domenica 28 agosto 2022

Se le sanzioni non fermano Putin

 

In Europa, e specialmente in Germania e in Italia, serpeggia una profonda inquietudine in merito alle carenze di gas russo, che sono già un grave problema oggi (vedi l’impennata dei prezzi) e rischiano di diventarlo molto di più nel prossimo autunno-inverno.

Diventa sempre più consistente il dubbio che Putin non si fermi con le sanzioni. A chi mi chiede “ma allora come blocchi questo nuovo Hitler ?” rispondo che (ammessa una pericolosità di Putin paragonabile a quella di Hitler) i nazisti sono stati fermati combattendo. Non imponendo sanzioni.

E per combattere, beninteso, intendo schierare sul campo forze armate occidentali, che necessariamente dovrebbero imperniarsi sulla NATO e sugli USA. Non guerreggiare per procura fornendo armi agli ucraini.

Se combattere non è un’opzione accettabile per l’Occidente (e nessuno infatti sembra prenderla seriamente in considerazione) occorre darsi un limite temporale. Qualsiasi strategia deve essere concepita prevedendo un ragionevole arco di tempo oltre il quale occorre prendere atto che non ha funzionato.

Quale ulteriore limite ci diamo per tirare le conclusioni sulla strategia sanzionatoria ? sei mesi ? un anno ? Discutiamone, ma non può essere l’infinito.

Che cosa si sarebbe potuto, ma in effetti si può ancora, fare, in alternativa ?

Molto semplice: condannare Putin, ma non sanzionarlo. Men che meno, inviare armi agli ucraini. E nel frattempo lavorare con la massima intensità, con tutti gli investimenti necessari, per diversificare le fonti di approvvigionamento energetico.

I russi stanno incassando molto più di prima, e stanno approvvigionandosi di quanto loro necessario dai paesi (tutti, blocco occidentale escluso) che non li hanno sanzionati.

Le considerazioni di realpolitik portano a dire che era (ed è) meglio, per l’Europa, non subire i rincari del gas, mantenere aperti i rapporti commerciali, e lavorare (oltre che sulla diversificazione delle fonti) per una soluzione diplomatica.

Invece gli europei stanno allineandosi ai desideri degli USA: creare un pantano sperando che Putin non riesca a districarsene. Ma gli USA non sono dipendenti dal gas russo.

Mi pare, dal punto di vista europeo, una straordinaria prova di autolesionismo.

venerdì 26 agosto 2022

Moneta Fiscale, euro e finanziamento del deficit pubblico

 

Allora, vediamo di spiegarla semplice.

L’euro è disfunzionale principalmente perché costringe gli Stati a finanziarsi emettendo debito, senza che esista un istituto di emissione disponibile a garantirlo.

Questo crea, specialmente nelle situazioni di difficoltà economica, il rischio di non riuscire a rifinanziarsi, e quindi genera una possibilità di insolvenza – possibilità inesistente per gli Stati che emettono debito nella loro moneta sovrana.

A ragione o a torto (non rileva al fine di risolvere il problema) non esiste consenso per modificare i trattati e per trasformare la BCE un garante illimitato e incondizionato dei debiti pubblici degli Stati.

Non esiste, d’altra parte, neanche la volontà di convertire tutti i debiti pubblici nazionali dell’Eurozona in debito comune.

La BCE e la UE in effetti, anche forzando l’interpretazione dei trattati, sono intervenuti in passato e interverranno ancora, ma solo nel momento in cui l’alternativa era / sarà il collasso del sistema.

Il collasso è stato evitato, ma il sistema è rimasto instabile e disfunzionale. Si è fatto, sempre, il minimo indispensabile per evitare il crollo, ma niente di più.

La soluzione esiste, ed è tecnicamente molto semplice.

UNO, gli Stati dell’Eurozona concordano un percorso di riduzione, graduale e costante nel tempo, del rapporto tra debito pubblico e PIL, intendendosi debito pubblico I TITOLI CHE COMPORTANO OBBLIGHI DI RIMBORSO.

DUE, la BCE garantisce i debiti pubblici PURCHE’ GLI IMPEGNI DI RIDUZIONE del rapporto con il PIL siano rispettati (e salvo eccezioni concordate a livello UE per gestire situazioni straordinarie: es. crisi finanziaria mondiale 2008, Covid 2020).

