mercoledì 30 marzo 2022

Che senso ha alzare i tassi oggi ?

 

L’inflazione è salita: prima perché la ripartenza post Covid ha creato strozzature dal lato dell’offerta; poi, perché la crisi ucraina le ha pesantemente aggravate.

Ha senso alzare i tassi d’interesse per contrastarla ?

La risposta è negativa, per i motivi spiegati nell'ultimo post. La crescita dei prezzi al consumo va contrastata con politiche fiscali ESPANSIVE rivolte a ridurre la tassazione e gli oneri accessori su energia, beni alimentari, costo del lavoro.

C’è una solo motivazione che giustifica, in qualche misura, un incremento dei tassi d’interesse nel contesto attuale. Si tratta della salvaguardia del potere d’acquisto del risparmio.

Prezzi al consumo in crescita del 6-8% erodono il valore reale del risparmio accumulato, se i rendimenti finanziari nominali non tengono il passo. E questo è un problema molto più per il piccolo risparmiatore che per il grande investitore. Più si è benestanti, per non dire propriamente ricchi, meno rileva la quota di risparmio investita in attività a reddito fisso e a basso livello di rischio.

Detto altrimenti, chi ha molti soldi da investire può permettersi di allocarli su attività con un sottostante reale, a partire dal mercato azionario. Che ha tutti i rischi del caso, ma nel medio-lungo termine protegge dall’inflazione e offre significativi rendimenti.

Interessi sui titoli di Stato al 2-3% non proteggono da un’inflazione al 6-8%, ma sono evidentemente meglio di zero. Nella speranza che il mondo torni a essere un posto un po’ più tranquillo da qui a non troppo tempo, e che l’inflazione ritorni a livelli più in linea con gli obiettivi delle banche centrali.

Altre ragioni per alzare i tassi, o per alzarli più di così, non ce ne sono. Tassi molto più elevati non risolverebbero il problema dell’inflazione – transitoria o meno che si riveli – salvo infliggere un’ulteriore, pesantissima, socialmente insostenibile mazzata all’economia reale e quindi al tenore di vita della popolazione.

 

sabato 26 marzo 2022

ALZARE i deficit pubblici per CONTENERE l’inflazione


L’economia occidentale sta combattendo, in questo momento, contro il rischio di scivolare in uno stato di stagflazione, definito come inflazione troppo elevata unita a recessione economica.

Per il momento non siamo in questa situazione, in quanto le previsioni per il 2022 sono ancora di PIL reale in crescita. Tuttavia gli incrementi previsti per i vari paesi hanno già subito forti limature, e potrebbero trasformarsi in DEcrementi se (principalmente e tra le altre cose) la crisi ucraina durerà a lungo.

Il dibattito sulle modalità per contrastare questo stato di cose, soprattutto a livello di banche centrali, si riduce in buona sostanza a una diatriba tra “falchi” e “colombe”.

I “falchi” ritengono che l’inflazione non possa essere combattuta efficacemente senza attuare una restrizione monetaria e creditizia: e quindi, in particolare, che sia indispensabile alzare i tassi d’interesse.

Le “colombe” ribattono che i prezzi hanno cominciato a salire prima per il faticoso riavvio delle catene di approvvigionamento di materie prime e componenti, dopo la rimozione delle restrizioni connesse al Covid; e poi per l’inizio delle ostilità in Ucraina. Queste strozzature e queste limitazioni di offerta non si contrastano con un’azione restrittiva della domanda finale come quella che sarebbe prodotta da qualche punto di interessi in più. Combattere efficacemente questo tipo di inflazione con restrizioni monetarie richiederebbe una contrazione di PIL e occupazione assolutamente disastrosa e inaccettabile.

L’elemento mancante in questo dibattito è la possibilità di utilizzare politiche fiscali ESPANSIVE in chiave DEFLAZIONISTICA. In pratica, immettere PIU’, non meno, moneta nell’economia, per ottenere un effetto di contenimento di costi e prezzi.

Come ? molto semplicemente, riducendo la tassazione e gli oneri accessori sui fattori produttivi. Meno IVA. Meno accise sui carburanti. Meno tasse e contributi sul costo del lavoro. Eccetera.

