sabato 30 novembre 2013

La svalutazione non serve ? il caso UK


Qualche settimana fa è circolato in rete questo grafico, elaborato da Riccardo Trezzi.
 
Come vedete raffigura due eleganti curve, che mostrano come, partendo da inizio 2008, l’andamento del prodotto nazionale lordo del Regno Unito abbia avuto un andamento all’inizio simile a quello italiano, per poi discostarsi nettamente.
 
Il confronto per l’Italia non è lusinghiero: se è vero che oltre Manica non hanno ancora totalmente recuperato gli effetti della “crisi Lehman”, noi siamo parecchi punti percentuali sotto.
 
Questi sono fatti noti. Il motivo per cui il grafico è stato ampiamente commentato è però un altro. C’è, chiaramente, un momento in cui le due curve si discostano.
 
Questo momento non è il settembre 2008, quando con il fallimento Lehman si entra nel fase più acuta della crisi finanziaria - e il Regno Unito reagisce svalutando fortemente la sterlina.
 
E’ l’estate del 2011, quando entra nel vivo, invece, la crisi dell’euro, e parte una serie di eventi (la lettera della BCE, la caduta di Berlusconi, l’avvento di Monti, l’approvazione del fiscal compact) che danno il via alle misure di austerità deflattiva tramite le quali, particolarmente in Italia, la crisi viene “affrontata”.
 
Un’interpretazione superficiale è che la svalutazione della sterlina non ha fatto differenza e che, di conseguenza, l’euro con la crisi italiana non c’entra.
 
Non è così.
 
Qui sotto trovate l’evoluzione del rapporto deficit commerciale / PIL Italia e UK, e l’andamento del cambio sterlina / euro ed euro / dollaro (dati FMI e tradingeconomics.com).
 
Si sono aggregati i dati in tre periodi: gli anni precedenti alla “crisi Lehman”, da inizio 2004 al settembre 2008 (Periodo 1).
 
Il periodo successivo, dalla “crisi Lehman” fino all’inizio dell’”austerità deflattiva” italiana – da ottobre 2008 a giugno 2011 (Periodo 2).
 
E la fase successiva, da luglio 2011 a settembre 2013 (dato più aggiornato disponibile): il Periodo 3.
 


I 2004

IV 2008

III 2011

III 2008

II 2011

III 2013

Deficit commerciale / PIL: UK

-2,9%

-2,0%

-2,0%

Deficit commerciale / PIL: Italia

-0,7%

-1,4%

0,7%

Cambio medio sterlina/euro

 

1,43

1,15

1,19

Cambio medio euro/dollaro

 

1,32

1,36

1,32

 
Nel Periodo 1, il Regno Unito registra deficit commerciali, rispetto al PIL, mediamente pari a -2,9%. Considerevolmente più vicina al pareggio commerciale è l’Italia (-0,7%).
 
A settembre 2008 scoppia la “crisi Lehman” e la sterlina accentua rapidamente la tendenza al ribasso che si era cominciata a manifestare già nei mesi precedenti.
Il risultato è che il cambio medio sterlina / euro scende di poco meno del 20% (da 1,43 a 1,15) tra Periodo 1 e Periodo 2.
 
In corrispondenza con la crisi, l’euro scende a sua volta rispetto al dollaro, ma si era fortemente apprezzato nei mesi precedenti. Se esaminiamo le medie di periodo, il cambio euro / dollaro nel Periodo 2 non cala, anzi si rafforza leggermente (da 1,32 a 1,36) rispetto al Periodo 1.
 
L’indebolimento della sterlina ha avuto o no un peso sulla performance economica britannica ? UK e Italia, dice il grafico di Trezzi, si sono mosse in sincrono (se guardiamo al PIL) fino a metà 2011.
 
Ma i deficit commerciali raccontano una storia differente. UK migliora, abbassando il deficit medio dal 2,9% al 2,0% del PIL. L’Italia invece lo innalza dallo 0,7% all’1,4%.
 