TRE, ogni Stato EMETTE LIBERAMENTE MONETA FISCALE, che non è debito e non va inclusa nel debito pubblico nazionale.

Il debito che crea rischio di insolvenza viene ridotto (in proporzione al PIL). Siccome si tratta della passività che può generare instabilità e rischi, diminuirne il peso è interesse di tutti.

La Moneta Fiscale non crea obblighi di rimborso, non produce rischi di default a causa della situazione dei mercati finanziari, ed è lo strumento con cui gli Stati possono condurre le loro politiche di gestione dell’economia.

Casomai, ai principi sopramenzionati si può aggiungere, in coordinamento con la BCE (che da sola non è in grado di garantirlo) un impegno a mantenere l’inflazione, mediamente e tendenzialmente, a livelli stabili e moderati.

Anche l’azione di fine tuning dell’inflazione è infatti molto più efficace se la leva fiscale si affianca (anzi agisce in modo predominante rispetto) a quella monetaria.

martedì 23 agosto 2022

L’euro dà “sicurezza” ???


Ogni tanto qualcuno racconta ancora la favola secondo la quale la scelta di entrare nell’euro sarebbe stata prodotta da un do ut des tra competitività e sicurezza. 

Sì, certo, è l’argomentazione, nell’euro l’Italia non ha più potuto compensare le differenze di inflazione con i riallineamenti del cambio, ma in contropartita ha ottenuto “una moneta più stabile e più sicura”.

Che qualcuno ci credesse negli anni Novanta, posso (a fatica) capirlo. Che qualcuno in buona fede lo ripeta oggi, si spiega solo ipotizzando il proverbiale metro cubo di mortadella sugli occhi.

Ma quale sicurezza pensi di acquisire convertendo un debito nella TUA moneta – un debito che puoi rifinanziare a tuo piacimento in qualsiasi momento, un NON debito in realtà – con un debito VERO, in moneta straniera forte ?

Metti la tua politica economica nelle mani di soggetti esterni, che hanno interessi divergenti rispetto ai tuoi. Ti esponi alla speculazione dei mercati finanziari.

E, come si sta vedendo da un annetto in qua, non ottieni neanche protezione contro l’inflazione esogena, quella più insidiosa, che proviene da problemi di approvvigionamenti, di forniture, di scarsità di materie prime.

L’euro ha reso l’Italia dipendente, debole e INSICURA.

E non esisteva nessuna, ma proprio NESSUNA, ragione economica sensata per infilare l’Italia in questo disastro.

S’intende, nessuna ragione economica sensata dal punto di vista del paese nella sua globalità: tutto un altro discorso vale riguardo a una serie di soggetti esterni al paese, nonché di particolari gruppi d’interesse interni.

mercoledì 17 agosto 2022

Ancora sul riformismo

 

Commentando un mio recente post, Stefano Sylos Labini ricordava che il termine “riformismo” è in effetti entrato in voga, nel dibattito pubblico italiano, negli anni migliori dell’allora vituperata (e oggi molto ma molto rimpianta) Prima Repubblica.

I due partiti dominanti, DC e PCI, si caratterizzavano, negli anni Cinquanta e Sessanta, rispettivamente come “conservatore” e “rivoluzionario”.

La DC puntava sostanzialmente a mantenere inalterato, nelle linee generali, l’assetto economico-sociale. Il PCI, almeno sulla carta, a rovesciarlo.

Dico “sulla carta” perché in realtà era molto ben chiaro, ai dirigenti comunisti, che gli accordi di Yalta comportavano l’appartenenza dell’Italia al blocco atlantico. La rivoluzione si poteva teorizzare e auspicare: attuare no. Almeno per il momento.

Però negli intendimenti, quando fossero “maturate le condizioni politiche” (leggi di politica estera), il PCI almeno a parole era rivoluzionario.

