domenica 28 aprile 2019

La normalità del deficit pubblico


E’ da poco uscito un testo di grande interesse, “Macroeconomics” di William Mitchell, Randall Wray e Martin Watts. Ne raccomando la lettura perché si tratta della più sistematica e completa esposizione, tra quelle fin qui disponibili, della Modern Monetary Theory (MMT). Non so quando sarà pubblicata la traduzione italiana, ma penso a breve.

Un concetto chiave della MMT è quello dei saldi settoriali. Nel testo sopra citato lo trovate esposto in modo tecnico ed esaustivo. Ma il concetto base è semplice e può essere riassunto come segue.

Il risparmio finanziario privato interno (RFPI) di un paese corrisponde, evidentemente, alla differenza tra gli incassi di aziende e famiglie, e i pagamenti effettuati per l’acquisto di beni e servizi.

Ci sono solo due modalità tramite le quali si può formare RFPI.

La prima è che il paese produca un surplus delle partite correnti. Questo corrisponde a dire che i pagamenti ricevuti dall’estero per vendite di beni e servizi, più il reddito degli investimenti effettuati all’estero, più trasferimenti unilaterali tipo le rimesse degli emigrati, ecceda i pagamenti effettuati all’estero a fronte di analoghe causali. Un surplus delle partite correnti crea risparmio finanziario all’interno del paese; un deficit, al contrario, aumenta le passività finanziarie nette.

La seconda modalità è che il settore pubblico del paese sia in deficit. Il deficit pubblico significa, infatti, che le pubbliche amministrazioni effettuano più pagamenti di quanti ne ricevono. Questa differenza incrementa il risparmio privato. Il surplus del settore pubblico, al contrario, lo diminuisce.

Vediamo un esempio delle implicazioni di tutto ciò per tre paesi: USA, Germania e Italia. I dati sono in percentuale del PIL e si riferiscono alle previsioni per l’anno 2019 recentemente elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

USA
Surplus / (deficit) delle partite correnti (1)                     -2,4%
Deficit / (surplus) del settore pubblico (2)                      +4,6%
Risparmio finanziario privato interno (1+2)                   +2,2%

Germania
Surplus / (deficit) delle partite correnti (1)                     +7,1%
Deficit / (surplus) del settore pubblico (2)                      -1,1%
Risparmio finanziario privato interno (1+2)                   +6,0%

Italia
Surplus / (deficit) delle partite correnti (1)                     +2,9%
Deficit / (surplus) del settore pubblico (2)                      +2,7%
Risparmio finanziario privato interno (1+2)                   +5,6%

Per tutti e tre i paesi è prevista, nel 2019, una generazione di RFPI: poco più del 2% del PIL per gli USA, 6% o poco meno per Germania e Italia.

Ma le strade tramite cui questo risparmio si genera sono alquanto diverse.

Gli USA hanno un saldo negativo delle partite correnti, e lo coprono con un deficit del settore pubblico: avanzano un paio di punti di RFPI.

La Germania ha un enorme saldo attivo delle partite correnti. Il surplus di bilancio pubblico lo erode parzialmente, lasciando comunque sei punti percentuali di RFPI.

L’Italia ha un rilevante surplus delle partite correnti (anche se non delle dimensioni eclatanti di quello tedesco) e un deficit di bilancio pubblico. Questi due fattori concorrono in misura all’incirca uguali alla formazione di RFPI (a livelli vicini a quelli tedeschi).

Ora, una conseguenza di tutto ciò è che se prendiamo in considerazione l’economia mondiale, in un qualsiasi anno, una cosa di cui possiamo essere certi è che il saldo mondiale delle partite correnti è esattamente zero. I pagamenti effettuati tra un paese e l’altro sono per definizione pari agli incassi. Perché i pagamenti di qualcuno sono gli incassi di qualcun altro.

Questa è una pura e semplice identità contabile.

Non è invece un’identità contabile, ma penso sia facile convenire che si tratta di una situazione auspicabile e normale, che il totale mondiale del risparmio finanziario privato sia positivo. E’ normale e auspicabile, in altri termini, che nel complesso aziende e famiglie incrementino il loro risparmio finanziario netto.