Che questo elemento non sia in primo piano nel dibattito all’interno delle banche centrali in una certa misura è comprensibile (non arrivo a dire giustificabile) perché le banche centrali sono le custodi dell’ortodossia monetaria. Più moneta in circolazione per loro può voler dire solo prezzi più alti, non più bassi. E viceversa.

Ma questa ortodossia monetaria ha già dimostrato di essere un modello di pensiero con delle enormi falle logiche. Il Quantitative Easing ha completamente fallito l’obbiettivo di creare inflazione. Ci sono volute lo scardinamento delle catene di fornitura post Covid, e una guerra. Altro che “stampare moneta”. L’equazione più / meno moneta = più / meno inflazione semplicemente non regge alla prova dei fatti.

E d’altra parte una politica fiscale espansiva, ma rivolta al CONTENIMENTO di prezzi e di costi, non richiede azioni da parte delle banche centrali, ma dei governi.

La palla è quindi in mano ai capi di Stato, ai capi di governo e ai ministri dell’economia e delle finanze. Anche all’interno dell’Eurozona, dove non è accettabile che ci si trinceri (per non agire) dietro i vincoli del sistema euro. Il patto di stabilità è sospeso, ancora per il 2022 (ed appare sempre più probabile che la sospensione venga prolungata).

E inoltre, c'è la Moneta Fiscale, pronta per essere utilizzata.

 

mercoledì 23 marzo 2022

Perché l’economia russa non è marginale

 

Dall’inizio della crisi ucraina in poi, ho letto parecchi commenti in merito alla debolezza dell’economia russa e di conseguenza all’impossibilità, per Putin, di sostenere un conflitto prolungato nel tempo.

In buona sostanza questa opinione si fonda sulla dimensione del PIL. Quello della Russia è inferiore a quello dell’Italia, è pari all’incirca alla somma di Paesi Bassi e Belgio, è una frazione rispetto non solo a USA e Cina ma anche a Giappone e Germania.

In altri termini, la Russia è tutt’altro che una superpotenza economica.

Il che è vero se, appunto, misuriamo le economie in base al PIL. La Russia è, di sicuro, un’economia relativamente poco avanzata.

Ma.

Essere un’economia avanzata significa che una parte significativa del PIL è generata da attività evolute, soprattutto nel campo del terziario. In un’economia avanzata il peso percentuale di macrosettori quali estrazione di risorse, agricoltura e anche manifattura è relativamente basso. Mentre incidono molto attività ad alto contenuto intellettuale, ad alto valore aggiunto. Servizi finanziari, design, fashion, assicurazioni, consulenza strategica, media innovativi.

Belle cose.

Il problema è che sono settori economici che possono essere classificati nella categoria del “non indispensabile”.

Perché indispensabile è altro. Indispensabile è la soddisfazione dei bisogni primari. Che sono il cibo e il riscaldamento. E l’energia, anche e soprattutto per far funzionare il resto dell’apparato produttivo.

Banalmente, le economie avanzate si caratterizzano per il forte peso del superfluo, perché l’indispensabile lo considerano scontato, garantito.

Il che è vero – nella maggior parte dei casi e delle condizioni. Ma diventa non più vero - quando ?

Nelle situazioni di emergenza.

Tipo, appunto, una crisi geopolitica, o a maggior ragione una guerra.

Nelle situazioni di emergenza, si scopre che non è poi così vitale disporre dei migliori, dei più qualificati, livelli di servizi finanziari, design, fashion, assicurazioni, consulenza strategica, media innovativi.

Si scopre che sono molto più importanti il gas, il petrolio, il nickel, il grano, i fertilizzanti.

Si scopre che le cose di cui la Russia scarseggia sono belle-ma-superflue, e che le cose di cui la Russia abbonda sono essenziali.

Del resto, immaginate di fare naufragio, stile Robinson Crusoe, su un’isola deserta, dove per sopravvivere avrete a disposizione capre selvatiche, legname e poco altro.

Chi pensate che abbia maggiori possibilità di cavarsela ? un allevatore o un banchiere d’affari ? un carpentiere o un softwarista ?