Possono non sembrare variazioni drammatiche, e in effetti il deficit commerciale italiano anche nel Periodo 2 rimane inferiore a quello inglese.
 
Ma attenzione: il Regno Unito si finanzia nella sua valuta. L’Italia in euro, una moneta che non ha la possibilità di emettere.
 
In corrispondenza di un incremento tutto sommato modesto del deficit e del debito estero italiano, a metà 2011 crescono di colpo i timori per la possibile insolvenza dell’Italia, o per il rischio che non riesca a sostenere la permanenza nella moneta unica.
 
Da qui l’austerità deflattiva. L’Italia non ha a disposizione la leva del cambio e l’aggiustamento si scarica quindi su PIL, occupazione e consumi.
 
Il risultato si vede. Nel Periodo 3, l’Italia ha conseguito un surplus commerciale mediamente pari allo 0,7% del PIL. Un miglioramento dell’1,4% rispetto al -0,7% del Periodo 1.
 
Il Regno Unito mantiene invece un deficit commerciale del 2% del suo PIL (e, non avendo rilevante indebitamento in valuta estera, non ha difficoltà a finanziarlo). Rimane il miglioramento dello 0,9% rispetto al Periodo 1.
 
In sintesi, entrambi i paesi hanno messo in atto un aggiustamento dei loro conti con l’estero. L’Italia, che è indebitata in un valuta che non emette, viene spinta a effettuarlo in misura più accentuata. Ma soprattutto, non ha a disposizione la leva del cambio per ammortizzare l’effetto.
 
Le conseguenze sul PIL reale (2007 = 100):
 



PIL reale (dato 2013 previsionale)

2007

2011

2013

Regno Unito



100,0

96,7

98,2

Italia

 

 

 

100,0

95,3

91,4
 
Fino all’inizio dell’austerità deflattiva, la performance italiana non era molto diversa di quella britannica. Ma i loro saldi commerciali miglioravano, i nostri peggioravano.
 
Quando l’Italia ha “aggiustato” i conti con l’estero, il PIL è collassato – mentre nel Regno Unito si sviluppava una ripresa (sia pure a ritmi modesti).
 
Partendo dal picco 2007, tutto questo ha significato per l’Italia circa un 7% di PIL in meno (nel 2013) rispetto al Regno Unito.
 
Conclusioni:
 
Uno, la svalutazione non è da sola sufficiente a superare una crisi dovuta a un pesante crollo della domanda: serve una forte azione di sostegno (più spesa e/o meno tasse). Durante il Periodo 2, queste azioni sono state attuate ma a livelli insufficienti, e il PIL è sceso (sia da noi che nel Regno Unito).
 
Due, svalutando il Regno Unito ha però conseguito un miglioramento dei propri saldi commerciali, che invece in Italia peggioravano.
 
Tre, a metà 2011 l’Italia – nonostante un deficit commerciale comunque inferiore a quello britannico – ha visto aumentare i dubbi sulla sostenibilità del suo debito. Dubbi che invece non sono minimamente insorti riguardo al Regno Unito (che si finanzia nella SUA moneta, e non in una moneta straniera come è, per l'Italia, l'euro).
 
Quattro, l’Italia è quindi entrata nella spirale dell’austerità deflattiva, e nel Periodo 3 ha pesantemente contratto il suo PIL – mentre nel Regno Unito si verificava una, sia pur blanda, ripresa.
 
Tutto questo non smentisce, quindi, ma anzi conferma che l’Italia è stata decisamente penalizzata dall’euro, o più precisamente dal non disporre di un sistema monetario flessibile (e dall'essere indebitata in una moneta che non emette).
 
E che la via da uscita dalla crisi passa attraverso una forte azione di sostegno della domanda, abbinata a un intervento di miglioramento della competitività in grado di ottenere effetti immediati.
 
