lunedì 30 maggio 2016

Messico e nuvole (con la partecipazione straordinaria di Alberto Forchielli)



Conosco Alberto Forchielli da un po’ meno di trent’anni, quando lui era parecchio più giovane e io stranamente pure. Io, fresco di laurea Bocconi, lavoravo all’Iniziativa ME.T.A., una holding quotata che coordinava le partecipazioni non industriali del Gruppo Montedison. Lui, fresco di MBA ad Harvard, faceva consulenza strategica per conto di un’organizzazione internazionale, che annoverava Montedison tra i suoi clienti.

E’ un bel po’ di anni che non ci si vede, ma abbiamo frequenti contatti via social network. Contatti affettuosamente battibeccanti. Leggo con molto interesse i suoi commenti su temi di geopolitica e innovazione, argomenti su cui sono spesso e volentieri pochissimo informato. Contesto con molto puntiglio le sue esternazioni in materia di macroeconomia, argomento su cui invece ho opinioni forse giuste, forse sbagliate, ma sicuramente molto precise, molto sentite – e, generalmente, alquanto discordanti dalle sue.

Pochi giorni fa, Romano Prodi – di cui Forchielli è stato a lungo uno stretto collaboratore – raccontava in un articolo sul Messaggero che “usando l’esagerazione come strumento didattico Alberto Forchielli, in un recente confronto televisivo… affermava che l’Italia si va orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche. Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale, sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando mano d’opera scarsamente specializzata e ancora più scarsamente garantita e remunerata. Infine una corposa parte del Paese vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità”.

Perché tutto questo ? pochi paragrafi sopra Prodi ci informa in merito a “un dato molto semplice ma sorprendente. La lunga crisi di produttività (e quindi di efficienza) del nostro sistema produttivo e la contemporanea crisi mortale di tante aziende sono state infatti accompagnate da un’ottima tenuta della nostra bilancia commerciale, largamente attiva nel settore manifatturiero. Tutto questo mette in rilievo che, pur nella scomparsa delle nostre grandi imprese, abbiamo centri di eccellenza che, nonostante tutti i nostri limiti, si affermano nei mercati internazionali, vincendo i concorrenti tedeschi, cinesi e americani. Se, nonostante queste affermazioni, la produttività non aumenta, questo significa che una parte troppo grande del nostro sistema economico non è capace di trasformarsi e vive cercando nicchie di mercato interno che si vanno sempre più restringendo, proprio per il cattivo andamento dei nostri consumi e dei nostri investimenti e per la pervasività della globalizzazione”.

Ma cari Prodi e Forchielli, e se la spiegazione fosse molto più semplice ? anzi se CI FOSSE una spiegazione (quella sopra è una constatazione, che non spiega) ?

Dalla metà degli anni Novanta in poi, le politiche fiscali italiane sono state costantemente orientate in senso restrittivo. Prima per “centrare l’aggancio all’euro”, poi per rimanere nei parametri imposti dall’Eurosistema – parametri che dal 2011 in poi hanno subito un ulteriore, pesantissimo giro di vite, in un momento straordinariamente inopportuno (in quanto le economie di quasi tutti i paesi occidentali non avevano ancora recuperato gli effetti della crisi finanziaria del 2008).

Politiche restrittive significa limitazione della spesa, aumento delle tasse, deflazione salariale. E tutto questo punta nella medesima direzione: contrazione del mercato interno. Stupisce, allora, che le aziende orientate all’export tengano botta, mentre soffrono quelle che operano prevalentemente sul mercato domestico ? semplicemente, le prime lavorano dove c’è crescita, le seconde dove la domanda viene costantemente calmierata.

E siccome di solo export non si vive, nonostante dati di bilancia commerciale “sorprendentemente” (secondo Prodi) positivi, PIL e occupazione non riescono a recuperare le perdite del periodo 2009-2013. Il che comprime la redditività delle imprese e le risorse per investire e per fare innovazione. Molto dura, per non dire impossibile, che tutto questo non retroagisca negativamente sulla produttività.