Tra la conservazione e la rivoluzione si apriva a questo punto uno spazio intermedio, che fu occupato sostanzialmente dal PSI. Un progetto politico che mirava a cambiamenti sostanziali – potenziamento del welfare state, maggiori investimenti dell’industria di Stato, nazionalizzazioni – senza però proclamare la repubblica dei Soviet (o qualcosa del genere…). E questo spazio intermedio prese il nome di “riformismo”.

Per l’elettore, le scelte erano quindi sufficientemente definite.

Se eri conservatore, votavi DC o uno dei partitini laici.

Se eri rivoluzionario, votavi PCI.

Se eri riformista, votavi PSI.

Aggiungo, se eri “nostalgico” votavi MSI.

Ai tempi, in definitiva, cosa fosse e cosa desiderasse un “riformista” era chiaro.

Nel contesto odierno, in cui la rivoluzione non vuole farla più nessuno (nemmeno a chiacchiere), cosa sia un riformista e che senso abbia definirsi tale (visto, come si diceva nell’altro post, che tutti desiderano cambiare qualcosa ma nessuno vuole rovesciare l’ordinamento dello Stato) non lo è più.

Se tutti sono riformisti non ha più senso il termine, perché non si capisce quali sarebbero i “non-riformisti” a cui ci si contrapporrebbe.

In compenso è chiaro cosa intendono per “riformista” i giornaloni paludati. Fare tutto quello che chiedono la UE, la BCE e i potentati economico-finanziari. Che dei giornaloni sono gli editori, i finanziatori, i compratori di spazi pubblicitari, e quant’altro.

E naturalmente, sostenere al 100% il braccio operativo dei potentati, il PD.

 

mercoledì 10 agosto 2022

Il vulnus democratico, ma anche tecnico, della BCE

 

L’eurosistema confligge gravemente con la democrazia perché impedisce agli Stati di gestire autonomamente l’emissione della moneta, strumento essenziale per attuare la propria politica economica.

Un pretesto (forse il principale) con cui si è introdotto l’euro, dal punto di vista tecnico, è stata la presunta necessità di imporre agli Stati un sistema di gestione dell’emissione monetaria. Questo, allo scopo di evitare fenomeni di inflazione incontrollata, o comunque eccessiva.

Successivamente, si sono in effetti avuti parecchi anni – dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008 e fino al termine dei “Covid lockdowns” – in cui il problema che la BCE cercava di risolvere era, al contrario, l’inflazione troppo bassa, non troppo alta.

In realtà gli avvenimenti dell’ultimo decennio stanno dimostrando che la BCE, o in generale la banca centrale, non è in grado di assicurare il mantenimento dell’inflazione in linea con gli obiettivi (livelli bassi ma stabili, non superiori ma vicini al 2%) prefissati.

Quando l’inflazione è troppo bassa, emettere moneta senza destinarla all’economia reale, tramite maggiore spesa pubblica e minori tasse, non aumenta l’inflazione.

Quando l’inflazione è troppo alta a seguito di problemi dal lato delle forniture e degli approvvigionamenti (come oggi) aumentare i tassi non risolve il problema, a meno che l’incremento sia di portata tale da produrre una recessione spaventosa – dai costi sociali inaccettabili.

In effetti, la politica fiscale è molto più efficace della politica monetaria non solo per gestire le oscillazioni di domanda e occupazione, ma anche l’inflazione. Servono politiche fiscali espansive se la domanda è carente. Politiche fiscali restrittive se è troppo euforica. Politiche fiscali ancora espansive, ma rivolte soprattutto alla riduzione delle imposte indirette, se c’è eccesso di inflazione dovuto non a eccesso di domanda ma a problemi dal lato degli approvvigionamenti.

Tutto questo è possibile riportando l’emissione della moneta sotto il controllo degli Stati. SE (cosa non indispensabile) si decide di emettere titoli di debito pubblico, la banca centrale deve limitarsi a garantirne il rifinanziamento.

Questa garanzia è estremamente facile da fornire (anche se la BCE non lo fa, e torniamo al vulnus democratico). Sul resto, le possibilità d’intervento della banca centrale sono invece limitate e scarsamente (molto scarsamente) efficaci.