Questi effetti immediati possono essere conseguiti solo tramite un’azione di tipo monetario: svalutazione (che implica evidentemente il break-up dell’euro) o intervento sul costo del lavoro nei termini previsti (ad esempio) dal progetto CCF.

giovedì 28 novembre 2013

E se nei prossimi due anni…

…scoppia, che so, un’altra mega crisi finanziaria mondiale ? una nuova Lehman ? magari una crisi bancaria-immobiliare in Cina ?
 
E’ un’obiezione che mi è stata fatta più di una volta riguardo al progetto CCF.
 
Con i CCF, mi riapproprio della sovranità monetaria, attuo una forte azione di stimolo della domanda e riallineo la competitività delle aziende italiane ai livelli delle più efficienti nazioni del Nord Europa.
 
Riporto il PIL a livelli di pieno impiego e, di conseguenza, l’Italia produrrà le maggiori entrate fiscali che compenseranno (due anni dopo le prime emissioni) l’utilizzo del CCF.
 
Ma se nel frattempo è partita una nuova crisi ? a quel punto non si chiude più il cerchio virtuoso: recupero PIL – incremento del gettito fiscale – compensazione dell’utilizzo dei CCF.
 
Ragazzi, fatti i debiti scongiuri: una nuova crisi può capitare – può sempre succedere – per motivi oggi imprevedibili. Ma se capita, la reazione A LIVELLO MONDIALE non potrà che essere l’attuazione di una forte azione di stimolo monetario e sostegno della domanda.
 
Come è successo dopo il 2008 – e si spera, stavolta, evitando di fare le cose a metà, cioè evitando di rallentare le azioni espansive (o addirittura di invertirle, come è avvenuto in Europa) prima di aver conseguito il pieno recupero dell’economia.
 
Una nuova Lehman auguriamoci che non capiti, ma nel caso avere già avviato il progetto CCF non sarà affatto una controindicazione, anzi. Significherà essersi portati avanti rispetto ad azioni analoghe, e ancora più intense che dovranno essere varate e coordinate a livello mondiale.
 
Preoccuparci del futuro è un errore se ci distoglie dal risolvere la crisi presente.
 
E non ci sono soluzioni che non contengano due elementi: forte azione di rilancio della domanda, e ritorno a un sistema monetario flessibile.

martedì 26 novembre 2013

Germania e “denaro facile”

Almeno a giudicare dalle reazioni riportate dai media, in Germania la decisione della BCE di ridurre (il 7 novembre scorso) il tasso d’intervento dallo 0,50% allo 0,25% è risultata particolarmente impopolare.
 
I tedeschi hanno una sensibilità decisamente alta verso i rischi di instabilità dei prezzi, e questo di solito viene attribuito all’esperienza dell’iperinflazione di Weimar (1921-1923).
 
Non so fino a che punto sia vero, tenuto conto che ancora più pesante è stato l’effetto delle politiche di austerità deflattiva attuate tra il 1929 e il 1933. Hitler fu portato al potere dalla deflazione, non dall’inflazione.
 
E’ plausibile quanto sostengono alcuni commentatori, cioè che i tassi bassissimi non suscitino nei tedeschi tanto il ricordo di Weimar, quanto la preoccupazione per i rendimenti dei titoli di Stato e per il rischio che i fondi pensione non riescano a coprire l’inflazione futura.
 
Grettezza ? si fa fatica a chiamarla in un altro modo. Mezza Europa attraversa la peggiore crisi economica degli ultimi ottant’anni (almeno) e l’unico tra i principali paesi che ne è immune si preoccupa perché, forse, il potere d’acquisto dei suoi pensionati non sarà tutelato fino all’ultimo decimale.
 
L’atteggiamento è quello constatato in altre occasioni. Lo stato delle cose dà a me vantaggio 10, svantaggio 1 ? agli altri vantaggio zero, svantaggio 100 ?
 
I vantaggi miei me li merito, gli svantaggi non li accetto, e i problemi degli altri se li devono risolvere da soli.
 