“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” affermava il noto economista postkeynesiano Guglielmo di Occam. Che, non letteralmente ma in pratica, significa che le spiegazioni semplici di solito sono quelle giuste. Invece di teorizzare l’”involuzione antropologica” della popolazione italiana (concetto spesso evocato da Forchielli, non ho capito quanto seriamente: Prodi direbbe che è un’altra “esagerazione utilizzata come strumento didattico”…) meglio, credo, prendere atto che si vende, si cresce e si innova dove c’è domanda. Dove te la tolgono continuamente da sotto il naso, contraendo il potere d’acquisto in circolazione, no.

Forse è meglio partire dalla constatazione che l’aggancio all’euro è stata una cantonata colossale presa del nostro paese: perché il debito pubblico – in moneta nazionale e prevalentemente finanziato da risparmio interno – non era affatto il problema che veniva descritto. Mentre un sistema che impone costanti azioni restrittive per “pagare” un debito che a questo punto è diventato realmente un problema (essendo espresso in moneta che non emettiamo) ottiene vari risultati nessuno dei quali particolarmente lusinghiero: comprime la crescita. Abbatte l’occupazione. E NON permette neanche di pagare il debito - perché, com’è o dovrebbe essere noto a tutti, il rapporto debito / PIL può calare se, e solo se, aumenta il denominatore.

L’uscita dai problemi dell’economia italiana passa da un’azione di rilancio della domanda, principalmente dove manca: quindi, anche e soprattutto a partire dalla domanda interna. Azione di rilancio possibile anche senza arrivare alla rottura dell’euro, se si adottano strumenti appropriati.

A quel punto si risolverà, per inciso, un altro problema che “amareggia e sorprende” il professor Prodi (e credo pure il mio amico Forchielli): vedere che i ricavi delle cessioni di “molte delle nostre più grandi e floride imprese” “non sono stati per niente investiti nel fare progredire le nostre strutture produttive”. 

Perché l’imprenditore italiano è – inevitabilmente – prima imprenditore, e poi italiano. La liquidità la investe dove ci sono incentivi adeguati. Che sono, prima di ogni altra cosa, domanda interna tonica e fiscalità non eccessiva. Reintroduciamole e ci ritroveremo, in pochi anni, a parlare non di “rischio messicanizzazione”, ma di un’economia italiana che è tornata florida, dinamica, innovativa e creativa.

giovedì 26 maggio 2016

L’Eurozona ha bisogno di un euro flessibile, non di “un po’ di flessibilità”



Biagio Bossone - Marco Cattaneo


“Flessibilità” è in concetto molto in voga, oggi, nell’Eurozona. La Commissione Europea ha accettato la maggior parte delle richieste italiane in merito all’esclusione di alcune voci straordinarie – tra cui i costi per gestire la crisi migratoria – dai limiti di deficit pubblico. In tal modo, l’Italia eviterà di adottare azioni fiscali restrittive nel 2016.

Nel frattempo, la Spagna ha mancato i suoi impegni di deficit già nel 2015. Il livello registrato – 5,2% del PIL – supera gli obiettivi concordati (4,5%) che pure erano già una concessione rispetto ai livelli molto più stringenti previsti nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e nel Fiscal Compact (FC). La Commissione potrebbe quindi sanzionare e multare la Spagna, ma nessuno si aspetta che questo, in realtà, si verifichi.

E’ chiaro che applicare le regole fiscali è un problema, in Europa, e il motivo è facile da comprendere. Il consolidamento fiscale è stato imposto a partire dal 2011, molto prima che l’Eurozona avesse pienamente recuperato gli effetti della crisi finanziaria del 2008. Molti stati hanno, di conseguenza, subito una pesante, doppia recessione. La domanda è tuttora depressa, e la disoccupazione inaccettabilmente elevata.

Alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona sono necessarie politiche di espansione della domanda, che richiedono temporanei incrementi di deficit e debito pubblico (in rapporto al PIL), per accelerare fortemente la crescita e mettere fine alla depressione. Ma non esiste il consenso politico necessario per rivedere il PSC e il FC.

Di conseguenza, la flessibilità accordata dalla Commissione UE è un classico “calcio al barattolo”. Le regole fiscali non sono né applicate né ridefinite. L’Eurozona, nel suo complesso, continua a ristagnare. Ci sono buone probabilità che non ne derivi un disastro finché il “whatever-it-takes” della BCE e il programma di Quantitative Easing eviteranno attacchi speculativi sui debiti sovrani, ma la carenza di crescita, e di opportunità di occupazione, alimentano l’Euroscetticismo e rafforzano i partiti anti-sistema.