In aggiunta a quanto sopra, i governi possono vincolarsi ad attuare politiche fiscali che tendano anche a stabilizzare a livelli costanti e moderati l’inflazione, oltre che a massimizzare l’occupazione. Appunto perché la politica fiscale è molto più efficace della politica monetaria anche riguardo al controllo dell’inflazione, e la gestione della politica fiscale è responsabilità dello Stato.

La politica monetaria, intesa come controllo dei tassi d’interesse e del credito, ha un ruolo da svolgere, in coordinamento con le politiche fiscali. Ma un ruolo subordinato.

La politica economica deve tornare pienamente in mano agli Stati. Per rispettare un principio di democrazia, ma anche per renderla molto, ma molto più efficace di quanto sia oggi.

 

lunedì 8 agosto 2022

Dichiararsi riformista non significa nulla

 

Non mi è chiara la ragione per la quale una parte significativa del mondo politico tragga compiacimento nell’autodefinirsi “riformista”, associando all’aggettivo un contenuto di positività.

Riformisti lo siamo tutti, nel senso che ognuno di noi vorrebbe cambiare qualcosa. Ma se un termine è applicabile in modo così ampio e indifferenziato, è evidente che il suo contenuto informativo ed esplicativo è prossimo allo zero.

Tutti vogliamo cambiare qualcosa, poco o tanto che sia. Tutti vogliamo “riformare”. Il punto è cosa e come e con quali finalità.

Ci sono buone riforme e cattive riforme. In parecchi casi, non toccare quello che non è rotto (o non del tutto) non è affatto una cattiva opzione.

Per citare un cartello che parecchi anni fa ho visto appeso nei laboratori di ricerca e sviluppo di un’azienda che stavo visitando

“quando va che quasi basta, lascia star se no si guasta”.

E avessimo “lasciato stare”, noi italiani, nel recente passato…

L’euro è stata una riforma, ed è stata disastrosa.

I vincoli di finanza pubblica sono stati una riforma, e sono catastrofici.

La conversione in moneta straniera del debito pubblico è stata una riforma, ed ha avuto conseguenze tragiche.

Anch’io voglio riformare, certo. Voglio riformare l'eurosistema. Ma lo voglio riformare proprio per eliminare gli effetti deleteri di una serie di riforme che non andavano, assolutamente, fatte.

venerdì 5 agosto 2022

Se Draghi è indispensabile, l’euro non funziona


Subito dopo la caduta del governo Draghi, una marea di commentatori si strappava i capelli al pensiero che era venuta meno “la garanzia per l’Italia di fronte alla BCE”. 

Senza Draghi, non verremo più trattati con un occhio di riguardo, era (ed è) la lamentazione. Senza Draghi, subiremo le peggio cose.

Che Draghi avrebbe avuto questo effetto, è tutto da dimostrare (durante i suoi diciassette mesi di governo, lo spread non ha fatto altro che aumentare). Ma il punto più importante, che tende a sfuggire, è un altro.

Sfugge che se tutto questo fosse vero, sarebbe semplicemente la ziliardesima prova che dobbiamo tornare ad emettere la nostra moneta.

Perché se anche fosse vero che solo Draghi può evitarci terribili conseguenze dovute all’azione, o all’inazione, della BCE, Draghi (a cui auguro lunga vita) non è immortale, né come essere umano né come presidente del consiglio. Anzi come PdC è ormai dimissionario e in carica solo per gli affari correnti, ma se anche le sue dimissioni non si fossero verificate, le elezioni erano comunque destinate a svolgersi tra non molti mesi.

A inizio 2023 comunque sarebbero arrivate, e non risulta che Draghi avesse alcuna velleità di candidarsi. Per cui l’ipotetico “scudo Draghi” se mai fosse esistito avrebbe avuto, a questo punto, solo alcuni mesi di vita residua.

Il tema su cui riflettere è quasi banale, ma a quanto pare in parecchi lo ignorano o lo trascurano.

Se la tenuta di un sistema dipende da una persona, il sistema è da buttare a mare. Il prima possibile. Perché è destinato a non reggere.

Un assetto organizzativo è ben costruito se funziona a prescindere dagli individui. L’eurosistema invece regge con estrema fatica e con enormi inefficienze. È fortemente disfunzionale. Va completamente riformato, o buttato a mare nella sua interezza.