Se facciamo riferimento al PIL totale, la Russia non è una potenza economica. Se parliamo di “PIL indispensabile”, lo diventa.

L’equivoco è tutto qui.

 

lunedì 21 marzo 2022

Le persone che ho apprezzato di più nella mia vita professionale (divagazione)

 

Giusto per cambiare un po’ argomento, rispetto ai temi di questo periodo (e di questo blog)…

La domanda di cui al titolo l’ha posta uno specialista di risorse umane, e la risposta mi è venuta chiara e immediata.

Le persone che nella mia vita professionale mi hanno dato e insegnato di più sono quelle che sanno far esprimere al meglio colleghi e collaboratori. Questo nello specifico significa:

UNO, valorizzare le qualità di coloro che ti stanno intorno, aiutandoli a trovare la loro migliore collocazione nel contesto organizzativo. Quella cioè che permette loro di dare il miglior contributo, di esprimere al meglio il loro potenziale. Capire se è stato schierato in attacco un potenziale bravissimo portiere che però non sa tirare – o viceversa; e nel caso aiutare il riposizionamento.

DUE, far sentire apprezzate le persone con cui si interagisce.

TRE, evidenziare i loro comportamenti inadeguati ma non per punirli o per farli sentire fuori posto, bensì per aiutarli a superare le loro attuali limitazioni.

Chi manca di queste tre caratteristiche non dà alcun contributo allo sviluppo dell’organizzazione. In casi estremi (ma neanche tanto) può addirittura distruggerla.

Il punto TRE è particolarmente importante. Tuttavia richiede anche un atteggiamento costruttivo da parte del “ricevente”, cioè di chi vede messa in evidenza l’inadeguatezza dei suoi comportamenti. Il ricevente deve capire se la controparte è in buona fede – se è genuinamente interessata ad aiutarlo. E se ha ragione nelle sue critiche: può non esserlo, ma il ricevente deve prendere sul serio, deve ragionare con equilibrio su quello che gli viene detto.

E deve essere pronto a mettersi in discussione. La reazione epidermica, umana, comprensibile, è “ti sbagli, mi sto muovendo nella maniera giusta, so meglio di te che cosa sto facendo”. 

Invece è assolutamente possibile che il “ricevente” sappia PEGGIO del suo interlocutore “che cosa sta facendo”. Per il semplice motivo per molte cose sfuggono al soggetto e sono invece chiarissime a chi lo osserva dall’esterno. Non perché quest’ultimo sia necessariamente più competente, ma perché guarda alla situazione con un distacco che il “ricevente” per definizione non può avere.

 

venerdì 18 marzo 2022

Moneta Fiscale per affrontare la crisi energetica e alimentare

 

L’economia mondiale sta soffrendo per gli aumenti dei costi di energia, materie prime e input produttivi in genere. Un problema già pesante da parecchi mesi, a causa delle strozzature di offerta causate dalla rimessa in moto delle catene produttive dopo la conclusione dell’emergenza Covid. Ma diventato ancora (e molto) più grave in conseguenza della crisi ucraina, che ha fatto esplodere il prezzo di petrolio, gas, commodities agricole eccetera.

Come affrontare questa pericolosissima situazione ?

Una possibilità da esaminare molto seriamente è la riduzione (diretta o indiretta) dell’imposizione fiscale che grava, sotto molteplici forme, sui costi degli input produttivi. Ad esempio:

abbassando l’IVA sui prodotti alimentari

abbassando le accise sui carburanti

abbassando gli oneri di sistema sui consumi di gas

erogando ristori a favore di famiglie e aziende consumatrici degli input produttivi, o dei prodotti da essi derivati, che stanno subendo incrementi di costi

eccetera.

C’è una remora da superare – sempre la solita. La (falsa) necessità di contenere i deficit pubblici. Ma i deficit sono negativi se creano eccesso d’inflazione; se facciamo deficit per diminuire i costi sia alla produzione che al consumo, andiamo invece nella direzione giusta, sotto tutti i punti di vista.

