mercoledì 28 gennaio 2015

Riferisce Ambrose Evans-Pritchard (con un addendum di Wolfgang Munchau)


Il giornalista inglese, firma del Telegraph ed esperto conoscitore delle cose italiane (ha vissuto alcuni anni da noi e parla la lingua) è un noto commentatore delle vicende dell’eurocrisi, con un atteggiamento fortemente critico nei confronti delle politiche di Bruxelles.

Pochi giorni ha rilasciato fa un'intervista all’interessante sito lantidiplomatico.it, dichiarando, al termine della penultima risposta, quanto segue.

“In questo periodo ci sono anche proposte interessanti che l’Italia possa sviluppare una moneta parallela all’euro – come il caso dell’Austria negli anni ‘20 in parallelo al gold standard – che permetterebbe al paese di riprendersi senza violare tecnicamente i Trattati europei. Il Ministero del Tesoro italiano ha avuto discussioni informali sulla possibilità di realizzarla e Renzi dovrebbe iniziare ad usare questi argomenti per minacciare Bruxelles, Francoforte e Berlino per l’applicazione di economie (Nota MC immagino intenda “politiche economiche”) espansive nel 2015”.

Ho contattato Evans-Pritchard via twitter, chiedendogli se si riferisse all'Appello.

La risposta testuale è stata: “Mi è stato detto che questo genere di possibilità erano una risorsa di ultima istanza se la BCE non avesse agito. L’azione c’è stata, quindi la questione passa in secondo piano, per il momento.”

Dato che l’Appello e i termini del progetto Moneta Fiscale sono arrivati a conoscenza di diversi esponenti del governo italiano e di loro consulenti, è sicuramente possibile che, effettivamente, l’Italia stia utilizzando la possibilità di introdurre una moneta parallela come leva per rafforzare la propria posizione negoziale nei confronti della BCE e della UE. Certo, se il governo italiano ritiene che il QE annunciato da Francoforte sia un’azione sufficiente, rischia di farsi delle illusioni.

Comunque le possibilità aperte sono più di una. Per esempio, ottenere maggiore flessibilità nell’applicazione dei vincoli UE – e potrebbe anche essere sufficiente un ritocco relativamente modesto, se la svalutazione dell’euro darà una grossa mano (com'è possibile).

Oppure lasciare invariati i vincoli ma introdurre la Moneta Fiscale, con l’intesa che non concorre alla determinazione dei parametri di deficit e debito (vedi punto 39, qui).

Le prossime settimane possono essere importanti, anche perché gli accadimenti greci sono potenzialmente in grado di produrre una svolta.

Nulla ancora di certo, s’intende. Ma vediamo.

E nel frattempo Wolfgang Munchau, editorialista (tedesco) del Financial Times e dello Spiegel, ipotizza anche lui, in questo articolo (qui la traduzione italiana) la valuta parallela come elemento chiave della soluzione per la Grecia – e a seguire, con ogni probabilità, anche per Portogallo, Spagna e Italia (io aggiungerei l’Irlanda e la Francia e non escluderei il Belgio).

martedì 27 gennaio 2015

La svalutazione competitiva dell’euro


Vale la pena di quantificare, almeno in termini di ordini di grandezza, il possibile impatto della recente svalutazione dell’euro. Le variazioni sono notevoli e, potenzialmente, in grado di modificare l’evoluzione a breve-medio termine dei fondamentali economici dell’Eurozona.

Mentre scrivo il cambio euro-dollaro oscilla interno a 1,12 contro un livello medio di 1,33 registrato del 2014. Si tratta di una variazione del 15% circa.

Le esportazioni italiane sono pari a circa 480 miliardi. Dimezziamo questo dato per tener conto del fatto che il nostro interscambio si sviluppa per metà all’interno dell’Eurozona, e per metà all’esterno.

Un delta cambio del 15% su 240 miliardi corrisponde a circa 36 miliardi, quindi a oltre il 2% del PIL italiano (pari attualmente a poco più di 1.600 miliardi). Questo è l’equivalente di una manovra espansiva di pari ordine di grandezza.

Naturalmente quanto detto sopra è solo un primo embrione di analisi, molto grezzo e preliminare. Molti altri fattori possono avere un impatto: va comunque detto che, per la maggior parte, hanno buone probabilità di rafforzare ulteriormente l’impatto positivo della svalutazione.

In primo luogo, quanto sopra suppone che tutto il delta cambio si trasli sui prezzi di vendita. Le aziende italiane potrebbero invece, almeno in parte, utilizzare l’indebolimento del cambio per abbassare i prezzi, aumentare i volumi e guadagnare quote di mercato. Ma questo dovrebbe ulteriormente migliorare la situazione. Un’azione di questo genere si effettua soprattutto quando c’è molta capacità produttiva inutilizzata, cosa che rende possibile aumentare i volumi a costi fissi invariati, migliorando i margini unitari delle aziende. Ed è proprio la situazione odierna.

Un altro fattore migliorativo è la possibilità di guadagnare quota di mercato nei confronti dei concorrenti esteri operanti sul mercato italiano. Non tenerla in considerazione equivale a formulare l’ipotesi che i concorrenti abbassino i prezzi in misura pari alla rivalutazione della loro moneta, sacrificando margine per non perdere quota. E’ molto prudenziale ipotizzare che questo avvenga in misura totale: probabilmente un ulteriore, apprezzabile beneficio verrà alle aziende italiane, al contrario, dalla possibilità di sostituire importazioni con produzioni domestiche. Ci sarà anche – se la svalutazione si protrae per un periodo di tempo abbastanza lungo – una tendenza di alcune aziende di proprietà italiana a rilocalizzare in patria produzioni dislocate all’estero nel recente passato. E addirittura possono avvenire trasferimenti di capacità produttiva in Italia da parte di operatori stranieri (anche se questo ha probabilmente tempi ancora più lunghi).

I fattori negativi, che possono erodere il vantaggio della svalutazione, sono in primo luogo la crescita di prezzo delle importazioni (da paesi extraeurozona) di beni non sostituibili con produzioni interne. Il caso tipico è quello delle materie prime: qui però il fenomeno dovrebbe essere largamente compensato dal violento calo del petrolio, disceso nei mesi finali del 2014 a 50 dollari al barile circa quando ormai da alcuni anni si consideravano normali valori doppi.

Un altro elemento negativo sono gli effetti di retroazione sulle economie extraeurozona. Se sottraggo quote di mercato a concorrenti esteri, indebolisco (a parità di condizioni) le loro economie, quindi la loro capacità di assorbimento delle mie vendite diminuisce. Tuttavia il PIL mondiale generato extraeurozona è pari all’85% del totale. Questo equivale a dire che la svalutazione dell’euro stimolerà l’Eurozona in modo molto più apprezzabile di quanto rallenterà l’andamento del resto del mondo.

Il governo italiano potrebbe (e dovrebbe), inoltre, cogliere l’occasione del recupero produttivo per abbassare imposte e contributi sul costo del lavoro, cioè per ridurre il cuneo fiscale. Questa azione, effettuata nelle dimensioni corrette, compenserebbe la crescita delle importazioni italiane dovuta al rimbalzo del PIL, riducendo tra l’altro gli squilibri nei confronti dei paesi più competitivi dell’Eurozona, e della Germania in particolare.

Tutto quanto detto si applica non solo all’Italia ma anche agli altri paesi periferici dell’Eurozona. In pratica, mentre il Quantitative Easing attivato dalla Banca Centrale Europea, come si è detto in molte occasioni, non sostiene la domanda e non dà contributi apprezzabili all’economia reale, la svalutazione competitiva dell’euro può ottenerli.

