venerdì 31 maggio 2013

Mezza Germania, due Grecie


Altrimenti detto: neanche l’Italia è un’Area Valutaria Ottimale – quindi ?
 
I guai dell’unione monetaria europea ci stanno affliggendo da alcuni anni, in modo sempre più pressante. Con il dualismo Nord – Sud italiano ci siamo invece nati e vissuti, per cui tendiamo ad accettarlo con fatalismo, come fosse la conseguenza di una legge di natura.
 
I dati sono noti, ma riguardarli fa sempre una certa impressione.


 
 
 
 
PIL
 
PIL ITALIA 2012
Popolazione
PIL
pro-capite
Indice
Piemonte
 
4.367.997
125.400
28.709
109
Valle d'Aosta
126.978
4.520
35.597
135
Lombardia
9.759.209
333.000
34.122
130
Trentino Alto-Adige
1.037.104
34.950
33.700
128
Veneto
4.867.373
147.200
30.242
115
Friuli Venezia Giulia
1.220.180
36.100
29.586
113
Liguria
1.565.258
43.900
28.046
107
Emilia Romagna
4.356.829
140.300
32.202
122
Toscana
3.680.273
105.500
28.666
109
Umbria
886.098
21.650
24.433
93
Marche
1.541.815
41.130
26.676
101
Lazio
 
5.557.715
168.200
30.264
115
Abruzzo
1.308.654
29.370
22.443
85
Molise
312.379
6.370
20.392
78
Campania
5.761.801
95.160
16.516
63
Puglia
4.045.893
70.800
17.499
67
Basilicata
575.800
10.670
18.531
70
Calabria
1.954.897
33.450
17.111
65
Sicilia
4.995.009
85.500
17.117
65
Sardegna
1.639.942
33.100
20.184
77
TOTALE ITALIA
59.561.204
1.566.270
26.297
100
CentroNord
38.966.829
1.201.850
30.843
117
Sud e Isole
20.594.375
364.420
17.695
67
Germania
 
82.036.000
2.643.900
32.229
123
Grecia
10.900.000
193.749
17.775
68
Fonti: Scenarieconomici.it, ISTAT, RGS, Unione Europea.
 

 
L’Italia è una nazione di circa 60 milioni di abitanti. 40 scarsi risiedono in un Centro-Nord il cui PIL pro-capite, nonostante la crisi, è a livelli medi molto vicini alla Germania.

Nello stesso tempo, il Meridione è ai livelli della Grecia.
 
L’Italia è una riproduzione in scala, pressoché perfetta, della spaccatura economica dell’eurozona.
 
Su quando e come si è formata questa divisione, si è scritto a lungo e le opinioni sono variegate. Studi accreditati affermano che all’unità d’Italia le differenze erano praticamente inesistenti, e si sono create a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento.
 
Questo non è del tutto coerente con il fatto che l’espressione “questione meridionale” fu utilizzata per la prima volta, pare, dal deputato lombardo Antonio Billia nel 1873.
 
Comunque il problema era conclamato quando nel 1911 Giustino Fortunato scrisse “che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio (nota MC: qualche anno prima evidentemente il dubbio ancora c’era). C’è tra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale”.
 
In sintesi, una differenza economica tra nord e sud al tempo dell’unità d’Italia probabilmente esisteva, ma a livelli abbastanza contenuti – tanto da lasciare alcuni dubbi sulla sua effettiva rilevanza. L’unione monetaria italiana l’ha fortemente allargata e resa permanente.
 
E ciò nonostante l’adozione di TUTTI i provvedimenti (unione fiscale, unione bancaria, mutualizzazione del debito pubblico, welfare system integrato, investimenti industriali finanziati o gestiti direttamente dallo Stato) che oggi ci vengono indicati come “LA” soluzione dell’eurocrisi.
 
Immaginiamo invece di innestare il progetto Certificati di Credito Fiscale sulla questione meridionale italiana. Secondo l’ipotesi più recente, potrebbero essere assegnati annualmente 200 miliardi annui, di cui 83 alle aziende, 70 ai lavoratori e 47 destinabili a una serie di altri interventi (spesa sociale, sostegno ai ceti economicamente disagiati eccetera).
 
La quota destinata alle aziende è dimensionata in modo da ottenere una riduzione del 17-18% circa del costo del lavoro per unità di prodotto delle aziende private italiane, il che permette di recuperare il delta di competitività che si è prodotto rispetto alla Germania dall’introduzione dell’euro a oggi.
 
I 13,3 milioni circa di dipendenti del settore privato lavorano per circa tre quarti (10 milioni) in aziende del Centro-Nord e per 3,3 nel Mezzogiorno. Se la quota di 83 miliardi fosse suddivisa in proporzione sarebbero circa, rispettivamente, 62 e 21.
 