Detto questo, va riconosciuta una cosa. La Germania, in questo come in altri casi, non sta sollevando un problema inesistente. L’impossibilità di adottare una politica monetaria appropriata per tutti i paesi dell’Eurozona è, effettivamente, un danno per tutti.
 
Anche perché l’unica soluzione plausibile, se il sistema monetario europeo rimane rigido com’è oggi, presuppone di alzare significativamente l’inflazione MEDIA tedesca e di portarla a livelli DECISAMENTE più elevati rispetto al Sud Europa. Non sarebbe più una questione di decimali, se vogliamo risolvere l’eurocrisi per questa via.

Servirebbe un’inflazione tedesca a livelli non inferiori al 5-6% per svariati anni.
 
Che questo spinga la Germania a decidere di uscire, lei, dall’euro, continua a sembrarmi molto improbabile, almeno a breve termine. Perdere di colpo competitività non solo verso il Sud Europa ma nei confronti di tutto il resto del mondo, e svalutare i suoi crediti, sarebbe un prezzo veramente elevato da pagare.
 
Ma di fronte a una proposta che evita tutto questo

domenica 24 novembre 2013

Una riflessione sulla Lira Sud

Non è il problema del momento, direte voi, ed è vero. Però aiuta a capire alcune cose, in particolare riguardo all’alternativa break-up dell’euro / riforma morbida.
 
L’avevamo già visto qui: il PIL pro-capite del centro-nord è di oltre il 70% più alto rispetto a sud e isole.
 
In realtà non è solo l’unione monetaria europea a essere un sistema monetario fortemente inefficiente.
 
Anche in Italia sarebbe stato meglio che fossero esistite due monete. Con una moneta sola, il problema del ritardo di sviluppo economico del Mezzogiorno, nell’arco di 150 anni, non ha fatto altro che accrescersi.
 
Bene. Immaginiamo una situazione in cui l’Italia è tornata ad avere la sua moneta sovrana – una per tutto il paese. Quale reazione ci possiamo aspettare, da parte dell’opinione pubblica meridionale, di fronte alla proposta di introdurre una Lira Sud, destinata a svalutarsi rispetto alla Lira Nord, o Lira Residua che dir si voglia ?
 
Mia previsione: una reazione negativa da parte di una percentuale tutt’altro che bassa, anzi forse maggioritaria, dei residenti meridionali.
 
Vi sembra strano ? il punto è che, al signore / signora di Napoli, di Bari o di Palermo, dovremmo dire che i suoi depositi bancari, i suoi titoli a reddito fisso, il suo stipendio, la sua pensione si convertono in una moneta che vale di meno.
 
Gli spieghiamo che non importa perché la spesa la fa sotto casa sua e non a Milano o a Padova ? Sì, ma… e se mi compro un auto (il Mezzogiorno italiano non pullula di case automobilistiche) ? e mio figlio che fa l’università a Bologna ?
 
Provate a porvi nell’ottica di ottenere un consenso largamente maggioritario su un progetto di break-up della Lira. E poi chiedetevi se è un risultato facile da ottenere. A me sembra una fatica improba.
 
Allora, perché dovrebbe essere più facile ottenere un’amplissima adesione della popolazione italiana sul break-up dell’euro, con l’Italia che esce “a strappo” e svaluta ?
 
Certo, ci sono (penso) in proporzione meno genitori di Milano che devono mantenere il figlio a Francoforte, rispetto alle famiglie di Napoli che si preoccupano per la retta universitaria a Bologna.
 
Ma la situazione non è così diversa.
 
Non fraintendete: il mio punto non è, qui, affermare che l’Italia non starebbe meglio con due monete che con una. Né tantomeno che non sarebbe enormemente meglio uscire dall’euro rispetto a restarci. Leggete (chi non l’avesse ancora fatto) qualche articolo del blog, e vi sarà più che chiaro come la penso.
 