Tecnicamente uno Stato che emette moneta è libero di procedere con azioni di questo tipo. L’Italia però ha il problema di non avere una moneta propria, essendo parte dell’eurozona.

Tuttavia la soluzione esiste: erogare sostegni o attuare riduzioni di tasse ma NON tramite emissione di euro, bensì utilizzando Moneta Fiscale / CCF. Ridurre quindi gli impatti dei maggiori costi in modo indiretto (ma efficacissimo), con strumenti di compensazione fiscale.

Le erogazioni di Certificati di Compensazione Fiscale (CCF) possono compensare gli oneri di sistema sulle bollette di luce e gas, o le accise sui carburanti, o l’IVA sui generi di prima necessità. Giusto per parlare di beni le cui crescite di prezzo oggi destano particolare preoccupazione, e su cui il governo in effetti ha parzialmente agito nei mesi scorsi – con interventi però marginali per non dire “omeopatici” (sempre per via del ritornello che “mancano i soldi”).

Per esempio, può essere distribuita sia agli autotrasportatori sia al pubblico una carta carburante. Ogni volta che si effettua un rifornimento, a fronte del pagamento di euro la carta carburante attribuirebbe un determinato quantitativo di CCF, riducendo o azzerando totalmente l’impatto delle accise e dell’IVA per il consumatore.

I CCF sono una forma di Moneta Fiscale: sconti fiscali negoziabili e trasferibili, esercitabili dopo un predeterminato periodo dalla loro erogazione, che hanno valore in quanto danno diritto al titolare di ridurre pagamenti d’imposta futuri.

Il percettore della Moneta Fiscale può trattenerla per ridurre la sua imposizione fiscale futura, o utilizzarla per pagare beni e servizi ad esercizi economici che la accetteranno, o venderla sul mercato finanziario in cambio di euro.

Utilizzare la Moneta Fiscale con queste modalità migliora la competitività delle produzioni interne da un lato, aumenta il potere d’acquisto dei consumatori finali dall’altro. Crea spazi per abbassare, rispettivamente, sia i costi di produzione che i prezzi di vendita effettivi subiti dai consumatori.

L’essenziale è erogare Moneta Fiscale in quantità tali da restare ampiamente sotto il livello del prelievo fiscale annuo della pubblica amministrazione. Diversamente, il valore della Moneta Fiscale in circolazione si depaupererebbe. Ma gli spazi sono enormi, tenendo conto che gli incassi pubblici totali sono dell’ordine di grandezza di 800 miliardi annui.

La Moneta Fiscale consente quindi di finanziare interventi che preservano il potere d’acquisto dei consumatori e calmierano i costi di produzione delle aziende. Il tutto, senza emettere BTP o altre forme di debito da rimborsare in euro.

Il progetto Moneta Fiscale ha già trovato una parziale, ma molto efficace, applicazione con il Superbonus 110%. È decisamente il momento di ampliarne l’utilizzo e di farne uno strumento strutturale di gestione della politica economica. L’attuale contesto di crisi lo rende estremamente opportuno: in effetti, vitale.

 

domenica 13 marzo 2022

Spiace dirlo ma era meglio Conte

 

Mi dispiace dirlo, perché la mia opinione su Draghi era che fosse sufficientemente scaltro e astuto da non compromettere la sua immagine di vincente. E che quindi avrebbe fatto funzionare meglio le cose. Soprattutto per quanto attiene all’economia.

Per un po’ era parso che fosse così, sulla base di un rimbalzo del PIL superiore, nel 2021, alle previsioni (e ai timori).

Ma per la verità stavo già prendendo atto da diversi mesi, io come molti altri, che il rimbalzo non era attribuibile a nessuna specifica azione del governo Draghi.

I ristori e i sostegni all’economia per compensare gli effetti dei lockdown, tutti tranne l’ultimo, li ha varati il governo Conte.

Il Superbonus 110 l’ha avviato Conte (Draghi invece ha solo cercato di affossarlo – per fortuna riuscendoci solo molto parzialmente – e tra l’altro raccontando bugie in pubblico).