Dico svalutazione competitiva e non riallineamento valutario perché un cambio euro / dollaro di 1,12 è sicuramente inferiore al livello di equilibrio di lungo termine che, sulla base dei rapporti di produttività e della parità del potere d’acquisto, è stimabile in non meno di 1,25. Ma gli USA, la cui situazione economica è oggi nettamente migliore di quella dell’Eurozona, e per i quali, inoltre, è ormai fortemente predominante il peso del mercato interno e dell’interscambio con l’Asia, potrebbero aver raggiunto un accordo tacito o quantomeno non formalizzato per tirare l’eurosistema fuori dalle secche più gravi, senza che i tedeschi debbano fare troppe concessioni in termini di espansione fiscale. Detto altrimenti, potrebbero non opporsi alla rivalutazione del dollaro e magari accettare che si accentui ulteriormente.

Rimane la necessità di rimandare (sine die, si spera...) l’applicazione del Fiscal Compact, e comunque di utilizzare il bonus dovuto al cambio (e anche al calo del petrolio) per consentire una significativa ripresa di PIL e occupazione, senza stroncare la possibile ripresa (come avverrebbe se si pretendesse di destinare le maggiori risorse che si verranno a generare alla riduzione dei deficit pubblici).

Entro un paio di mesi diventerà chiaro se e in che misura questa analisi è corretta. Personalmente sono combattuto tra il desiderio di vedere finalmente un’inversione significativa nei dati di produzione e occupazione, e il timore che si consenta all’economia reale di rimettere la testa sopra il pelo dell’acqua, ma solo il minimo indispensabile per non affrontare il problema dell’architettura sbagliata – perché sbagliata è e rimane, comunque – dell’eurosistema.

Proprio per questo ho tutte le intenzioni di non abbassare minimamente la guardia sulla diffusione nel progetto Moneta Fiscale. Che tra l’altro è anche, nel momento in cui la possibilità di attuarlo è sul tavolo, un’arma per evitare, appunto, che a Berlino, Bruxelles e Francoforte si stronchi sul nascere la prospettiva di ripresa che la svalutazione dell’euro potrebbe consentire.

E su cui bisogna continuare a ragionare anche perché agli USA un dollaro forte può andare bene oggi, magari per il prossimo paio d’anni, ma certamente non all’infinito. Un assetto economico stabile e sano richiede di fare affidamento sulla domanda interna, non sui surplus commerciali. Concetto, questo, la cui non comprensione da parte di Berlino è all’origine di parecchi dei guai attuali.

sabato 24 gennaio 2015

Una breve intervista


Dottor Cattaneo, partiamo dalle ultime mosse di Draghi e della BCE per rilanciare la ripresa economia dell’Eurozona: ABS e Quantitative Easing. Quale dei due – per modalità e finalità – la convince di più ?

Nessuno dei due mi convince, purtroppo. Entrambe sono finalizzate a immettere risorse nel sistema bancario e nei mercati finanziari, risorse che non si tradurranno in maggior potere d’acquisto per l’economia produttiva. Stiamo vivendo una profonda crisi di domanda che non è risolvibile in assenza di massicci stimoli di natura keynesiana. Serve un forte sostegno alla spesa, privata (via principalmente minori tasse) e/o pubblica. Le azioni varate dalla BCE non contribuiscono a questo.

L’unica leva attualmente in azione che può migliorare in modo significativo l’andamento dell’economia reale nell’Eurozona è la svalutazione del cambio nei confronti del dollaro. Ieri l’euro ha chiuso a 1,12, contro l’1,33 medio del 2014. Nel caso dell’Italia, questo dà un contributo apprezzabile, anche se parziale perché il nostro interscambio avviene solo per metà nei confronti di paesi al di fuori dell’area euro. Si unisce, peraltro, a un ulteriore vantaggio dovuto al forte calo del prezzo del petrolio. Nei prossimi mesi sarà interessante valutare l’impatto di queste variabili. Per modificare sostanzialmente il quadro della situazione, comunque, la svalutazione dell’euro dovrebbe essere ancora più accentuata e protrarsi per almeno un paio d’anni. Fermo restando che i difetti strutturali dell’eurosistema resterebbero irrisolti, e che una pesante sottovalutazione dell’euro non può essere accettata all’infinito dagli USA e dal resto del mondo.


A tale proposito nella querelle tra Mario Draghi e Angela Merkel da che parte sta e perché ?

Per la verità, Angela Merkel non è parte della querelle in quanto rispetta il principio dell’indipendenza della BCE dai governi. Almeno formalmente. La controparte di Draghi in questo dibattito è Jens Weidmann, il capo della Bundesbank. La mia posizione è che, semplicemente, Draghi ha spinto per ABS e QE sperando che svolgano un’azione di stimolo dell’economia mentre Weidmann teme che creino distorsioni e inflazione. Hanno torto entrambi. Se le risorse non vengono indirizzate all’economia reale, queste manovre incidono poco o nulla sia sull’attività produttiva che sull’inflazione.


Lei ritiene che l’Eurozona non sia più sostenibile. Perché ? ritiene ormai a fine corsa la sopravvivenza dell’euro ?

Con i vincoli che l’eurosistema impone ai bilanci pubblici dei singoli stati, per l’Eurozona è impossibile recuperare i danni prodotti da una crisi economica che dura ormai da più di sei anni. La situazione è risolvibile a livello politico, ma l’intransigenza tedesca non pare attenuarsi. Senza una totale revisione di questi meccanismi di funzionamento, l’Eurozona rimarrà in una situazione di stagnazione ed alta disoccupazione per un periodo di tempo imprecisato. Detto questo, tecnicamente l’euro può sopravvivere perché la BCE può sempre evitare lo scatenarsi di una crisi finanziaria, di un attacco speculativo ai titoli dei paesi in difficoltà, garantendoli (di fatto) grazie alla sua potestà di emettere moneta. Tuttavia, le tensioni sociali e politiche sono in crescita in tutti i paesi periferici dell’Eurozona. E’ questo che fa dubitare che il sistema sopravviva nella forma attuale.


Se si applicasse il Fiscal Compact quali miglioramenti sarebbero realmente possibili ?

Il tentativo di applicare il Fiscal Compact sarebbe un’altra sciagura. Il Fiscal Compact comporta ulteriori politiche restrittive da mettere in atto da parte dei paesi che non riescono a centrare i vincoli di bilancio e di riduzione dei debiti pubblici previsti dall’eurosistema. Azioni di questo tipo inasprirebbero ulteriormente la crisi, senza peraltro fare nulla di positivo per riequilibrare i parametri di finanza pubblica. La caduta di PIL e occupazione, al contrario, peggiorerebbe l’incidenza del debito pubblico sul PIL. In realtà, il Fiscal Compact è un trattato, nei fatti, già decaduto.


Una soluzione per salvare l’Eurozona per lei è il “progetto Moneta Fiscale”. Ci spiega cos’è ?

E’ l’introduzione, da parte di tutti i paesi in difficoltà, di una moneta nazionale utilizzabile per pagare tasse e, in generale, ogni tipo di obbligazione finanziaria verso l’amministrazione pubblica. La Moneta Fiscale può essere utilizzata per aumentare la spesa e per diminuire il carico fiscale che grava sulle varie economie.


Quali sarebbero i vantaggi ?

I singoli paesi possono in questo modo rilanciare le loro economie senza emettere debito in euro e senza ricorrere a sostegni da parte della BCE. Le azioni di sostegno della spesa e di riduzione della fiscalità verrebbero attuate emettendo Moneta Fiscale. Ne seguirebbe una rapida ripresa in quanto si risolverebbe l’origine della crisi, la mancanza di potere d’acquisto in circolazione e la conseguente carenza di domanda. Il tutto, senza una rottura deflagrante della moneta unica, perché la Moneta Fiscale si affiancherebbe all’euro, senza conversioni forzate di stipendi, pensioni, crediti, titoli o altro.