Il punto è che se occorre acquisire (per citare Claudio Borghi) “il consenso del 151% della popolazione, e non sto scherzando” (va bene, diciamo che stava “metaforizzando”…) una domanda fondamentale è:
 
“Qual è la proposta migliore che risolve il problema minimizzando gli effetti collaterali negativi, e che ha la maggiore probabilità di coagulare intorno a sé un consenso amplissimo, anzi nettamente maggioritario ?”
 
Riflettete sul caso ipotetico Lira Nord – Lira Sud. Pensate alle analogie con lo scenario di break-up dell’euro e svalutazione della nuova moneta italiana.
 
E poi ditemi se non è più plausibile questa strada.
 
Che indica anche come lavorare sul gap Nord – Sud Italia.
 
Graditi commenti, come sempre !

giovedì 21 novembre 2013

Il libro è in arrivo…

… ma (scusate il ritardo) la gestazione e le rifiniture finali sono state un po’ più lunghe del previsto.
 
Ne varrà la pena, vedrete.
 
Purtroppo si scavalla Natale e saremo in libreria, a questo punto, a inizio 2014. D’altra parte l’eurocrisi non si sarà certo risolta prima di allora.

Anzi (questa è una previsione facile) se ne parlerà ancora più di oggi.
 
Per il momento eccovi la cartella editoriale aggiornata.
 

Una soluzione per l’euro
Gli strumenti per rimettere in modo l’economia italiana
Marco Cattaneo / Giovanni Zibordi
Editore Hoepli (Milano), 2014

Prefazione di Warren Mosler
Introduzione di Biagio Bossone
 
Le cause della crisi economica sono molto più semplici e molto più facili da risolvere di quanto si creda. Risiedono in un problema di funzionamento del sistema monetario, la corrente vitale senza la quale il motore dell’economia non si avvia.
 
Paradossalmente, le politiche economiche di questi ultimi anni, soprattutto (ma non solo) in Europa, hanno prodotto un terribile circolo vizioso, per aver trascurato o dimenticato concetti in realtà noti da decenni: il paradosso della frugalità, la trappola della liquidità, gli effetti perversi dei sistemi monetari rigidi.
 
Il libro espone con chiarezza e rigore metodologico come l’ignorare questi concetti abbia generato problemi analoghi a quelli sperimentati durante la Grande Depressione; quali errori di impostazione e di gestione abbiano caratterizzato il sistema monetario europeo dall’avvento dell’euro in poi; quali riferimenti storici consentano di interpretare la realtà odierna e di identificare le soluzioni della crisi.
 
Fornisce, soprattutto, una serie di meccanismi “chiavi in mano” – i Certificati di Credito Fiscale, i Tax-Backed Bonds, il rifinanziamento del debito pubblico con titoli di natura monetaria non soggetti a default – che possono essere applicati con grande rapidità e produrre una rapida e poderosa ripresa dell’economia, in Italia così come in tutti gli altri paesi dell’Eurozona oggi in difficoltà.
 
Risolvendo, tra l’altro, i problemi strutturali del sistema monetario europeo – ma senza attuare una rottura “secca” della moneta unica.
 
E’ una proposta innovativa, supportata tuttavia da analisi teoriche, riferimenti bibliografici, esperienze storiche e dati statistici ampiamente esposti e commentati nel libro.
 
Sarebbe gravissimo prolungare l’attuale, pesante malessere dell’economia, restare inerti di fronte al deterioramento del tessuto sociale che si sta, di giorno in giorno, aggravando. E’ una situazione che si può e che si deve risolvere in fretta, per recuperare le condizioni di sviluppo e di pacifica convivenza che l’Italia e l’Europa hanno saputo costruire nella seconda metà del ventesimo secolo.

domenica 17 novembre 2013

Break-up dell’euro: evento SME 1992 o evento Lehman 2008 ?


L’ultimo articolo metteva a confronto le tre possibili vie di uscita dalla crisi dell’euro.
 
Spaccarlo e ritornare alle monete nazionali.
 