Tra pochi mesi, a ottobre, i governi inizieranno a proporre i budget 2017, da discutere in sede parlamentare e da sottoporre alla Commissione UE. Date le regole vigenti, è molto facile prevedere un’ulteriore serie di “esercizi di differimento”.

Come è possibile evitarlo ? Si può dare all’Eurozona un assetto soddisfacente e permanente ?

E’ possibile, purché l’Eurozona stessa sia riformata in modo da diventare flessibile. Una modalità efficace consiste nell’emissione, da parte di una serie di stati, di Certificati di Credito Fiscale (CCF) nazionali.

I CCF sono titoli che danno diritto al possessore di ridurre pagamenti per imposte, dovuti a partire da una certa data futura: per esempio, due anni dopo l’emissione dei CCF medesimi. Verrebbero assegnati gratuitamente ai lavoratori (per incrementare il loro reddito) e alle aziende (per ridurre i costi di lavoro). Una parte dei CCF emessi può anche contribuire al finanziamento di spese sociali e investimenti pubblici.

Essendo titoli negoziabili e trasferibili, i possessori dei CCF potranno venderli in cambio di euro, con uno sconto (presumibilmente modesto, poiché il mercato sarà ampio e liquido) rispetto al valore facciale. Il reddito disponibile e il patrimonio netto degli assegnatari di CCF si incrementerà immediatamente, con un effetto di sostegno per domanda, consumi e investimenti aziendali. I redditi procapite e l’occupazione cresceranno in modo permanente, mettendo fine alla depressione dell’Eurozona.

Sotto il profilo fiscale, il maggior PIL – prodotto dalla più elevata domanda e dagli effetti moltiplicativi sul reddito – incrementerà le entrate pubbliche nei due anni precedenti alla data di utilizzabilità dei CCF. E anche successivamente, stime basate su ipotesi prudenziali mostrano che le maggiori entrate lorde supereranno gli sconti conseguiti dai titolari di CCF.  

Va sottolineato che i CCF non sono debito: i paesi che li emettono non li devono rimborsare, e non si vengono quindi a creare rischi di default. I CCF non implicano rischi per la stabilità finanziaria dell’emittente.

La crescita nominale del PIL indotta dai CCF permette ai singoli paesi di rispettare gli impegni assunti in base al PSC e al FC, riducendo in modo puntuale e regolare il rapporto debito pubblico / PIL. Il livello e la composizione delle future emissioni di CCF potranno essere gestiti in modo da stabilizzare ogni singola economia nazionale, conseguire adeguati livelli di occupazione, e migliorare la competitività delle aziende (in quanto l’allocazione di CCF alle imprese ridurrà i costi di lavoro). Questo consentirà ad ogni paese di evitare che la crescita della domanda domestica produca sbilanci commerciali esterni.

Un’ampia gamma di strumenti sarà inoltre disponibile agli stati per gestire temporanei scostamenti dagli obiettivi di consolidamento fiscale. Ai possessori di CCF potrà essere offerto di posporne l’utilizzo (per conseguire sconti d’imposta) in cambio di un incremento di valore facciale. Inoltre, CCF di lunga durata potranno essere emessi per rifinanziare debito in euro, accelerando così la riduzione dello stock totale di debito pubblico in circolazione.

Nell’evento, improbabile, che tutto ciò sia insufficiente, ogni singolo paese potrà applicare “clausole di salvaguardia” aumentando le tasse da pagare in euro, o contraendo la spesa pubblica, e incrementando nello stesso tempo le emissioni di CCF. Queste azioni sarebbero di natura non-prociclica: non implicherebbero gli effetti recessivi dei limiti fiscali attualmente previsti dalle regole dell’Eurozona (effetti recessivi che sono il motivo per cui questi limiti sono, in pratica, difficili o impossibili da applicare). 

Un “Eurosistema flessibile”, efficiente e sostenibile, è un obiettivo realizzabile. I CCF possono essere lo strumento chiave per raggiungere questo obiettivo. Non c’è tempo da perdere per agire, e per mettere fine alla depressione dell’Eurozona.

mercoledì 25 maggio 2016

Eurozone needs a flexible euro – not “some” flexibility

By Biagio Bossone and Marco Cattaneo


Talks of “flexibility” are currently much in fashion in the Eurozone. The EU Commission accepted many of the Italian proposals to exclude certain extraordinary items – including costs to manage the immigration crisis – from the budget deficit limits. Italy will then not be forced to implement contractionary budget actions in 2016.