Ma questa sua proposta non entra in contrasto con l’attribuzione del monopolio dell’emissione alla BCE ?

Il trattato di Maastricht (articolo 105, comma 2) precisa che banconote e monete metalliche possono essere emesse solo dalla BCE, o su sua autorizzazione. Ma la Moneta Fiscale sarebbe costituita da titoli statali e circolerebbe in forma elettronica e dematerializzata: non c’è necessità di emettere monete e banconote. Detto questo, la conformità ai trattati è, paradossalmente, un problema di importanza secondaria, in quanto il sistema dei trattati che governano l’Eurozona (vedi quanto detto sopra per il Fiscal Compact) è ormai, nel suo complesso, inapplicabile.


A marzo la UE dovrà pronunciarsi sulla Legge di Stabilità 2015. C’è da preoccuparsi sul responso anche alla luce dei nuovi meccanismi di valutazione ? In ogni caso qual è il suo giudizio su questa finanziaria ?

La definirei una “finanziaria di traccheggiamento”. Il governo Renzi ha cercato di evitare un ulteriore inasprimento dei vincoli di bilancio, e tutto il dibattito con la UE riguarda, in effetti, pochi decimi di punto di tagli di spese o di maggiore tassazione che l’Italia forse riuscirà a evitare, o forse no. Meglio il primo caso del secondo, ovviamente, ma la sostanza cambia ben poco. Il 2015 sarà un altro anno senza crescita, con ulteriori fallimenti di aziende e aumento della disoccupazione. L’unica variabile che può modificare questa situazione – tutta ancora da valutare nell’entità, negli impatti e nei tempi di ricaduta, peraltro – è la svalutazione dell’euro.


Quale dovrebbe essere la priorità del governo italiano ?

La revisione completa dell’architettura dell’Eurozona. Da concordare con i partner se è possibile, altrimenti da attuare in modo unilaterale. Il progetto Moneta Fiscale ha le caratteristiche per essere la strada da percorrere, in quanto non “spacca” la moneta unica ma si pone in affiancamento ad essa, ed è applicabile in modo da conciliare la ripresa dell’economia con la tutela della stabilità finanziaria e dei diritti dei creditori.

domenica 18 gennaio 2015

Dico la mia sul franco svizzero


Visto che me l’hanno chiesto in parecchi…

A me stupisce lo stupore. Se uno stato fissa un rapporto di cambio con una moneta estera perché la sua si sta rivalutando eccessivamente, vuol dire che sta contrastando una tendenza naturale.

Mi sembra addirittura banale. Nel 2011 gli svizzeri hanno bloccato il cambio a 1,20 contro euro perché le loro imprese e il loro settore turistico stavano subendo gli effetti, in quel momento, di una rivalutazione troppo rapida. Ma la tendenza era in quella direzione e mi pareva assolutamente chiaro che il “peg” non sarebbe durato all’infinito.

Se non ci credete, vi fornisco i nomi di qualche dozzina di persone a cui ho suggerito di comprare franchi svizzeri. Non si rischiava assolutamente nulla. Rendono zero ma rende zero anche l’euro. Il “peg” prima o poi sarebbe stato rimosso e il cambio sarebbe immediatamente salito. A quanto ? anche qui era facile dire: circa a 1, il livello che il franco aveva già quasi raggiunto nel 2011.

Molto più difficile è prevedere la data in cui la rimozione del “peg” si verifica. Al massimo qui mi ero azzardato a ipotizzare una data limite. Pochi giorni fa, a un amico avevo detto 30 giugno 2017. La realtà è stata parecchio più veloce…

Adesso in molti parlano di gravi danni all’economia svizzera. Ma nel frattempo si è rivalutato il dollaro, che per le esportazioni elvetiche oggi pesa almeno tanto quanto l’euro. Ed è crollato il petrolio.

I danni francamente sono gestibili senza difficoltà. Industriali e operatori turistici svizzeri stanno strillando, ma basta che gli venga concessa una riduzione (per esempio) di tasse e contributi sui costi di lavoro per parare il colpo. Un paese che stampa la sua moneta, che attualmente non sta facendo deficit spending e che emette debito a tassi negativi (!) ha zero problemi ad attuare un’azione di questo tipo. Gli strilli delle aziende svizzere servono, banalmente, a ottenere qualcosa di più e non qualcosa di meno di quanto loro necessario. Tutto il mondo è paese…

sabato 17 gennaio 2015

Il grande equivoco tra Bruxelles e Berlino


L’avvocato generale della Corte Europea di Giustizia ha emesso, il 13.1 scorso, la sua opinione sul ricorso della Corte Costituzionale tedesca nei confronti del “whatever it takes” di Draghi, il programma OMT che dà alla BCE la facoltà di acquistare illimitatamente (sia pure sotto certe condizioni) titoli di Stato emessi dai paesi membri dell’Eurozona.

Non è la sentenza definitiva (che richiederà ancora alcuni mesi) ma un parere preliminare che, tuttavia, costituisce un calco a cui la Corte generalmente si conforma.

La Corte Europea sta dicendo, nella sostanza, due cose alle Corte Costituzionale tedesca.

La prima è: tu non puoi invocare la Costituzione tedesca per opporti ad azioni di un organismo della UE.

La seconda: la formulazione della politica monetaria dell’Eurozona, peraltro, deve essere riservata alla BCE, in quanto gli stati nazionali e le loro banche centrali non ne possiedono le competenze.

La maggior parte dei commentatori ha visto, in tutto ciò, un semaforo verde alla partenza del programma di Quantitative Easing, largamente atteso per il prossimo 22 gennaio (en passant, e peraltro, del tutto inutile allo scopo di rilanciare l’economia dell’Eurozona. A giudizio di molti – me incluso, per quello che vale).

Invito a riflettere, tuttavia, su un tema a cui personalmente attribuisco molta più importanza. Tra Corte Europea e Corte Tedesca si è venuto a creare un conflitto che va ben al di là del (pur importantissimo) tema specifico. Si parla della prevalenza, o meno, dei trattati UE rispetto alle costituzioni degli stati membri.

L’attuale assetto di potere nell’ambito dell’Unione Europea, e dell’Eurozona in particolare, è basato su un patto non scritto. Si è formato un blocco di interessi che unisce la burocrazia di Bruxelles con lo stato più grande, per popolazione e per dimensioni dell’economia.

Bruxelles conterebbe molto di meno se non fosse fortemente sostenuta dalla Germania. Conterebbe ben poco, in realtà. Forse non molto più che ai tempi di De Gaulle il quale (si dice) quando il suo ministro degli esteri gli chiedeva lumi sul nome del funzionario destinato a occupare una determinata posizione presso la CEE, rispondeva “mandateci il più stupido”.

La Germania viene contraccambiata con un trattamento assolutamente privilegiato nell’interpretazione di accordi e trattati, e più ancora sulla loro disapplicazione. Nessuno si sogna nemmeno, ad esempio, di ipotizzare l’apertura di una procedura d’infrazione contro la Germania per lo sfondamento del limite surplus commerciale / PIL (oltre il 6% in sette degli ultimi otto anni), che è una palese violazione dei trattati.

Il blocco di potere, quindi, è chiaramente definito: la Germania conferisce autorità a Bruxelles, Bruxelles interpreta le regole (o le ignora del tutto, nel caso) nel senso più gradito alla Germania. Le classi politiche al governo negli altri paesi si allineano a condizione che questo assetto, che non è positivo per le loro popolazioni, tuteli invece i loro interessi clientelari e lobbistici. I grandi gruppi finanziari e industriali non mettono in discussione l’assetto di potere ma lo prendono come un dato di fatto perché, come sempre, hanno interesse a indirizzarlo ai loro fini: mai a metterlo in discussione (è il motivo per cui la Fiat era fascista nel 1936, democristiana nel 1956, e pronta a diventare comunista o quantomeno berlingueriana nel 1976).