Far evolvere l’unione monetaria in un’effettiva unione politica e fiscale, con trasferimenti finanziari dai paesi economicamente più prosperi agli altri.
 
Trasformare il sistema euro in un sistema monetario flessibile, ma senza spaccare l’euro. E’ possibile farlo introducendo, nazione per nazione, strumenti di natura monetaria a fianco dell’euro. Questo blog parla anche, e principalmente, di come utilizzare i Certificati di Credito Fiscale per ottenere tutto ciò.
 
Naturalmente quest’ultima è la mia soluzione preferita.
 
Il “Più Europa” trasformerebbe tutto il Sud in un’area economicamente (e permanentemente) disagiata, ricreando su scala continentale gli stessi problemi di cui soffre il Mezzogiorno italiano, ma anche (ad esempio) l’ex DDR. Comunque è pura teoria, è una strada impercorribile a causa della totale negatività della Germania. Meglio, molto meglio così.
 
Torno, invece, sul break-up dell’euro. La ritengo una soluzione meno valida rispetto alla “via riformista”, ai CCF, per vari motivi.
 
Uno è che la spaccatura comporterebbe la rivalutazione delle monete utilizzate dalla Germania e dagli altri paesi nord europei, che subirebbero un’immediata perdita di competitività non solo nei confronti del Sud Europa, ma anche rispetto a tutto il resto del mondo.
 
Inoltre i detentori di crediti verso i paesi del Sud – che in buona parte sono, anche in questo caso, residenti della vecchia “area marco” - subirebbero un’immediata perdita di valore per quanto attiene a questi crediti.
 
Perché mi preoccupo della Germania e dei creditori ? spesso si afferma che “sarebbe giusto” fargli subire questi impatti negativi, che andrebbero a compensare vantaggi accumulati negli anni precedenti.
 
E’ un tema interessante su cui disquisire, ma a mio parere è molto più opportuno essere pragmatici. Toccare certi interessi, al di là dei giudizi etici e delle valutazioni di legittimità, vuol dire incontrare fortissime resistenze. Il risultato sarebbe, principalmente, uno: ritardare la soluzione dell’eurocrisi.
 
Anche perché, lo sottolineo, c’è un’asimmetria: se forzo la Germania a rivalutare, danneggio la sua competitività e gli interessi dei creditori esteri, ma senza che ci sia un corrispettivo beneficio per il Sud.
 
L’azione di sostegno alla domanda ottenibile mediante i CCF consente di riportare il Sud Europa al pieno impiego e alla solvibilità, e riallinea la competitività del Sud ai livelli del Nord, senza passare tramite la ridenominazione di crediti e attività finanziarie.
 
In pratica la strada del break-up è perdente nel confronto con i CCF perché produce danni a vari soggetti senza avvantaggiare nessun altro.
 
Tra parentesi, la spaccatura dell’euro ha un impatto anche sui risparmiatori italiani, che detengono conti bancari, titoli di stato e a reddito fisso in genere, eccetera, e che se li vedrebbero convertiti improvvisamente in una moneta di minor valore (da euro a nuove lire, per esempio).
 
In realtà questo è un effetto molto più psicologico che reale. L’effettiva perdita di ricchezza per il risparmiatore italiano, che utilizzerà i suoi risparmi, in futuro, in Italia, non è pari alla svalutazione ma all’inflazione. E tutte le precedenti esperienze storiche indicano che la svalutazione non si traduce in inflazione se non in misura molto modesta.
 
Anzi, quando l’economia parte da una situazione di domanda depressa come l’attuale, ci sono buone probabilità che l’impatto inflattivo della svalutazione sia sostanzialmente nullo.
 
Senza contare che molti risparmiatori italiani detengono una parte del loro patrimonio sotto forma di attività in valuta estera: e qui addirittura avrebbero un vantaggio.
 