Lasciamo perdere il PNRR, del quale riconfermo una volta di più che sarà già un miracolo se non farà danni. Comunque era stato varato, anche quello, sotto il governo Conte II.

Il rimbalzo l’hanno fatto soprattutto la diminuzione delle restrizioni dovute al Covid, e la conseguente ripresa di consumi e investimenti: l’economia ha riaperto e famiglie e aziende hanno speso un po’ dei soldi forzatamente risparmiati mentre si stava chiusi in casa.

Adesso è partita un’altra crisi. Già c’erano tensioni per i maggiori costi di materie prime ed energia, a causa della faticosa rimessa in moto delle catene di fornitura. E tra capo e collo, arriva il conflitto ucraino.

Draghi come reagisce ? continua a rimandare un necessarissimo, superindispensabile scostamento di bilancio, in primo luogo finalizzato a calmierare i costi di gas e benzina, in assenza dei quali interi settori produttivi rischiano la chiusura e qualche altro milione di persone potrebbe finire in povertà.

E minaccia di far cadere il governo se non viene approvata cosa ??? la riforma del catasto.

Se dico meglio Conte, qualcuno potrebbe obiettare criticando la sua gestione dell’emergenza sanitaria. Ma Draghi anche su quella è andato in totale continuità con il governo precedente (Speranza è sempre lì). Se di Covid si parla molto meno è perché la pandemia appare agli sgoccioli in tutto il mondo (spero di non essere smentito) e perché l’Ucraina nei talk show ha preso il posto dei caroselli virologici.

Sarò felice se un colpo di coda draghiano mi spingerà a cambiare opinione. Ma allo stato odierno dei fatti, sono costretto a prendere atto che senza le mani sulla tastiera della macchina da stampa (della BCE) Mario Draghi is just talks and a badge.

 

giovedì 10 marzo 2022

Espansione fiscale per calmierare i costi degli input produttivi

 

L’economia mondiale sta soffrendo per gli aumenti dei costi di energia, materie prime e input produttivi in genere. Problema già pesante da parecchi mesi, a causa delle strozzature di offerta causate dalla rimessa in moto delle catene produttive dopo la conclusione dell’emergenza Covid. Ma diventato ancora (molto) più grave in conseguenza della crisi ucraina, che ha fatto esplodere il prezzo di petrolio, gas, commodities agricole eccetera.

Come affrontare questa gravissima situazione ?

Una possibilità da esaminare molto seriamente è la riduzione (diretta o indiretta) dell’imposizione fiscale che grava, sotto molteplici forme, sui costi degli input produttivi. Ad esempio:

abbassando l’IVA sui prodotti alimentari

abbassando le accise sui carburanti

abbassando gli oneri di sistema sui consumi di gas

erogando ristori a favore di famiglie e aziende consumatrici degli input produttivi, o dei prodotti da essi derivati, che stanno subendo incrementi di costi

eccetera.

Tecnicamente uno Stato che emette moneta è libero di procedere con azioni di questo tipo. Lo è anche l’eurozona, alla sola condizione di buttare a mare gli attuali vincoli di governance (cosa totalmente necessaria, come era evidente da ben prima che si verificassero queste gravissime tensioni dal lato dell’offerta), e/o utilizzando l’emissione di Moneta Fiscale.

Si pone una domanda, relativa agli impatti di azioni di questo tipo sull’inflazione.

Il limite dell’espansione fiscale infatti non è l’incremento del deficit o del debito pubblico oltre soglie prestabilite (quello è un problema totalmente inventato, e più che mai oggi è indispensabile smettere di considerarlo un vincolo).

Il limite dell’espansione fiscale è l’innesco di livelli di inflazione indesiderata.

Ora, al contrario della decade 2010, le economie avanzate soffrono attualmente di un problema d’inflazione troppo alta, non troppo bassa.

Quale effetto prevale ? l’espansione fiscale rivolta alla riduzione dei costi degli input produttivi aumenta l’inflazione (perché c’è più potere d’acquisto in circolazione) o riduce l’inflazione (appunto in quanto mitiga i costi di produzione) ?