All’apparenza è un blocco invincibile. Ci sono però due elementi da tenere in considerazione.

Il primo è che il progetto principale su cui la UE ha puntato le sue carte è la moneta unica europea e il sistema di accordi di governo delle economie dei vari stati, che sulla moneta unica s’impernia. E che sta producendo risultati catastrofici.

Il secondo è che tra Bruxelles e Berlino gli interessi sono stati fin qui allineati, ma l’obiettivo finale è profondamente differente.

Bruxelles punta all’unione politica, agli Stati Uniti d’Europa.

Berlino, NO. Per la Germania, l’Unione Europea è uno strumento di perseguimento dei propri interessi nazionali. I trattati UE valgono in quanto (a giudizio della Germania stessa, e l’organo deputato ad esprimere queste valutazioni è principalmente, appunto, la Corte Costituzionale di Karlsruhe) non confliggano con gli interessi tedeschi.

Il nodo viene al pettine in quanto l’euro ha innescato una crisi che, nell’opinione dei vari Monnet, Attali, Delors, Monti, Padoa Schioppa, Prodi (curiosamente, nessun nome tedesco in questo elenco…) doveva o dovrebbe creare le condizioni per il “grande salto in avanti” verso l’unione politica.

Ora ci siamo. E questo è anche il momento in cui viene allo scoperto l’equivoco. Se la Germania NON accetta l’unione politica (come ci sono parecchi motivi per ritenere) e se i costi di mantenere in essere questo sistema monetario superano, a un certo punto, i benefici ANCHE per la Germania, il passo successivo è lo scioglimento dell'unione monetaria.
Il resto è solo (per quanto importante) una questione di tempi e di modalità.

venerdì 16 gennaio 2015

I trattati i trattati i trattati


In un'intervista (ricca peraltro di spunti interessanti, che in larga parte condivido) sulla situazione greca, Emiliano Brancaccio – interpellato in merito all’Appello sulla Moneta Fiscale – afferma quanto segue:

“L’obiettivo di fondo è naturalmente condivisibile, ma mi lascia perplesso la tesi dell’Appello secondo cui la Moneta Fiscale sarebbe compatibile con gli attuali trattati europei. Se di moneta si tratta, allora la proposta entra in contrasto con l’attribuzione del monopolio dell’emissione alla BCE. Se non si tratta di moneta, allora va inscritta nel bilancio pubblico, e quindi si scontra con il limite del tre per cento tra deficit e PIL. Piuttosto che cercare improbabili compatibilità, forse sarebbe meglio andare dritti al nodo della insostenibilità dei trattati stessi”.

Allora, il tema della compatibilità con i trattati riemerge a scadenze periodiche e frequentissime. Ho cercato di chiarirlo varie volte – per esempio qui (al punto 37) - ma vale la pena di sottolineare una cosa che forse sfugge all’attenzione di molti.

La compatibilità con i trattati è un punto del tutto secondario. Il sistema dei trattati attuali è tutto da riscrivere, comunque (ed è appunto quanto Brancaccio afferma, del resto). Il Fiscal Compact è ineseguibile – lo dice l’aritmetica – e l’OMT è considerato non conforme alla costituzione tedesca dalla Corte di Karlsruhe.

Nel momento in cui l’intero assetto dell’eurosistema è insostenibile, il problema non è più che cosa sia più o meno coerente con l’impianto oggi (formalmente) in essere. E' come riformare il sistema in modo da renderlo funzionale e duraturo.

Le alternative possibili, salvo proposte di cui non sono a conoscenza, sono e restano:

Il breakup dell’euro, con tutte le sue complicazioni e inefficienze.

Lo sforamento unilaterale dei limiti di bilancio da parte dei paesi che ne hanno bisogno, purché coperto e garantito dalla BCE – che però questa copertura non la fornisce. E se la fornisse, emettere debito in moneta straniera espone i singoli paesi a maggiori rischi se la copertura BCE per qualsiasi motivo viene, a certo punto, meno.

L’”Helicopter Money” da parte della BCE – ma anche qui, i singoli stati dipendono dalla volontà di un soggetto esterno, che a tutt’oggi appare lontanissimo dal prendere in considerazione un’azione di questo tipo.

E la Moneta Fiscale.

Il progetto Moneta Fiscale, di tutte queste alternative, è l’unico che combina (i) l’attuabilità per volontà autonoma di singoli stati, e (ii) il rispetto della finalità del Fiscal Compact (evitare di accrescere, e anzi nel tempo ridurre secondo ritmi prefissati, l’indebitamento che grava sui vari stati e che può dare luogo a insolvenze: la Moneta Fiscale non deve essere rimborsata e quindi, per definizione, insolvenze non ne genera).

E’, di tutte, l’alternativa che modifica in modo meno radicale o deflagrante l’architettura del sistema attuale, e che permette allo stesso tempo di conseguire gli obiettivi di crescita, stabilità monetaria, riduzione dei rischi finanziari senza il raggiungimento dei quali l’eurosistema è destinato a collassare.

Di fronte a tutto questo, l’aderenza ai trattati così come attualmente sono formulati passa, francamente, del tutto in secondo piano.

Per completezza e per rispondere alle domande sul tema, che comunque vengono poste in modo ricorrente e frequente, ribadisco che, mentre tutte le alternative sopra accennate rappresentano, incontestabilmente, delle rotture, la Moneta Fiscale (a) non essendo debito non concorre a far superare il limite del 3% e (b) non è attaccabile ai sensi dell’articolo 105, comma 2, del trattato di Maastricht, che riserva alla BCE l’emissione (direttamente o autorizzando le Banche Centrali dei singoli stati) non di qualsiasi forma di moneta ma solo di banconote e monete metalliche.

Però, ancora una volta: la riforma del sistema monetario europeo per il tramite della Moneta Fiscale non è preferibile (non in primo luogo, quanto meno, e neanche in secondo o in terzo) perché più rispettosa dei trattati, ma perché combina una molto maggiore rapidità e semplicità di esecuzione (rispetto in particolare al breakup) con il rispetto degli obiettivi che garantiscono la sostenibilità del sistema monetario europeo.

martedì 13 gennaio 2015

Perché la deflazione è un problema


La BCE sta valutando l’avvio di un’operazione di Quantitative Easing finalizzata ad evitare che l’Eurozona cada in deflazione, e a riportare il trend di crescita dei prezzi vicino all’obiettivo statutario di un livello “inferiore ma prossimo” al 2%. Oggi siamo poco sopra lo zero, con tendenza ad ulteriori riduzioni.

Una domanda non scontata né banale è: che cosa c’è di male nella tendenza dei prezzi a scendere ? se l’economia va male, avere i prezzi che salgono non sarebbe ancora peggio, dal punto di vista del potere d’acquisto dei consumatori, e del benessere pubblico in generale ?

Le due risposte che si leggono con maggiore frequenza non sono (credo) del tutto convincenti.

In primo luogo, si dice, l’aspettativa di prezzi in discesa spinge a differire le decisioni di consumo, e quindi ha un effetto di compressione della domanda e della produzione. Questa è un’argomentazione non sbagliata in sé, ma mi lascia scettico che l’impatto di questo fattore sia molto rilevante. Se ho capacità di spesa e necessità / utilità di acquistare un bene o un servizio, attendere la discesa del prezzo può indurmi a differire una decisione d’acquisto per un periodo di tempo (presumibilmente) breve: ma alla fine compro. I prezzi dei pc, ad esempio, sono scesi costantemente, a parità di prestazioni, per trent’anni. Chi doveva sostituire il suo, attendeva magari l’uscita del nuovo modello se era prevista tre mesi dopo: ma non si bloccava di certo perché l’anno successivo sarebbe uscito un altro modello ancora più performante e/o a minor costo.