Tutto questo è convincente per la maggior parte delle persone dotate di adeguata cultura economica, però non si può trascurare (e non è giusto biasimare) chi, non possedendola, e/o avendo constatato con quanta incompetenza, ostinazione e pressapochismo siano state gestiti tutte le vicende connesse all’eurocrisi, si sente a disagio di fronte alla prospettiva di una nuova, improvvisa discontinuità.

Questo disagio si traduce nella difficoltà di ottenere un ampio consenso di pubblica opinione, senza il quale intraprendere la via del break-up diventa ancora più difficile.
 
Il singolo maggior elemento di incertezza, secondo gli economisti che esaminano gli effetti del break-up dell’euro, tuttavia, è probabilmente costituito dalle turbolenze che si potrebbero produrre sui mercati finanziari e, di conseguenza, sull’economia reale.
 
Gli ottimisti parlano del break-up come di un evento “SME 1992”. Il sistema monetario europeo legava, ai tempi, le monete dei vari stati in un regime di cambi fissi.
 
Ma, allora come oggi, le dinamiche dei vari paesi in termini soprattutto di inflazione e di competitività erano difformi, e simili a quelle che si sono poi verificate anche nel “periodo euro” – in particolare, la tendenza della Germania a controllare meglio l’inflazione e a guadagnare competitività.
 
Nel settembre 1992, le parità saltarono e vari paesi (tra cui Regno Unito, Italia e Spagna) uscirono dal sistema lasciando oscillare le loro monete, che si svalutarono significativamente rispetto al marco tedesco.
 
Non fu una passeggiata di salute, ma nemmeno una catastrofe. Nei mesi precedenti alla rottura, i paesi “candidati” alla svalutazione bruciarono enormi quantità di riserve valutarie nel tentativo di difendere le parità, e per lo stesso motivi innalzarono i tassi d’interesse.
 
Tutto ciò si rivelo alla fine inutile, e provocò una significativa recessione. Dopo la rottura dello SME, tuttavia, il recupero di competitività prodotto dalla svalutazione e il ritorno dei tassi d’interesse a livelli normali consentì il recupero delle economie. La recessione fu intensa, ma dopo un anno (seconda metà 1993) si tornò a crescere.
 
I pessimisti temono, invece, che il break-up potrebbe innescare un evento “Lehman 2008”. Una crisi generale del sistema finanziario mondiale, in altri termini: blocco del credito, fallimenti di banche, credit crunch, collasso della domanda.
 
E’ veramente molto aleatorio prevedere quale di queste due ipotesi si rivelerebbe più vicina al vero.
 
Di sicuro, esistono oggi alcuni elementi di maggiore complessità rispetto alla situazione del 1992.
 
Le aziende e le banche italiane hanno una pluralità di rapporti con controparti estere. Ogni operatore la cui attività non sia puramente domestica si preoccupa quindi della sua bilancia valutaria, cioè di non rischiare conseguenze negative per effetto di un riallineamento dei cambi, o comunque di contenerle entro livelli accettabili.
 
Si cerca quindi di avere attività in valuta per importi corrispondenti all’incirca a quelli delle passività nella stessa valuta (matching). Va anche tenuto conto che un’azienda esportatrice in caso di svalutazione otterrà maggiori flussi di cassa netti nella valuta in cui esporta. Questo rende appropriato, entro certi limiti, avere passività (debiti) denominate in quella valuta.
 
Possono poi essere adottati strumenti di gestione del rischio di cambio: vendite o acquisti a termine di valuta, opzioni eccetera.
 
Nel 1992 le aziende italiane sapevano che lo SME era un regime di cambi fissi, ma sapevano anche che le parità concordate erano, periodicamente, soggette a variazioni: se ne erano verificare diverse, in effetti, durante l’esistenza dello SME e del suo predecessore (il “serpente monetario”).
 
Si erano quindi preoccupate di gestire il rischio di cambio. Qualcuna l’aveva fatto bene, altre meno ma in definitiva la rottura dello SME fu assorbita senza grandi traumi, appunto perché il rischio era ben delineato. La svalutazione della lira non causò quindi rilevanti “danni collaterali”.
 