La normalità per l’economia mondiale deve allora essere qualcosa del genere:

Mondo
Surplus / (deficit) delle partite correnti (1)                     +0,0%
Deficit / (surplus) del settore pubblico (2)                      +x%
Risparmio finanziario privato interno (1+2)                   +x%

Se l’obiettivo, in altri termini, è che nel mondo si formi un risparmio finanziario privato pari al 4%, il totale dei deficit pubblici deve essere anch’esso pari al 4% del PIL mondiale.

Il pareggio, per non dire il surplus, del bilancio pubblico non sono quindi una “virtù”. Sono un’anomalia, che un paese può sostenere nel tempo solo se produce altissimi surplus delle partite correnti (il che significa che altri paesi dovranno essere in deficit per pari importi).

Come possiamo allora definire la richiesta del Fiscal Compact, per i paesi UE che vi hanno aderito, di puntare al pareggio del bilancio pubblico ? e la medesima prescrizione recepita nell’articolo 81 della Costituzione italiana ?

A me viene in mente “bestialità contabile”. Che ne dite ?


martedì 23 aprile 2019

Aggiornamento Progetto Moneta Fiscale / CCF

La più recente versione del Progetto Moneta Fiscale / CCF, aggiornata sulla base dell'ultimo DEF, è disponibile tramite questo link.

Grazie a Francesco Chini per la consueta consulenza informatica.

venerdì 19 aprile 2019

Progetto Moneta Fiscale: risposte ad alcuni dubbi ricorrenti


D1. Attuando il Progetto Moneta Fiscale, è sicuro che non si verificherà alcun incremento di debito pubblico rispetto all’ipotesi di proseguire secondo le attuali linee di politica economica ?

R1. Qualsiasi previsione è attendibile o meno in funzione delle ipotesi che vengono adottate. Non esistono ovviamente sfere di cristallo: i punti chiave sono l’attendibilità delle ipotesi e le manovre compensative che il Progetto prevede di adottare se l’evoluzione dell’economia fosse meno favorevole del previsto.

Le ipotesi adottate nel valutare gli impatti del Progetto sono assolutamente ragionevoli. L’ultimo Documento di Economia e Finanza (DEF aprile 2019) prevede che a fine 2022 il debito pubblico raggiunga il livello di 2.490 miliardi di euro.

Il Progetto Moneta Fiscale arriva (in un arco di tempo più lungo) allo stesso livello massimo, ipotizzando che l’immissione di CCF nell’economia produca un effetto espansivo sul PIL stimato sulla base di un moltiplicatore di 1x, e che i conseguenti maggiori tassi di crescita facciano recuperare, nel giro di alcuni anni, agli investimenti privati la metà della caduta registrata tra il 2007 (picco pre-crisi) e il 2018.

Sono ipotesi tendenzialmente conservative, tenuto conto che il sistema economico riparte da livelli di domanda aggregata fortemente depressi. In ogni caso, scostamenti negativi rispetto alle previsioni sono ampiamente gestibili grazie alle clausole di salvaguardia non procicliche e all’alto rapporto di copertura a termine degli sconti fiscali.



D2. Non rischiamo squilibri di saldi commerciali esteri ?


R2. A parità di condizioni, un incremento di domanda interna produrrebbe una crescita di importazioni e quindi un peggioramento dei saldi commerciali esteri. Ma il Progetto Moneta Fiscale prevede che una parte delle assegnazioni di CCF vadano alle aziende, riducendo quindi il loro costo effettivo del lavoro.

Il Progetto dispone in un certo senso di due “manopole”, una che regola la domanda e una che interviene sulla competitività (l’allocazione alle aziende come sopra descritta, appunto). E’ quindi possibile attuarlo in modo tale che il maggior import dovuto alla ripresa della domanda sia compensato da maggiori esportazioni nonché da sostituzioni di prodotti importati con produzioni realizzate in Italia.

L’obiettivo è massimizzare l’efficacia del Progetto, evitando che una parte dell’effetto espansivo si disperda a causa di impatti negativi sui saldi commerciali esteri. Si punta a un impatto neutrale: nessun miglioramento e nessun peggioramento del saldo export – import.



D3. Come è possibile essere certi che la reazione dei mercati non sarà negativa ?