Più solida è l’argomentazione che esiste lo “zero lower bound”. I tassi d’interesse non possono scendere sotto zero. Prezzi in discesa implicano quindi tassi d’interesse reali in salita, perché esiste una soglia sotto la quale i tassi nominali non possono scendere. Questo è un problema dal punto di vista del servizio del debito per ogni soggetto economico su cui gravano passività finanziarie: il privato che ha un mutuo, l’azienda indebitata, ma anche lo stato che paga interessi sul debito pubblico.

Nello stato di depressione economica in cui si trova la maggior parte dell’Eurozona, tuttavia, la deflazione è, effettivamente, un guaio, ma non tanto in sé quanto perché è conseguenza del problema che, a monte, la produce. La deflazione è un guaio perché nasce dalla carenza di domanda rispetto alle capacità produttive del sistema economico.

I prezzi tendono a scendere perché la pretesa delle autorità di Bruxelles di “consolidare i conti pubblici”, cioè di “rimetterli in ordine”, ha spinto l’Eurozona nel suo complesso a intraprendere azioni di riduzione di spesa pubblica e, soprattutto, di incremento di imposizione fiscale, principalmente a partire da metà 2011: quando la maggior parte delle economie nazionali erano ancora ben lontane dall’aver recuperato gli effetti della crisi finanziaria mondiale del 2008.

Il tentativo di “consolidare i conti pubblici” ha avviato una catena di effetti: meno domanda, meno consumi, meno produzione, meno occupazione, meno gettito fiscale, debiti pubblici che (in proporzione al PIL) salgono invece di scendere.

Il progressivo deterioramento della situazione generale dell’Eurozona è la causa dei tassi d’inflazione molto bassi, tendenti al negativo. Il rischio di deflazione, in altri termini, è estremamente preoccupante a causa di ciò che lo origina: la costante carenza di domanda e il continuo deterioramento dell’economia reale.

Con questo si torna al motivo per cui il QE eurozonico, se mai verrà avviato, risulterà sostanzialmente inutile. L’idea è di emettere moneta per comprare titoli di Stato, senza però consentire alle varie nazioni di espandere i deficit di bilancio, cioè il saldo tra spese pubbliche ed entrate fiscali. Questo equivale a NON mettere maggior potere d’acquisto a disposizione di aziende e cittadini. L’effetto sulla domanda è, di conseguenza, inesistente.

Si sta cercando di riscaldare una casa accendendo un fiammifero sotto il termometro. La casa resterà fredda (e la temperatura indicata dal termometro, tra l’altro, salirà poco o nulla).

La deflazione è, oggi, un problema principalmente a causa della sua origine. E che cosa stanno programmando Bruxelles e Francoforte di realmente efficace per contrastarla, e soprattutto per contrastarne la causa – la carenza di domanda aggregata nel sistema economico ?

La risposta, qui, può essere espressa in forma particolarmente sintetica.

Niente.

sabato 10 gennaio 2015

Progetto Moneta Fiscale: assicurare la stabilizzazione finanziaria ed eliminare i rischi di insolvenza


Premessa

Senza cambiamenti profondi negli attuali meccanismi di conduzione delle politiche macroeconomiche, la crisi dell’eurosistema continuerà ad aggravarsi e a cronicizzarsi.

L’introduzione di una Moneta Fiscale nazionale (Certificati di Credito Fiscale / CCF) in affiancamento all’euro (in Italia e in tutti i paesi che hanno bisogno di ridurre le tasse, migliorare la competitività delle aziende, ed espandere la domanda) è in grado di risolvere le disfunzioni dell’eurosistema e di rimuovere, una volta per tutte, il dubbio che possa, prima o poi, verificarsi una rottura deflagrante della moneta unica.

Non viene richiesto, inoltre, ai paesi dell’ex area marco di accettare alti livelli di inflazione interna per riequilibrare la propria competitività rispetto al resto dell’Eurozona. Il riequilibrio di competitività dei paesi periferici avviene mediante assegnazione di Moneta Fiscale nazionale che va (in parte) a ridurre il cuneo fiscale che attualmente grava sulle loro aziende. La Germania, in particolare, non deve aumentare prezzi e salari interni: non subisce, quindi, perdite di competitività nei confronti dei paesi extra eurozona, né perdite di potere d’acquisto dei risparmi dei propri cittadini.

 

Esigenze di stabilizzazione finanziaria e di tutela dei creditori

L’attuazione del progetto Moneta Fiscale risulterà, com’è ovvio, enormemente facilitata se lo schema di riforma includerà una serie di meccanismi di tutela, che diano, ai creditori degli stati che introdurranno la Moneta Fiscale nazionale, ampie garanzie di essere rimborsati senza subire perdite né svalutazioni. Tutto ciò, fermo restando l’avvio di una forte ripresa di domanda, produzione e occupazione nell’intera Eurozona.

Nei paragrafi successivi, verranno sinteticamente delineate le principali possibili caratteristiche di questi meccanismi di tutela.

 

UNO: opzione di conversione dei titoli di Stato in circolazione in BTP fiscali

Al momento dell’introduzione della Moneta Fiscale nazionale, tutti i titolari di debito pubblico in euro ricevono un diritto d’opzione, che consente loro (senza peraltro creare alcun obbligo) di convertire i titoli in loro possesso in BTP Fiscali, cioè in titoli che pagheranno capitale e interessi in Moneta Fiscale e non in euro. I BTP Fiscali avranno scadenze più lunghe e tassi d’interesse più alti rispetto ai titoli in euro oggetto dell’opzione di conversione: per esempio tre anni in più di scadenza e un tasso maggiorato di due punti percentuali.

DUE: nel caso degli operatori finanziari istituzionali, condizionare l’assegnazione dei CCF all’esercizio dell’opzione di cui a UNO

Il progetto Moneta Fiscale prevede di assegnare gratuitamente, ogni anno, fino a un massimo di 80 miliardi di CCF ad aziende che operano sul territorio italiano, in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti. Questo riduce il loro costo del lavoro effettivo e riallinea la competitività delle aziende italiane con quella degli stati più efficienti dell’Eurozona.

Circa 3 miliardi su 80 sarebbero da assegnare a società che operano nel settore bancario, finanziario e assicurativo, che sono anche grossi investitori in titoli di debito pubblico. A queste società, i CCF verrebbero assegnati solo a condizione che esercitino la conversione di titoli di Stato in euro (quelli attualmente esistenti) in BTP fiscali, sulla base di un rapporto prestabilito. Ad esempio, un CCF del valore facciale di un euro potrebbe essere assegnato per ogni 10 euro di titoli di stato convertiti. Se questo si verifica, ogni anno l’ammontare di titoli in euro diminuisce (per questo solo effetto) per un importo fino a un massimo di 30 miliardi.

 

TRE: rifinanziamento del debito pubblico in scadenza mediante BTP Fiscali

TRE, nella maggior misura possibile, lo Stato italiano riduce (se possibile azzera) le emissioni di titoli di Stato in euro, emettendo invece BTP Fiscali.

 

QUATTRO: opzione di differimento dell’utilizzo di CCF e BTP Fiscali

Nel momento in cui CCF e BTP Fiscali giungono a scadenza (cioè arriva la data in cui diventano utilizzabili per pagare tasse e per onorare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione), al titolare viene offerta la possibilità di non utilizzarli immediatamente, differendone, invece, l’impiego. In questo caso, viene riconosciuta una maggiorazione del loro importo sulla base di un tasso di interesse (per esempio il 3% annuo). L’interesse viene anch’esso riconosciuto sotto forma di Moneta Fiscale.

Ad esempio, un CCF per un valore di 100, utilizzabile a partire dal 1° luglio 2018, potrebbe essere impiegato per onorare impegni finanziari verso la pubblica amministrazione pari a 103 se l’impiego si verifica, invece, il 1° luglio 2019.

