare, per quanto possibile, insolvenze e fallimenti.

Va comunque ricordato che la capacità fisica non viene meno a causa di un paio di mesi di stop. E perfino i fallimenti societari non impediscono che l’azienda possa ripartire, se subentrano (in qualità di azionisti) i creditori, o nuovi investitori: come spesso accade.

E via via che la situazione ritorna alla normalità, l’offerta riparte in misura corrispondente alla domanda. Il che impedisce fenomeni inflattivi rilevanti.

D’altra parte, nello scenario pessimistico in cui una parte della capacità produttiva andasse persa a causa di aziende che non riaprono, la domanda rimarrebbe a sua volta compressa in seguito alla crescita della disoccupazione. Uno scenario estremamente indesiderabile e, spero, molto improbabile: ma in ogni caso, non certo uno scenario dove si creano problemi di inflazione troppo elevata.