R3. Nessuno può avere certezze in merito al comportamento dei mercati, soprattutto a brevissimo termine. Detto questo, l’incertezza esiste, pesantemente, OGGI, perché l’Italia è indebitata in un moneta che non emette, non esiste una garanzia incondizionata dell’istituto di emissione (la BCE) in merito al debito pubblico (“Maastricht Debt”), l’ipotesi di rottura del sistema non può essere esclusa e in caso di rottura l’Italia sarebbe costretta al default o alla ridenominazione del suo debito pubblico in una moneta più debole (rispetto all’euro).

Questa situazione è all’origine del “problema spread”. Una garanzia incondizionata della BCE lo eliminerebbe, ma questa garanzia non esiste e le probabilità che venga accettata, in seguito a una revisione dei trattati UE, è infinitesimale per non dire nulla.

Nel contesto sopra descritto, il Progetto Moneta Fiscale ottiene quanto di meglio possibile anche dal punto di vista dei detentori di titoli del debito pubblico italiano. Ad esempio, si annuncia che il Maastricht Debt non supererà un livello massimo prestabilito – che potrebbero essere i 2.490 miliardi previsti per fine 2022 (previsione DEF 2019) - e scenderà costantemente in rapporto al PIL.

Gli strumenti disponibili nell’ambito del Progetto Moneta Fiscale consentono di rispettare in modo rigoroso questo obiettivo. Oggi, al contrario, obiettivi simili sono costantemente disattesi, perché i tentativi di ridurre il deficit comprimono la domanda e quindi il denominatore del rapporto Maastricht Debt / PIL.

Tutto ciò dà ai titolari del debito pubblico garanzie molto più solide rispetto alla situazione odierna.


D4. Non c’è il rischio che il governo italiano emetta quantitativi di CCF eccessivamente alti, per acquisire consenso politico o per qualsiasi altra ragione ?

R4. Va innanzitutto precisato che la presunta “indisciplina fiscale” dell’Italia è un mito. L’Italia è l’unico paese UE che dal 2000 in poi ha ottenuto surplus primari di bilancio pubblico IN OGNI ANNO salvo che nel peggiore, quello immediatamente successivo alla “crisi Lehman” (il 2009: vedi qui a pagina 5).

Ciò premesso, un eccesso di emissioni di CCF ridurrebbe il loro valore rispetto a quello dell’euro in quanto si verificherebbe un effetto di “intasamento”: circolerebbe una quantità di CCF molto elevata rispetto a quanto utilizzabile, anno per anno, per ottenere sconti fiscali. Ma le emissioni previste dal Progetto Moneta Fiscale sono molto lontane dai livelli che potrebbero dar luogo a questo problema.

In ogni caso, la responsabilità e i danni resterebbero confinati all’Italia. I CCF si “svilirebbero” rispetto all’euro, ma questo non avrebbe ripercussioni negative sulla moneta comune e sui partner dell’Eurozona.



D5. Tramite il Progetto Moneta Fiscale, esiste la possibilità di ridurre il debito pubblico anche in valore assoluto ?

R5. Via via che l’utilizzo dei CCF prende piede, è possibile ipotizzare che il Ministero dell’Economia emetta ulteriori titoli a utilizzo fiscale (ad esempio, CCF a medio-lunga scadenza) per rifinanziare i normali titoli di Stato via via che scadono. Anche queste ulteriori emissioni non rientrerebbero nel Maastricht Debt.

Esiste quindi una non marginale probabilità di poter non solo stabilizzare il Maastricht Debt (e di abbassarlo in rapporto al PIL), ma anche di ridurlo in valore assoluto, rendendo l’Italia sempre meno soggetta alle fluttuazioni e alle tensioni speculative del mercato dei capitali.


D6. Il Progetto Moneta Fiscale sarà un trampolino verso l’uscita dell’Italia dall’euro ? 

R6. Il Progetto Moneta Fiscale è nato per risolvere le disfunzioni dell’eurosistema, non per romperlo. Gli autori del Progetto sono fortemente critici riguardo all’eurosistema così come oggi è impostato. Ma il Progetto è nato per correggere quanto attualmente non funziona, non per portare la situazione verso la rottura.

A prescindere da qualsiasi valutazione di natura politica, la rottura dell’euro sarebbe un evento traumatico ed estremamente complesso da attuare. Basta riflettere, per rendersene conto, sulle turbolenze dei mercati finanziari che si verificherebbero prima, durante e dopo l’evento, e alla complessità della ridenominazione contrattuale e legale dei contratti stipulati in euro.