 

CINQUE: impegni al pareggio di bilancio e all’attuazione del Fiscal Compact confermati ma con riferimento ai saldi netti in euro e al debito totale in euro

Viene confermato l’impegno a pareggiare il bilancio pubblico, ma con riferimento al saldo tra spese e incassi in euro. Viene altresì confermato l’impegno a ridurre il rapporto debito pubblico / PIL secondo la progressione prevista dal Fiscal Compact, precisando però che il debito pubblico è quello vero, quello cioè da rimborsare in euro: CCF e BTP fiscali, quindi, esclusi.

 

SEI: clausole di salvaguardia

Nell’ipotesi, estremamente improbabile, che tutto quanto sopra esposto non funzioni (ovvero se l’introduzione dei CCF produce effetti espansivi su domanda e PIL estremamente scarsi, e se tutte le azioni sopra descritte, da UNO a QUATTRO, falliscono o danno risultati estremamente modesti), il governo italiano attiva clausole di salvaguardia, mediante una o alcune (in combinazione) delle modalità sintetizzate qui di seguito, da SETTE a NOVE.

 

SETTE (prima possibile clausola di salvaguardia): prelievo patrimoniale compensato da erogazione di Moneta Fiscale

Viene effettuato un prelievo patrimoniale straordinario, da corrispondersi in euro, compensato però dall’erogazione di Moneta Fiscale (CCF o BTP Fiscali) per un valore effettivo sostanzialmente equivalente.

Questa azione, fermo restando che è altamente remota l’ipotesi che si arrivi effettivamente ad adottarla, è enormemente più indolore rispetto a una pura e semplice imposta patrimoniale. Per esempio, in luogo di richiedere un contributo di 15.000 euro a una famiglia con un patrimonio complessivo di 500.000, si parlerebbe di prelevare i medesimi 15.000 euro attribuendo in cambio BTP Fiscali di pari importo. In pratica, non sarebbe un’imposta patrimoniale ma un obbligo di sottoscrizione di BTP Fiscali (liquidi, negoziabili e di valore economico in linea con l’importo pagato in euro).

 

OTTO (seconda possibile clausola di salvaguardia): parziale conversione di spesa pubblica in Moneta Fiscale

Una quota di spesa pubblica viene convertita da euro a Moneta Fiscale.

Anche questa azione è nettamente meno penalizzante rispetto a un puro e semplice taglio di spesa. Ridurre ad esempio del 2,5% le retribuzioni dei dipendenti pubblici – ad esempio da 2.000 euro a 1.950 mensili – ha pesanti effetti depressivi; continuare a pagare 2.000, salvo che 1.950 rimangono in euro e 50 si convertono in Moneta Fiscale, molto ma molto meno.

 

NOVE (terza possibile clausola di salvaguardia): incrementi di tassazione compensati da erogazioni di Moneta Fiscale

In questo caso si tratterebbe, per esempio, di incrementare l’IVA di un punto percentuale, attribuendo però ai soggetti che la versano un pari importo di Moneta Fiscale nell’occasione di ogni versamento.

Va ricordato che, dopo che tra il 2011 e il 2013 l’aliquota base IVA è aumentata dal 19% al 22%, la legge di stabilità approvata a fine 2014 prevede che, tra il 2016 e il 2018, possano automaticamente scattare ulteriori incrementi, senza alcuna compensazione, fino a un massimo del 25,5%. Questi incrementi si verificherebbero in scenari di andamento negativo del deficit pubblico, presumibilmente dovuti alla mancata ripresa dell’economia, e con ogni probabilità appesantirebbero ulteriormente la domanda interna (vanificando, come è regolarmente avvenuto nel recente passato, il beneficio sul gettito).

Un incremento di tassazione da versare in euro, compensato dall’erogazione di Moneta Fiscale, consente invece, anche in questo caso, di migliorare il rapporto tra spese e incassi statali annui in euro, senza peggiorare l’andamento economico generale.

 

Situazione finale

Si delinea in definitiva una struttura di riforma in seguito alla quale:

===> L’economia italiana ottiene un poderoso rilancio.

===> La competitività delle aziende italiane migliora immediatamente, evitando che il recupero della domanda interna crei squilibri nei saldi commerciali esteri.

===> Non si verifica nessun “frantumazione” della moneta unica europea.

===> Il debito pubblico italiano espresso in euro (quello, cioè, che può dar luogo a rischi di default) viene in pochi anni ricondotto a percentuali molto più basse rispetto al PIL. Nel medio termine, si può arrivare addirittura all’azzeramento di ogni forma di debito pubblico in euro.

===> Lo stato italiano può finanziarsi senza ricorrere a incrementi di debito in euro, erogando Moneta Fiscale sia in forma di CCF che di BTP Fiscali.

===> Si garantisce un altissimo livello di tutela ai creditori, eliminando dal novero delle possibilità concrete ogni ipotesi di default o di svalutazione.
===> Non si richiede ad altri stati dell’Eurozona, in particolare alla Germania, di inflazionare prezzi e salari interni: quindi né di perdere competitività verso i paesi extra eurozona né di far subire ai propri cittadini perdite di valore dei loro risparmi.

martedì 6 gennaio 2015

La riforma dell’Eurosistema mediante introduzione di Monete Fiscali nazionali


Obiettivi del progetto “Moneta Fiscale”

Il progetto “Moneta Fiscale” si propone di risolvere le disfunzionalità dell’attuale sistema monetario europeo, creando le condizioni per una forte ripresa dell’economia dell’Eurozona, e salvaguardandone nello stesso tempo la stabilità monetaria e finanziaria.

 

I Certificati di Credito Fiscale (CCF)

Nel caso dell’Italia, il progetto “Moneta Fiscale” prevede, in primo luogo, di emettere fino a un massimo di 200 miliardi annui di titoli di Stato – i Certificati di Credito Fiscale, o CCF – aventi natura monetaria e non di debito.

Per “natura monetaria” s’intende che lo Stato italiano non si impegnerà a rimborsare questi titoli, bensì ad accettarli, a partire da due anni dopo la loro emissione, a fronte del pagamento di tasse, imposte, contributi previdenziali e sanitari, multe eccetera: qualsiasi obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione italiana (enti locali inclusi) potrà essere estinta utilizzando indifferentemente CCF o euro.

L’accettazione dei CCF da parte della pubblica amministrazione li rende, di conseguenza, una forma di moneta nazionale: possono essere definiti moneta italiana ad utilizzo differito.

Il differimento di utilizzo (i due anni di cui sopra) è giustificato dal fatto che, nel momento in cui vengono impiegati, i CCF a parità di condizioni riducono gli euro incassati dallo Stato italiano. Il differimento dà all’economia italiana il tempo di ottenere un significativo recupero di PIL, e quindi anche di entrate fiscali, compensando così l’effetto dell’utilizzo dei CCF quando giungeranno a maturazione.

Il progetto prevede tre destinazioni principali per le assegnazioni di CCF: le aziende private, i lavoratori e un insieme di altre forme di spesa. Su 200 miliardi totali massimi assegnati ogni anno, all’incirca 80 andrebbero alle aziende private, 70 ai lavoratori e 50 ad altre forme di spesa.

Le aziende private riceveranno CCF in misura dipendente dai costi di lavoro da esse sostenuti. E’ previsto un meccanismo a scaglioni, che determinerà un’incidenza percentuale più elevata sui costi pagati a lavoratori con redditi più bassi. Per ogni 100 euro pagati in retribuzioni, imposte e contributi, l’azienda riceverà fino a un massimo di 20 euro in CCF. Per i redditi più alti, la percentuale scenderà considerevolmente. Potranno inoltre essere previsti meccanismi incentivanti per le aziende che incrementano l’occupazione.