I prezzi alla produzione e (in misura minore, ma significativa) i prezzi medi al consumo finale sono, come detto, in tensione da diversi trimestri. Il che indica che le strozzature dal lato dell’offerta hanno creato uno squilibrio. La capacità produttiva del sistema economico mondiale ha subito un impatto negativo, creando un eccesso di domanda e quindi una salita dei prezzi.

Ridurre gli oneri accessori di natura fiscale che gravano sugli input produttivi non mette automaticamente a disposizione più petrolio, più gas, più navi da trasporto o più semiconduttori, ma consente a parecchie aziende di tornare a operare a condizioni economiche sostenibili. Si evitano quindi ulteriori fermi produttivi e si rimettono al lavoro una serie di produttori che erano stati costretti a ridurre o a fermare l’attività.

Ridurre i costi effettivi di produzione che gravano sulle aziende tende quindi a riequilibrare il rapporto tra offerta e domanda. Questo effetto è probabilmente superiore all’impatto sulla domanda generato dalla maggiore disponibilità di potere d’acquisto che ne deriva per il consumatore finale.

Del resto abbiamo negli ultimi trimestri assistito al fenomeno opposto: prezzi al consumo finale in salita nonostante i rincari tendano a limitare i consumi finali.

Abbiamo quindi necessità di un rapidissimo e significativo intervento di contenimento dell’imposizione fiscale sugli input produttivi. Gli effetti saranno di vario tipo, ma tutti positivi:

Evitare fermi produttivi e riportare alla normalità l’attività di aziende che oggi sono costrette a lavorare a ritmi inferiori alla loro capacità fisica.

Evitare penalizzazioni per i consumatori finali, in particolare per le categorie economicamente disagiate.

Sostenere il PIL reale evitando di interrompere la ripresa post Covid (che diversamente rischia invece di lasciare il posto a una ricaduta in recessione).

Avviare un’inversione del trend di incremento dei prezzi al consumo finale.

Controindicazioni nessuna, salvo il possibile incremento dei rapporti tra deficit / debito pubblico e PIL. Ma – fatto salvo che gli effetti positivi sul denominatore potrebbero essere sufficienti per evitarlo – questi vincoli di finanza pubblica devono comunque essere mandati al macero. Il prima possibile.

 

lunedì 7 marzo 2022

Deficit pubblico, spesa privata e "spiazzamento"

 

Un equivoco in cui parecchi commentatori di fatti economici cadono di frequente è che il deficit pubblico produca un effetto di “spiazzamento” (crowding out) della spesa privata. Se il settore pubblico spende più di quanto preleva in tasse, “inevitabilmente” utilizza risorse che verranno sottratte alla spesa privata, giusto ? 

Sbagliato.

In primo luogo, il deficit pubblico mette in circolazione – in mano ai privati – capacità di spesa supplementare. Se il settore pubblico spende più di quanto tassa, il settore privato riceve più soldi di quanti ne versa allo Stato. Il settore privato ha più soldi di prima, non meno soldi.

Bisogna casomai chiedersi se il maggior potere d’acquisto nominale renda possibile produrre e quindi utilizzare non meno, ma casomai più beni e servizi in termini reali: ovvero, se il maggior potere d’acquisto stimoli la produzione e non invece l’inflazione.

Questo dipende dal fatto che nel sistema economico esista, o meno, capacità produttiva sottoutilizzata. La possibilità di produrre maggiori quantità di beni e di servizi esiste in presenza di disoccupazione o sottoccupazione di persone e di impianti. Se non ci sono risorse fisiche inutilizzate, il maggior potere d’acquisto disponibile creerà pressione al rialzo nei prezzi, non maggiore produzione. Il contrario (più produzione a prezzi invariati) si verifica se esistono risorse fisiche inattive da mettere all’opera.

In effetti uno di questi due scenari (incremento del deficit in presenza di capacità inutilizzata) crea le condizioni per una maggiore spesa totale, e con ogni probabilità anche per una maggiore spesa privata (in entrambi i casi, spesa in termini reali, non solo nominali).