Le difficoltà politiche e pratiche resterebbero molto rilevanti, in effetti pressoché invariate, anche se i CCF fossero già in circolazione.

Per questa ragione, il Progetto Moneta Fiscale è stato concepito, fin dalla sua nascita, come una strada per rendere funzionale un sistema che oggi non lo è: non per romperlo.

mercoledì 17 aprile 2019

La proposta Mosler


Ho moltissima stima per Warren Mosler, che considero un economista di grandi competenze e originalità di pensiero. L’idea dei CCF, del resto, mi è stata ispirata dai tax-backed bonds (noti appunto anche come Mosler bonds) proposti da lui e da Philip Pilkington, oltre che dai MEFO bills di Hjalmar Schacht.

La proposta Mosler per reintrodurre la lira in Italia mi lascia però perplesso. Può darsi benissimo che io non l’abbia perfettamente compresa (e se è così ringrazio in anticipo chi mi farà notare eventuali discordanze tra il seguito di questo articolo e le affermazioni di Mosler, che sinceramente a volte trovo sintetiche all’eccesso – degli schizzi molto interessanti ma un po’ carenti nell’elaborazione dei dettagli – magari è un mio limite).

Per quello che ho compreso io, Mosler propone di:

UNO, convertire tutta la spesa pubblica italiana da euro a lire.

DUE, dichiarare che le tasse e qualsiasi altra forma di obbligazione finanziaria nei confronti del settore pubblico dovranno essere pagate in lire.

I depositi bancari resteranno invece in euro, e non si verificherà alcuna conversione di crediti, debiti, valuta di denominazione dei contratti eccetera: resterà tutto in euro.

Secondo Mosler, dato che tutti i residenti italiani avranno bisogno di lire per pagare le tasse, ci sarà una forte domanda di lire che eviterà svalutazioni della lira nei confronti dell’euro.

Se questo è vero, i soggetti che ricevono lire e non più euro a fronte delle varie voci di esborso del settore pubblico – dipendenti pubblici, pensionati, fornitori della pubblica amministrazione, possessori di Stato, eccetera – non subiranno penalizzazioni. Riceveranno lire ma la lira sarà convertibile in euro pressoché alla pari.

La mia perplessità riguarda soprattutto quest’ultimo punto. Come facciamo a essere certi di un rapporto di cambio pressoché alla pari ? è vero che i residenti italiani dovranno procurarsi lire per pagare le tasse, ma è anche vero che lo Stato italiano immetterà una quantità ancora superiore di lire a fronte della spesa pubblica (precedentemente effettuata in euro). La quantità sarà superiore perché esiste un deficit pubblico, che tra l’altro ci si propone di aumentare per rilanciare la domanda, l’occupazione e il PIL.

La lira di Mosler è in effetti, in questo schema, una forma di Moneta Fiscale, utilizzabile fin da subito per pagare tasse (e non con un differimento di due anni, come nel caso dei CCF). Ma se ne immette immediatamente una quantità enorme, vicina a 1.000 miliardi: non 30 il primo anno da incrementare gradualmente fino a circa 100 (che è quanto ipotizzato dal progetto CCF).

Il rapporto di cambio lira – euro alla pari nel caso della proposta Mosler mi sembra quindi tutt’altro che certo.

E comunque si verifica una conversione forzata di ogni voce di spesa pubblica, imponendo la ridenominazione di tutti i contratti in essere.

Nel caso dei CCF, al contrario, la proposta è di immettere una quantità molto inferiore e molto più gradualmente, e di non ridenominare nulla. Tutto quello che si pagava in euro continua a essere pagato in euro. Si immette maggior potere d’acquisto sotto forma di CCF, senza alcuna conversione.

Anch’io e gli altri membri del Gruppo Moneta Fiscale pensiamo che il rapporto di cambio tra CCF ed euro non si discosterà molto dalla parità, salvo qualche punto percentuale per tener conto del differimento di utilizzabilità. Non ci saranno grossi scostamenti perché entro un periodo di tempo abbastanza breve gli impegni fiscali potranno essere onorati indifferentemente in euro o in CCF, e perché la quantità di CCF immessa sarà sempre e comunque una frazione degli impegni di pagamento verso la pubblica amministrazione.