Riguardo ai lavoratori (sia dipendenti che autonomi), il meccanismo proposto è analogo, sempre a scaglioni: il lavoratore percepirà, in aggiunta a una retribuzione netta di 100 euro, fino a un massimo 20 euro in CCF – con percentuale in discesa per i redditi alti.

Aziende e lavoratori riceveranno quindi gratuitamente un considerevole importo di CCF, in pratica di moneta utilizzabile (nei confronti della pubblica amministrazione) due anni dopo l’assegnazione originaria. Chi non avrà esigenze finanziarie immediate, potrà mantenerli in portafoglio come forma di risparmio. Altrimenti potranno essere monetizzati in anticipo.

La monetizzazione sarà possibile in quanto si svilupperà un attivo mercato finanziario. I CCF sono, a tutti gli effetti, una categoria di titoli di Stato. Ci saranno a regime massimi 400 miliardi di CCF in circolazione (due anni di emissioni, dopo i quali le nuove assegnazioni sostituiranno quelle in scadenza).

La monetizzazione anticipata comporterà uno sconto finanziario, in quanto 100 euro di CCF equivalgono a una banconota da 100 euro che il possessore non può utilizzare se non tra due anni. Ma il valore finale è certo, addirittura più di quello di un titolo destinato a essere rimborsato in euro. Lo Stato potrebbe, infatti, andare in default sui suoi impegni di pagamento di euro, mentre il CCF avrà sempre e comunque un valore. Lo sconto finanziario sarà determinato dal mercato, ma approssimativamente si può stimare che non sarà molto diverso da quello di un tasso CTZ a due anni.

Il compratore finale dei CCF scambiati sul mercato sarà un soggetto che avrà esigenze di pagamento nei confronti dello Stato italiano (per tasse o altro) e li utilizzerà quindi alla scadenza.

Gli ulteriori massimi 50 miliardi annui (le “altre forme di spesa” sopra citate) potranno essere utilizzati per varie operazioni di sostegno della domanda: integrazione di reddito alle categorie disagiate (inclusi cassaintegrati, pensionati a basso livello di reddito e disoccupati), investimenti pubblici, spesa sociale, interventi di ricostruzione in aree colpite da calamità naturali eccetera.

 

Obiettivi di rilancio dell’economia

Viene proposta un’emissione annua massima di 200 miliardi in quanto, a causa del calo di PIL prodotto nel 2008 dalla crisi finanziaria mondiale, e ulteriormente (soprattutto dal 2012 in poi) dall’eurocrisi, il PIL italiano è fortemente inferiore al suo potenziale. Se dal 2007 in poi si fosse avuta una crescita reale media dell’1% - tasso considerato modesto, in condizioni normali – il PIL 2014 sarebbe stato più alto di circa 300 miliardi. Questo è l’output gap da colmare. Una crescita media del 5% all’anno per tre anni è fattibile con la riforma proposta, e colma la maggior parte di questo deficit di PIL.

Le assegnazioni annue massime previste sono 200, non 300 miliardi, perché un’immissione di domanda nell’economia avvia una catena di eventi – il percettore di maggior reddito a sua volta in parte lo spende, aumentando il reddito di altre aziende e/o individui, eccetera. L’effetto è quindi più che proporzionale.

 

Impatto sui saldi commerciali esteri

La composizione esatta dell’intervento (200 miliardi annui massimi, nell’ipotesi sopra descritta, suddivisi, come detto, tra 80 alle aziende private, 70 ai lavoratori, e 50 in altri impieghi) sarà il frutto di decisioni politiche. E’ però fondamentale l’ordine di grandezza destinato alle aziende, in quanto occorre riallineare il costo del lavoro per unità di prodotto italiano a quello dei membri più efficienti dell’Eurozona, in particolare della Germania. L’importo di 80 miliardi corrisponde al 18% circa dei costi di lavoro delle aziende private italiane.

Una riduzione dei costi di lavoro lordi effettivi di questo ordine di grandezza riporta la competitività italiana a livelli tedeschi, in modo analogo (anche se con un altro meccanismo) a quanto farebbe la “spaccatura” dell’euro e il conseguente riallineamento valutario. Viene quindi meno una fonte di squilibri: se non venisse migliorata la competitività italiana, buona parte del sostegno della domanda prodotto dai CCF andrebbe ad alimentare la domanda di prodotti esteri, peggiorando la bilancia commerciale.

L’attribuzione di CCF alle aziende italiane in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti le rende, al contrario, immediatamente più competitive, con benefici in termini di maggiori esportazioni e di guadagno di  mercato interno nei confronti delle importazioni.

Va precisato che tutto ciò non comporterà danni significativi per la Germania e per gli altri stati membri dell’Eurozona. Contemporaneamente al recupero di competitività, l’Italia avvierà anche una forte ripresa economica, il che aumenterà (ceteris paribus) le sue importazioni, comprese quelle provenienti da partner europei. Oggi i saldi commerciali italiani sono positivi (partite correnti attive per l’1,5%-2% circa nel 2014), ma solo grazie a una domanda interna molto depressa, che limita le importazioni. Con la ripresa dell’economia, i due effetti si compenseranno – più import per la maggior domanda, maggior export netto per la maggior competitività. La bilancia commerciale italiana resterà in equilibrio, ma a livelli decisamente più alti sia di import che di export.

 

Effetti sull’inflazione

A questo riguardo, una prima considerazione è che l’assegnazione di CCF produce un forte recupero della domanda e del PIL, ma questo non è (se non limitatamente) inflazionistico perché in Italia esiste attualmente un altissimo livello di disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata. Solo se l’ammontare emesso superasse i livelli che consentono il riassorbimento della capacità oggi inattiva si produrrebbe un forte e permanente eccesso d’inflazione. Va anche ricordato che attribuendo CCF alle aziende in funzione dei loro costi di lavoro se ne riducono i costi produttivi totali, e questo ha un effetto mitigante sull’inflazione.

Un qualche incremento dell’inflazione, peraltro, è esattamente quello che serve per riportarla dall’attuale livello zero (con rischio di cadere in deflazione) verso l’obiettivo BCE del 2%. Il progetto può essere tarato, riguardo in particolare alla distribuzione temporale delle assegnazioni di CCF (vedi il punto successivo) in modo da puntare al raggiungimento dell’obiettivo BCE. Potrebbero essere tollerabili incrementi transitori dell’inflazione, fino al 3-4%, in una fase iniziale e per non più di un anno, dovuti a possibili sfasamenti temporali tra incremento della domanda e riattivazione della capacità produttiva oggi inutilizzata.

 

Tempistica delle assegnazioni di CCF

Le erogazioni di CCF sono previste, come detto, in 200 miliardi annui massimi. E’ ragionevole scaglionare l’intervento nel tempo, perché la maggior domanda dovuta ai CCF stimolerà le aziende a produrre di più, ma rimettere in moto la capacità produttiva oggi inutilizzata richiede tempo. L’ipotesi attuale è di erogare 90 miliardi il primo anno, salire a 150 il secondo e raggiungere 200 miliardi al terzo. I livelli effettivi e la distribuzione temporale saranno tarati in funzione della risposta dell’economia, puntando a un rapido recupero dell’occupazione senza che l’inflazione risalga troppo rapidamente.

Anche la quota destinata alle aziende (ipotizzata, come si diceva, in 80 miliardi su un massimo di 200) potrà anch’essa essere modificata nel tempo, sempre con l’obiettivo di mantenere in pareggio i saldi commerciali esteri: né surplus né deficit, se non per importi modesti.

 

I “BTP fiscali”

Il progetto “Moneta Fiscale” prevede anche l’introduzione dei cosiddetti “BTP fiscali”. Sono titoli di Stato con scadenze varie – anche pluriennali – che (analogamente ai CCF) non pagano interessi e capitale in euro. Interessi e capitali sono invece corrisposti, appunto, in “Moneta Fiscale”, utilizzabile per onorare impegni finanziari verso la pubblica amministrazione: esattamente come i CCF.