Se oggi si verificasse il break-up, la situazione è diversa perché non è chiaro che cosa accadrebbe alle varie categorie di attivi e di passivi. Per esempio i contratti di diritto italiano potrebbero essere automaticamente convertiti in nuove lire, e quelli di diritto internazionale invece rimanere in euro. Ma quante aziende e quante banche hanno definito la gestione del loro rischio valutario avendo chiara questa distinzione ?
 
Inoltre, come reagirebbero gli (ex) partner dell’eurozona ? Per esempio un’azienda italiana ha debiti verso un fornitore tedesco e il contratto è di diritto italiano. A quel punto dice “ti pago in moneta svalutata” ? Ma se ha anche crediti verso clienti tedeschi, che cosa ipotizza ? che questi crediti rimarranno in moneta forte ? o la Germania attuerà una misura di ritorsione (e protezione della sua economia) e pretenderà di pagare in moneta svalutata ?
 
Non sono al corrente di aziende o banche che abbiano impostato una gestione del rischio di break-up sulla base di queste analisi, né che siano state elaborati studi riferiti al complesso della situazione italiana o europea. Anche perché gli scenari sono aleatori ed è prevedibile che nascano contenziosi legali.
 
E’molto difficile stimare quanto possano pesare questi elementi di alea – che naturalmente non riguardano solo Italia e Germania, ma tutti i paesi dell’eurozona e tutte le loro varie controparti internazionali (comprese quelle extraeuropee).
 
Escludo, dati i pesantissimi danni che l’attuale regime monetario sta creando all’economia europea, che siano tali da farne preferire il mantenimento rispetto all’ipotesi di “spaccatura” dell’euro.
 
Ma la mia conclusione è che il break-up dell’euro forse non sarebbe un “evento Lehman 2008”, ma è, con ogni probabilità, qualcosa di più complicato di un “evento SME 1992”.
 
E questo è un fattore molto importante tra quelli che mi fa propendere per la soluzione "morbida".

giovedì 14 novembre 2013

Così si capisce meglio ?

Oh, naturalmente se prima di riflettere sulla tabella volete un ripasso, ci sono tanti articoli che permettono di farlo ma il più recente e completo è questo.



EUROCRISI: LE TRE POSSIBILI SOLUZIONI    
1) SPACCATURA EUROZONA E RITORNO ALLE MONETE NAZIONALI
2) "PIU' EUROPA"  
3) INTRODUZIONE DEI CCF (CERTIFICATI DI CREDITO FISCALE)
        3) E INVECE,
    PER CHI E' UN INTRODUCENDO
QUALI PROBLEMI NE SEGUONO ? PROBLEMA ? I CCF ?
         
1) SPACCATURA Effetti redistributivi, possibili contenziosi, Mercati finanziari,  
DELL'EUROZONA possibili insolvenze di aziende e banche aziende, banche Il problema non sussiste
       
Conversione improvvisa di depositi e Mercati finanziari  
titoli italiani in moneta di minor valore (*) e risparmiatori Il problema non sussiste
       
Rivalutazione della moneta tedesca e     
conseguente perdita di competitività Germania Il problema non sussiste
       
Possibile inflazione in Italia (con ogni probabilità    
modesta, molto inferiore alla svalutazione) Italia Il problema non sussiste
(*) Problema grave per gli investitori esteri, più psicologico che reale per gli italiani.
         
  Aumenti salariali e inflazione in Germania,    
2) "PIU' EUROPA" conseguente sua perdita di competitività Germania Il problema non sussiste
       
OPPURE:      
Competitività Italia - Germania rimane squilibrata Italia Il problema non sussiste
       
NEL QUAL CASO:      
Trasferimenti permanenti da Germania a Italia Germania Il problema non sussiste
       
E ANCORA:      
Eurobond / mutualizzazione del debito Germania Il problema non sussiste