Ma in ogni caso, se anche l’effetto di discount del CCF verso l’euro fosse superiore al previsto (magari inizialmente, per via dell’effetto novità), se fosse per esempio il 10%, cambierebbe poco per quanto riguarda l’efficacia del progetto. Sarebbero comunque soldi in più, potere d’acquisto supplementare che entra nell’economia.

Per queste ragioni il progetto CCF mi pare molto più efficace e sicuro negli effetti del progetto Mosler. Se non mi sfugge qualcosa, ovviamente.


sabato 13 aprile 2019

Brexit, feste noiose e ristoranti


Simon Wren-Lewis, economista inglese, scrive cose che trovo generalmente interessanti e condivisibili in merito alla crisi dell’eurosistema, e cose che mi lasciano molto più dubbioso in merito alla Brexit (a giudizio suo – ma non mio – un processo che il Regno Unito dovrebbe bloccare).

Un suo recente post afferma quanto segue:

“Ho sentito una buona metafora l’altro giorno. Alcuni colleghi decidono che sarebbe un’ottima idea cenare insieme usciti dal lavoro. Sono tutti entusiasti. E’ deciso, dicono. Ma a quel punto, qualcuno chiede dove si va a mangiare. Uno dice, sicuramente non un ristorante indiano. Un altro, abbiamo mangiato troppo italiano ultimamente. E così via: qualunque sia la proposta, qualcuno dice che non gli va bene. Ma tutti sono d’accordo che vogliono cenare insieme. Finiscono per lasciar perdere”.

Una metafora della Brexit, secondo Wren-Lewis: il referendum l’ha approvata senza che ci fosse un’idea di come attuarla e di cosa fare dopo. Per questo motivo, il referendum non avrebbe conferito legittimità alla Brexit.

Una metafora più corretta da applicare, a mio giudizio, è un’altra. La Brexit non è paragonabile alla decisione di cenare insieme. E’ paragonabile a un gruppo di amici che decidono di andarsene, tutti quanti (perché le cose se le fanno, le fanno in gruppo) da una festa che si sta rivelando molto noiosa.

La decisione di andarsene è presa. Non si è deciso se poi si torna in albergo a piedi, in metropolitana o in taxi. Ma PRIMA si esce, poi si vede che cosa conviene fare.

Torniamo al mio punto espresso in un post precedente: il referendum non chiedeva “volete uscire dalla UE a certe condizioni”. Chiedeva “volete uscire o no”.

Se si vuole rispettare la volontà popolare, democraticamente espressa nel referendum, si esce. Punto.

Theresa May, che aveva fatto campagna elettorale per il remain, non ha rispettato il risultato del referendum. Ognuno la pensi come crede: io lo considero, in sé, un fatto molto, molto grave.

mercoledì 10 aprile 2019

Che cosa serve per far partire la Moneta Fiscale


Le casematte del potere sono parecchie, e vanno conquistate una per una

Una delle domande che, da un po’ di tempo, mi viene posta con maggiore frequenza è la seguente: abbiamo una maggioranza parlamentare e un governo composto da due schieramenti politici (Lega e M5S) che sono informati del progetto Moneta Fiscale / CCF, e che ne comprendono le valenze. L’economia ha un’urgentissima necessità di essere rilanciata. Allora, perché il progetto ancora non decolla ? che cos’altro serve per sbloccarlo ?

Capisco perfettamente chi è impaziente. Anzi, per quello che vale ne condivido in pieno i sentimenti.

Ma la mia risposta – non ho la certezza che sia quella giusta, ma non ne vedo una più plausibile – è che controllare parlamento e governo non è sufficiente.

La ragione è che esistono molti altri soggetti che hanno un potere (più o meno elevato) d’influenza, d’interdizione, di insabbiamento del processo decisionale ed esecutivo.

Il più importante e il più visibile di questi soggetti è il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella è uomo PD, quindi totalmente ossequioso del principio per cui non si deve fare nulla che non sia esplicitamente approvato, gradito, meglio ancora caldeggiato da Bruxelles.

Spiegare che la Moneta Fiscale funziona ed è perfettamente compatibile con i trattati e i regolamenti UE per lui non è sufficiente, temo.

Potrebbe Mattarella rifiutarsi di firmare il testo di legge che introduce i CCF e rimandarlo alle Camere ? una volta sì, la seconda (in caso di nuova approvazione) no. Ma il diniego in sede di prima firma sarebbe con ogni probabilità sufficiente ad agitare le acque e a creare turbolenze sui mercati finanziari.