Nell’altro caso (incremento del deficit pubblico in assenza di capacità inutilizzata) lo “spiazzamento” si può invece verificare, ma non come conseguenza del deficit pubblico, bensì appunto a causa dei limiti della capacità produttiva. Se le risorse fisiche sono pienamente utilizzate, per costruire un ponte o un ospedale in più devo produrre in misura inferiore qualche altro bene o qualche altro servizio: devo trasferire risorse fisiche da una produzione all’altra. Quando la capacità produttiva è al limite, l’alternativa “burro o cannoni” è reale, non ipotetica.

Questo trade-off però, come detto, non nasce dal deficit pubblico. Per rendersene conto, basta constatare che se il bilancio pubblico è in perfetto pareggio, ogni centesimo di spesa pubblica corrisponde a un centesimo di tasse; e se le risorse produttive sono pienamente utilizzate, effettivamente ogni centesimo di spesa pubblica riduce di un centesimo la spesa privata. Qui c’è “spiazzamento”, certamente: ma non per effetto del deficit (che per ipotesi, nel caso specifico sopra descritto, non esiste). C’è “spiazzamento” a causa del fatto che la capacità fisica di produrre beni e servizi ha un limite.

Per capire se ci sia “spiazzamento”, dobbiamo quindi sempre partire dall’esame dello stato di utilizzo delle risorse fisiche. Non guardare al livello numerico del deficit pubblico – che non rileva.

È del resto l’esistenza stessa del settore pubblico a rendere inevitabile che una certa quantità di beni e di servizi venga prodotta per effetto di decisioni statali e non di decisioni private. In che misura è opportuno e desiderabile ? questo possiamo discuterlo, ed è in effetti uno dei temi chiavi del dibattito politico.

Ma se per “spiazzamento” intendiamo che una quota delle decisioni di spesa sia demandata al pubblico e non al privato, questo avviene a causa dell’esistenza stessa del settore pubblico, non perché il bilancio dello Stato sia, o meno, in deficit.

In sintesi e in conclusione:

UNO, il deficit pubblico di per sé non “spiazza” spesa privata.

DUE, l’incremento di spesa pubblica, anche quando comporta maggior deficit, non “spiazza” spesa privata, a meno di scontrarsi contro il limite delle risorse produttive.

TRE, l’incremento di deficit pubblico in presenza di risorse produttive inutilizzate genera maggiore produzione e maggiore spesa, pubblica e probabilmente anche privata.

QUATTRO, l‘incremento di spesa pubblica “spiazza” spesa privata quando si scontra contro il limite delle risorse produttive, anche se viene effettuato senza aumentare il deficit pubblico.

 

venerdì 4 marzo 2022

La difficile guerra economica alla Russia

 

L’Occidente spera, stando almeno alle dichiarazioni dei suoi leader, di mettere in ginocchio la Russia sul piano economico, ma il risultato appare tutt’altro che semplice da ottenere.

La ragione è facile da spiegare. La Cina, insieme tra l’altro all’India, al Brasile e al Sudafrica (i BRICS al completo, quindi) non ha aderito alle sanzioni e sta proseguendo senza limitazioni le relazioni commerciali con la Russia.

Il che significa, principalmente, che i russi continueranno a vendere gas, petrolio, grano ai cinesi, e a comprare da loro prodotti manifatturati. Qualcuno ha commentato che “la Russia sta riscoprendo l’autarchia”, ma non è affatto autarchia: è un rapporto commerciale bilaterale in cui ognuna delle due parti mette a disposizione i beni che la sua economia è in grado di produrre.

Gli elementi da tenere in considerazione sono chiari. L’Occidente ha un miliardo di abitanti in un mondo che ne conta quasi otto. Il reddito procapite occidentale non è più così tanto superiore alla media del resto del mondo quanto lo era anche solo una ventina d’anni fa. E l’Occidente non produce nessun bene e nessun servizio di cui la Russia non si possa approvvigionare altrove.

Certo, in molti settori di tecnologia avanzata gli USA (non l’Europa) mantengono una posizione di leadership mondiale. Le FAANG stanno lì. Ma non è che i cinesi non abbiano l’equivalente di Google, di Amazon o di Apple. E suvvia, si sta al mondo anche senza Netflix.