L’assegnazione alle aziende del Mezzogiorno potrebbe essere incrementata per esempio di 15 miliardi, utilizzando una parte dei 47 destinati ad “altri interventi” ancora da precisare, oppure anche incrementando lo stanziamento totale annuo a 215. Ricordo che i CCF emettibili non possono, ovviamente, crescere all’infinito perché equivalgono a un’emissione di moneta e da un certo punto in poi diventano inflazionistici. Ma il “certo punto” è quanto occorre a recuperare la differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale dell’economia italiana. “Grazie” alle politiche di austerità, questa differenza sta continuando ad aumentare e quindi un accrescimento della quota CCF è non solo possibile ma anche opportuno.
 
Il recupero di competitività delle aziende private italiane, misurato in termini di costo del lavoro per unità di prodotto, rimarrebbe del 17-18% circa al Centro-Nord ma salirebbe a più del 30% dall’Abruzzo in giù.
 
In termini di recupero economico del Sud, un intervento del genere vale molto più di parecchi anni di Cassa del Mezzogiorno.

domenica 26 maggio 2013

CCF: Gawronski sta per parlarne ?


Pier Giorgio Gawronski ha pubblicato ieri (25.5.2013) in contemporanea su Fatto Quotidiano e Corriere della Sera, un curioso articolo.

L’articolo ribadisce che l’uscita dalla crisi economica richiede un cambiamento integrale delle politiche economiche dell’area euro (rinnegando completamente l’austerità, con un forte supporto interventista della BCE) oppure, in alternativa, lo smantellamento dell’euro.
 
Fin qui, cose che si leggono sempre più di frequente (anche se non ancora abbastanza). La parte curiosa dell’articolo è la sua criptica conclusione.

“Ci sarebbe una terza via, percorribile su base nazionale, che è sfuggita all’attenzione mediatica, e che consentirebbe di uscire dalla crisi “a velocità giapponese”. Bisogna però essere disposti ad approfittare di un clamoroso vuoto della normativa europea. E violare lo spirito, non la lettera, dei Trattati. Come ha fatto finora la Germania, scambiando la “cultura della stabilità” con la “cultura della depressione”. Eludere le regole senza lasciare l’Euro riaprirebbe anche il negoziato sull’Eurozona.
 
Per realizzare una simile strategia ci vuole però un quadro politico assai più propenso all’innovazione, desideroso di sfidare l’ortodossia liberista (sedicente liberista, nota mia). Capace di alzare la qualità della proposta, ed offrire all’Europa un nuovo paradigma, nel dimostrabile interesse anche del popolo tedesco. Si può fare. Perciò si deve fare”.
 
Punto. Suspense.
 
Ha in mente i Certificati di Credito Fiscale ?
 
O qualcos’altro ?
 
Restate sintonizzati.

sabato 25 maggio 2013

CCF “revolving”: un possibile perfezionamento


Con Luca Mibelli e anche sulla base di spunti forniti da NonSono SuFacebuk nell’ambito del gruppo facebook Economia 5 Stelle, si sono discusse alcune possibili varianti e ottimizzazioni del progetto Certificati di Credito Fiscale (CCF).
 
Un’idea da considerare è la seguente. Nello schema base i CCF hanno la facoltà di essere utilizzabili – in qualsiasi momento a partire da due anni dopo la data di emissione – per estinguere, al valore facciale, obbligazioni finanziarie di qualsiasi tipo (in primo luogo, ma non solo, fiscali) verso la Pubblica Amministrazione italiana.
 
La variante, o meglio la caratteristica aggiuntiva, potrebbe essere di aumentare il valore di utilizzo se quest’ultimo avviene successivamente alla prima scadenza possibile.
 
In pratica: nel giugno 2013 mi vengono assegnati CCF per 100 euro. Nel giugno 2015 li posso usare per pagare (ad esempio) 100 euro di imposte.
 
Se non lo effettuo subito, il valore di utilizzo aumenta. Per esempio diventa 103 euro se attendo un anno, 106 se ne attendo due eccetera.
 
In pratica si riconosce ai CCF un tasso d’interesse, a decorrere dalla data di utilizzabilità. Nell’esempio è un 3% annuo fisso; si possono considerare alternativamente tassi variabili indicizzati ai BOT, ai tassi d’intervento BCE, all’inflazione ecc.
 
Si ottengono così due risultati.
 
Primo, si migliora la valutazione di mercato dei CCF. Molti percettori di CCF probabilmente li cederanno prima della data di utilizzo, a soggetti che li acquisteranno a sconto per poi usarli a fronte di loro impegni finanziari verso la Pubblica Amministrazione. Lo sconto potrebbe essere più elevato del tasso su un normale titolo di Stato a causa di sfridi temporali – es. minore concentrazione di date di versamento di imposte in certi periodi dell’anno. Se il ritardo di utilizzo dei CCF si accompagna a un incremento del suo valore facciale, questo problema diventa di scarso o nullo rilievo.
 
Secondo, alcuni titolari di CCF potranno ritardarne l’utilizzo semplicemente per beneficiare della rivalutazione. Ci sarà quindi una parziale diluizione temporale del loro impiego; nel frattempo, gli euro incassati dallo Stato saranno più alti. La riduzione delle obbligazioni finanziarie statali denominate in euro (debito pubblico) sarà quindi accelerata.