L’introduzione dei BTP fiscali potrà avvenire, in primo luogo, al momento in cui cominceranno le assegnazioni dei CCF. Potrà essere data la possibilità, a tutti i possessori di titoli di Stato “tradizionali” (BOT, CTZ, BTP, CCT eccetera) di convertirli in BTP fiscali, con scadenze più lunghe e con un tasso d’interesse più alto. Per esempio, un BTP con tre anni di vita residua e cedola del 2,5% potrebbe essere convertibile in un BTP fiscale con sei anni di vita residua e cedola del 4,5%. Questa opzione di conversione rimarrà esercitabile (da parte del possessore) per tutta la vita residua del titolo.

Si limita il rischio, in tal modo, che l’annuncio della riforma dia luogo a movimenti speculativi sui mercati finanziari. Se il mercato dovesse reagire negativamente, si potrebbe creare una pressione al ribasso nel valore nei titoli di Stato in circolazione (quelli tradizionali) creando problemi, per esempio, ai bilanci degli investitori istituzionali (banche, assicurazioni eccetera) che li possiedono. Ma se un titolo di Stato è sempre convertibile in BTP fiscali – quindi in un titolo che mantiene sempre, con certezza, un valore, perché è utilizzabile per pagare tasse e altre obbligazioni finanziarie verso la pubblica amministrazione, e non ha quindi rischio di default – la pressione al ribasso sopra citata incontra una soglia.

Inoltre, tanti più titoli “tradizionali” vengono convertiti in BTP fiscali, tanto più diminuisce l’ammontare di titoli che possono dar luogo a default. Le nuove emissioni di titoli di Stato, coerentemente con questo principio, dovranno avvenire, nella maggior misura possibile, mediante BTP fiscali - e non emettendo titoli “tradizionali” (da rimborsare in euro). Il debito in euro, quello che deve essere rimborsato e che quindi può dar luogo a default, deve essere ridotto il più rapidamente possibile, idealmente a zero.

E’ prevedibile che ci sia interesse, sul mercato, per le emissioni di BTP fiscali, anche a causa del fatto che verranno ridotte – se possibile addirittura azzerate – le emissioni di titoli “tradizionali”, e che i loro abituali compratori (specialmente gli investitori istituzionali italiani) dovranno reimpiegare la loro liquidità. Uno strumento d’investimento senza rischio di default è interessante per questi investitori, per motivi analoghi a quelli che rendono appetibile un titolo di stato in moneta sovrana.

 

Il progetto “Moneta Fiscale” alla luce dei trattati attualmente in essere

Nella forma attuale, i trattati – il patto di stabilità e il Fiscal Compact, in particolare - sono ineseguibili. D’altra parte sono stati concepiti su istanza dei paesi dell’ex area marco, che temono di doversi far carico dei debiti di uno o più paesi del sud. Il progetto “Moneta Fiscale” produce una forte ripresa economica dei paesi che lo adottano e nello stesso tempo riduce, con l’obiettivo realistico di azzerare, il debito che crea rischio di default.

La possibilità che il progetto “Moneta Fiscale” venga attaccato in quanto non conforme ai trattati non può essere esclusa. Tuttavia il progetto rende possibile il conseguimento degli obiettivi economici che i trattati si prefiggono, in quanto consente sviluppo economico, occupazione, stabilità monetaria e riduce rapidamente, fino a eliminarli, i rischi di default sui debiti pubblici e i conseguenti dissesti finanziari. Gli obiettivi dei trattati sono conseguiti dal progetto “Moneta Fiscale”, mentre non lo sono da una serie di altre azioni – l’OMT e le iniziative di sostegno intraprese dalla BCE, in particolare – che peraltro, a loro volta, sono attualmente oggetto di azioni legali (sull’OMT, anzi, esiste già una sentenza negativa della Corte Costituzionale tedesca, che ha rinviato il caso alla Corte di Giustizia UE). Si può affermare che il progetto “Moneta Fiscale” è, rispetto a queste iniziative, almeno altrettanto conforme ai trattati, nonché enormemente più efficace per quanto attiene al raggiungimento degli obiettivi che i trattati stessi si prefiggono.

Riguardo al Fiscal Compact, in particolare, è importante sottolineare che questo trattato impone un percorso accelerato di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL. Per l’Italia (e per vari altri paesi) si tratta di obiettivi totalmente irrealistici. Tentare di conseguirli richiederebbe manovre fiscali pesantissime che abbatterebbero il denominatore del rapporto, impedendone la riduzione.

Nell’ambito del progetto “Moneta Fiscale”, il Fiscal Compact diventa invece eseguibile, purché si chiarisca in maniera inequivocabile che i CCF e i BTP fiscali non sono compresi nel debito, in quanto non creano rischio di default. In questo modo gli obiettivi di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL sono raggiungibili. A questo punto gli interessi collimano: il debito pubblico italiano espresso in euro, che la Germania teme di doversi sobbarcare a seguito di un default italiano, scende rapidamente e viene sostituito da emissioni di moneta nazionale italiana (non soggetta a default). E’ una situazione enormemente più tranquilla sia per la Germania che per l’Italia.

 

Estensione ad altri paesi

Tutti i paesi dell’Eurozona che hanno oggi difficoltà, o comunque livelli di competitività inferiori a quelli tedeschi, nonché alta disoccupazione, possono adottare il progetto “Moneta Fiscale” (ed è anzi raccomandabile che lo facciano). Ciò nella misura, caso per caso, opportuna per ripristinare competitività e piena occupazione.

E’ la via per rendere sostenibile il sistema monetario europeo, senza attuare una “transfer union” e senza richiedere agli stati “nord-eurozonici” di compensare le differenze di competitività, in particolare di costo di lavoro per unità di prodotto, inflazionando significativamente prezzi e salari: entrambe, queste, eventualità che la Germania non accetta. Inoltre, elimina definitivamente il rischio di una deflagrazione dell’Eurozona. Tutto questo senza richiedere alcun contributo finanziario alla Germania, e senza convertire depositi bancari, titoli di Stato e altre attività finanziarie, stipendi, pensioni, e contratti di qualsiasi tipo da euro in una nuova moneta (destinata a svalutarsi).

 

Attuabilità operativa del progetto

Dal punto di vista operativo, il progetto “Moneta Fiscale” è nettamente più semplice della “spaccatura” dell’euro. E’ una riforma che può essere tranquillamente discussa e analizzata alla luce del sole e non una “deflagrazione” da attuare di sorpresa, in tempi rapidissimi, con rischi di panico bancario e sui mercati finanziari. Non costringe la Germania a lavorare, d’improvviso, con una moneta rivalutata. Non c’è svalutazione dei crediti stranieri verso soggetti residenti italiani. Non ci sono effetti redistributivi su aziende e banche, né contenziosi giuridici. Il cittadino italiano non si vede convertire i suoi risparmi, il suo stipendio, la sua pensione, in una moneta diversa (di minor valore).

 

I CCF diventeranno, dopo un certo periodo di tempo, una vera e propria moneta circolante ?
Il progetto funziona anche a prescindere che i CCF vengano utilizzati per transazioni correnti. Tuttavia è probabile che l’utilizzo quotidiano prenda piede e si incrementi, ad esempio usandoli per pagamenti elettronici via carta di credito, e come sottostante nella definizione di contratti di lavoro, affitto, compravendita, eccetera. Dopo qualche anno, è concepibile che il CCF diventi a tutti gli effetti la moneta circolante principale, riservando all’euro impieghi limitati (ad esempio per particolari transazioni finanziarie). E’ un’evoluzione possibile, anche se non indispensabile per il successo della riforma.