Molto peggio è fare a meno del gas russo. Non per gli statunitensi, ma per gli europei è in effetti impossibile. Altrimenti siamo noi a rischiare il collasso economico, non i russi. E infatti le sanzioni non stanno toccando il gas, e le banche russe sono state bandite “selettivamente” da SWIFT appunto in quanto il loro gas bisogna continuare a comprarlo, e beninteso a pagarlo. Con la beffa aggiuntiva che lo stiamo pagando molto, molto più caro.

L’arma economica finale-letale-totale per fermare Putin, molto semplicemente, non esiste. Salvo mettersi d’accordo con i cinesi. Il che forse è possibile – poche cose sono impossibili, in politica. Ma non so a fronte di quale contropartita.

 

martedì 1 marzo 2022

Se Hitler non avesse attaccato la Francia

 

Le vicende di questi ultimi giorni hanno rimesso la geopolitica al centro del dibattito, il che porta anche a riflessioni di natura storica.

Per esempio, in merito alla seconda guerra mondiale e a possibili scenari alternativi. Se ne sono elaborati tantissimi, ma che io sappia non quello che descrivo qui di seguito.

Putin e Hitler sono due personaggi sicuramente ben diversi, ma una cosa che li accomuna è che l’Occidente è riluttante (a dir poco) a combattere militarmente Putin, come per tanto tempo lo è stato nei confronti di Hitler.

Certo, alla fine dopo la Renania, dopo l’Austria, dopo la Boemia, dopo la Slovacchia, l’invasione della Polonia fece traboccare il vaso e Francia e Regno Unito dichiararono guerra alla Germania.

Ma, va ricordato, per quasi un anno il conflitto a ovest rimase quasi interamente sulla carta.

Divenne reale quando Hitler aggredì la Francia, nel maggio 1940. Ma la domanda che nessuno si è mai posto (per quanto ne so) è: ne aveva bisogno ?

Il suo obiettivo era a est, e lo sapevano tutti (anche perché lui stesso non ne aveva fatto alcun mistero).

La Francia fu aggredita, si è sempre detto, per non rischiare di combattere, contemporaneamente, una guerra su due fronti: l’incubo dei generali tedeschi prima, durante e dopo la Grande Guerra 1914-1918.

Ma se gli occidentali avevano solo fatto finta di combattere per la Polonia, avrebbero combattuto sul serio per la Russia ? ne dubito molto, molto fortemente.

In realtà non pochi di loro speravano che Hitler liquidasse il bolscevismo. E molti altri che Germania e URSS si indebolissero, o addirittura si distruggessero, a vicenda.

Se tutto questo è vero, e penso proprio che lo sia, anche senza l’attacco preventivo alla Francia l’aggressione tedesca all’URSS non avrebbe prodotto nessuna reazione militare da parte di Francia e Regno Unito.

Certo, resta poi da vedere se in assenza di intervento occidentale Hitler avrebbe sconfitto l’URSS. O se invece l’esito sarebbe stato quello della campagna di Napoleone.

Va anche menzionato che si sarebbe potuto verificare un intervento giapponese a est, e la guerra su due fronti l’avrebbe allora avuta l’URSS. Intervento che però i giapponesi, nella realtà storica, non misero in atto. Probabilmente anche perché memori della guerra di confine (non dichiarata) con l’URSS, conclusa negativamente (per loro) nel 1939.

In sintesi, lo scenario “ucronico” è: la Germania sarebbe riuscita a sconfiggere l’URSS, se avesse lasciato inattivo il fronte occidentale ? e tenuto conto che a quel punto gli USA non sarebbero intervenuti in Europa ?

Gli storici militari stimano che l’80% dello sforzo bellico che condusse alla sconfitta tedesca è attribuibile all’Armata Rossa e solo il 20% agli angloamericani. Naturalmente si può sostenere che quel 20% fu decisivo per far pendere la bilancia dal lato della sconfitta di Hitler.

Una domanda affascinante, a cui, com’è tipico degli scenari di storia alternativa, non c’è risposta certa.

Quello che mi stupisce è che non se la sia posta il mainstream della ricerca storica.