Meanwhile, Spain missed her own budget targets. A 5.2% deficit was recorded in 2015, exceeding the 4.5% commitment (in itself already a concession, since the Stability and Growth Pact (SGP) and the Fiscal Compact (FC) call for much stricter limits). The Commission could sanction and fine Spain, but everybody expects a waiver to be granted.

Clearly, enforcing fiscal rules is a problem in Europe. It’s easy to see why. Fiscal consolidation was imposed starting from 2011, much before the Eurozone had fully recovered from the 2008 financial crisis. Many countries experienced a heavy double-dip recession. Demand is still depressed and unemployment is far too high.

Many Eurozone countries require demand expansion, which implies a temporary increase in deficits and debt (as a percentage of GDP) to achieve much stronger growth and lift the economies from current depressed conditions. But the political consensus to thoroughly revise the SGP and the FC is just not there.

As a result, the “flexibility” granted by the EU Commission is just a “kick-the-can-down-the-road” exercise. Fiscal rules are neither enforced nor revised. The Eurozone as a whole keeps stagnating. Disaster may well be avoided as the ECB’s “whatever-it-takes” commitment and its Quantitative Easing program prevent a run on sovereign debts, but lack of growth and employment opportunities feeds Euroscepticism and strengthens anti-establishment parties.

In a few months (October 2016), next year budget programs will start being proposed by country governments, discussed by national parliaments and submitted in draft to the Commission. Under the current set of rules, a further round of postponement exercises is all too easy to predict.

How can this be avoided? Can the Eurozone be fixed in a satisfactory and permanent fashion?

Yes, it can, provided the Eurosystem is reformed to make itself flexible. An effective way to do it is to have selected countries issuing national Tax Credit Certificates (TCC).

TCC are securities that entitle their holders to reduce tax payments some time after (say, two years) their issuance. They will be assigned, free of charge, to employees (to supplement their income) and to enterprises (to reduce total labor costs). A portion of the TCC issued could help fund social programs and public investment, as appropriate.

TCC would be marketable securities. Holders could convert them into cash, at a discount (presumably small, as the market would be wide and liquid) on their face value. TCC recipients’ disposable income and net worth would immediately increase, supporting demand, consumption and corporate investments. Per capita income and employment would be permanently higher, lifting the Eurozone as a whole out of the depression.

On the budget side, higher GDP – led by higher demand and the income multiplier effect – would increase tax revenues during the two years prior to TCC redemptions. Even under conservative estimates, the larger gross tax revenues following GDP growth would exceed the fiscal revenue shortfalls due to the tax discounts from TCC redemptions.  

Importantly, TCC are not debt: issuing countries have no obligation to reimburse them, and issuing governments may not be forced to default on TCC-related obligations. TCC, therefore, imply no risk to financial stability.

As a result of the nominal GDP growth induced by the TCC, each TCC-issuing country would fulfill its commitments under the SGP and the FC, reducing on a timely and consistent fashion its public debt / GDP ratio. Level and allocation of future TCC issuances would be managed to stabilize each country economy, to achieve satisfactory employment, and to improve enterprise competitiveness (as labor costs would be reduced by TCC allocations). This would also allow each country to avoid external trade imbalances following from higher domestic demand.

A wide range of additional tools would be available for each country to manage negative, temporary deviations from fiscal consolidation targets. Holders of TCC could be induced to postpone TCC redemptions for tax discounts by offering them an increase in the face value of their TCC holdings in exchange for their decision to postpone redemption. In addition, long-term TCC could be issued to refinance euro-denominated debt, thus speeding up the consolidation of the total stock of public debt outstanding.

In the unlikely event that all of this were insufficient, countries could implement “safeguard clauses” by raising taxes (to be paid in euro) or cutting expenses, while at the same time increasing TCC issuances. All the above measures would be “non-procyclical safeguard clauses” and would not imply the recessionary impact created by “debt brakes” as currently envisaged by the Eurozone rules (which is the reason why they are, in practice, difficult or even impossible to enforce).

An efficient, sustainable “flexible Eurosystem” can be created. The TCC would be deeply instrumental to that purpose. The time to act, and to end the Eurozone depression, is long overdue.