E la presunta insostituibilità di Draghi ne è una prova molto, molto evidente.

 

mercoledì 3 agosto 2022

Rimborsare il debito pubblico ?

 

Gli economisti euristi, e i commentatori economici che a loro si ispirano, pensano di dire qualcosa di intelligente quando affermano (e lo affermano dozzine di volte al giorno) che “non è serio proporre una spesa senza immediatamente precisare quale sarà la copertura”.

Corollario di questo concetto è che se non ci comportiamo così, se non predisponiamo la copertura finanziaria delle spese, “lasciamo debito sulle spalle delle future generazioni”.

Di fronte ad "argomentazioni" di questo livello, spiegare come in realtà uno Stato che dispone della propria moneta possa attuare un deficit di bilancio senza emettere debito rischia di essere fatica sprecata.

Forse è più efficace controbattere ponendo, invece, una domanda.

“Mi fai cortesemente il nome di uno Stato che ha rimborsato il suo debito pubblico ?”

Perché quello che accade nella realtà è che ogni paese di un qualche rilievo economico è tipicamente (salvo rare e brevi eccezioni) in condizione di bilancio pubblico in deficit. E accumula debito pubblico, il cui valore cresce nel tempo.

Il debito pubblico non viene mai estinto, viene rifinanziato.

Perché la situazione sia questa, l’ha spiegato chiarissimamente Federico Caffè nel 1978.

Non c’è molto da aggiungere alle parole di Caffè, se non la constatazione che il debito pubblico può creare un problema non a fronte del suo livello, ma dell’eventuale difficoltà, appunto, di rifinanziarlo. Difficoltà che è NULLA se il debito è denominato nella moneta che lo Stato emette, e può invece essere significativa, anche DRAMMATICAMENTE significativa, se è denominato in moneta straniera.

E l’euro è moneta straniera. 

Questo è il dramma in cui l’Italia è stata infilata, senza alcuna necessità o ragione economica, un quarto di secolo fa.

martedì 2 agosto 2022

Petizione - Piano di Rinascita Economica

Chi non lo avesse ancora fatto, può sottoscrivere qui la petizione promossa da Fabio Conditi per sollecitare l'introduzione della Moneta Fiscale, l'introduzione di Conti di Risparmio presso il MEF (che sono lo strumento ideale per rendere liquida e negoziabile la Moneta Fiscale) e per istituire una istituto di credito a proprietà pubblica specificamente rivolto a investimenti e credito alle Piccole e Medie Imprese.

lunedì 1 agosto 2022

PD, ma quale agenda politica ?


La campagna elettorale è partita, e uno dei suoi elementi più surreali è costituito dai giornaloni e dalle TV che, in editoriali e talk-show vari, si interrogano pensosamente su quale sarà l’”agenda politica” del PD, e del raggruppamento che in qualche modo si formerà intorno al PD. 

L’agenda politica del PD è semplicissima, nonché perfettamente nota ed evidente. Consiste nel compiacere Bruxelles, Francoforte e potentati economico-finanziari vari.

A quale fine ? massimizzare le probabilità di restare al governo anche se (come d’abitudine) perderanno le elezioni.

L’ultima elezione legislativa vinta dal “centrosinistra” (cosiddetto tale: di sinistra non ha più nulla da decenni) risale al 2006. Nel 2008 hanno perso, nel 2013 “pareggiato”, nel 2018 perso di brutto.

Eppure dal 2011 ad oggi sono sempre stati la componente chiave dei vari governi di coalizione. Unica eccezione, durata poco più di un anno (da metà 2018 a metà 2019) il governo M5S – Lega.

L’agenda politica è quella, il PD non ne ha mai avuta una diversa da quando esiste, e rendersene conto è facilissimo.

Tutto il resto è contorno e fumo colorato.

Il PD è il partito del vincolo esterno (dovrebbe chiamarsi PVE), e l’accettazione del vincolo esterno per coloro che gravitano in quell’area è garanzia di sopravvivenza.

E non è certo un problema, per il PD – PVE, se il vincolo esterno danneggia enormemente la grande maggioranza del paese. È così da un quarto di secolo, e per quanto li riguarda può andare avanti così per altri 250, 2.500, 25.000 anni.