Qualcuno afferma, inoltre, che il ministro dell’economia, Giovanni Tria, sia in effetti un’emanazione di Mattarella. Forse è vero, forse no, forse lo è in parte. Ma in ogni caso, l’apparato tecnico-burocratico dei ministeri economici, per non parlare della Banca d’Italia, fa in larga misura riferimento alle strutture di comando preesistenti, quindi a persone che in gran parte sono le stesse rispetto a prima delle elezioni del 4 marzo 2018.

E il progetto Moneta Fiscale / CCF ridà poteri agli stati nazionali, sottraendoli a soggetti che danno attualmente per conseguito, per scontato, di essersene appropriati in modo irreversibile: in primo luogo le grandi istituzioni finanziarie internazionali, nonché la UE stessa e la BCE.

Il progetto MF / CCF inoltre minerebbe, si sente a volte affermare, il processo d’integrazione politica che l’euro era nato (almeno, così si disse ai tempi) per promuovere.

Questo processo d’integrazione peraltro è a fortissimo rischio di fallimento, e potrebbe al contrario essere rilanciato proprio da una diversa governance dell’Eurozona e da un forte rilancio della crescita e dell’occupazione.

E il rilancio dell’economia è proprio quanto il progetto MF / CCF consente di ottenere. Ma questo lo penso (con fortissima convinzione) io, non credo che lo pensi Mattarella, e mi sembra anche che non lo pensino le persone a cui il presidente presta orecchio (in particolare sui temi economici).

E’ una situazione senza vie d’uscita ? no, su questo sono più ottimista. Mattarella durerà in carica ancora tre anni (scarsi), fino a marzo 2022. Forse sono proprio i tre anni che mancano alla svolta.

In primo luogo perché, se l’attuale maggioranza parlamentare regge (cosa di cui sono personalmente convinto) avrà i numeri per eleggere il prossimo presidente della Repubblica: dopo tanto tempo, quindi, ci sarà la possibilità di avere un presidente senza il marchio PD.

Ma – forse non meno importante - anche perché si verificherà un graduale processo di avvicendamento nell’ambito delle strutture tecnico-burocratiche, sia del governo che delle istituzioni pubbliche.

In soldoni, circoleranno in quelle strutture meno persone che non si permettono neanche di concepire linee di azione prive dell’imprimatur della più stretta ortodossia eurocratica; e più persone dotate invece della convinzione e della volontà che la svolta possa e debba essere attuata.

Potrà anche accadere che i tempi siano più rapidi, e nel caso questo sarà dovuto alla spinta delle circostanze esterne: per esempio da una nuova recessione e da un nuovo appesantimento del malessere economico che grava in particolare sull’Italia, ma in effetti sulla maggior parte dell’Eurozona.

Di sicuro, tuttavia, questa non è una guerra che si vince con un blitz nelle sue fasi iniziali (che si sono in realtà – le fasi iniziali - già esaurite, tenuto conto che il governo Conte è in carica ormai da nove mesi).

Si sta invece combattendo una guerra di posizione e di logoramento. Assomiglia molto più alla prima guerra mondiale che alla seconda. E il terreno quindi va conquistato metro per metro.

Non dubitate, però: è una guerra che si può vincere.

lunedì 8 aprile 2019

I CCF sono politica fiscale, non politica monetaria


Marco Mori fa notare che l’articolo 3 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) afferma (comma 1c) che, tra i settori in cui l’Unione ha competenza esclusiva, rientra la “politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro”.

Ne tra quindi la conclusione che il progetto Moneta Fiscale / Certificati di Credito Fiscale costituirebbe una violazione di quell’articolo.

Ma è una conclusione sbagliata.

La politica fiscale è l’insieme degli atti posti in essere da uno Stato per definire dimensioni e allocazione della spesa pubblica, nonché dimensioni e ripartizione del prelievo di tasse, imposte, accise, contributi eccetera.

La politica monetaria riguarda invece gli interventi sui tassi d’interesse e sul credito, nonché la regolamentazione delle istituzioni finanziarie.

E’ quindi evidente che emettere MF / CCF è un’azione di politica fiscale, non di politica monetaria.

Immaginiamo, del resto, che lo Stato emetta titoli di Stato e li assegni direttamente a cittadini e aziende, ad esempio per pagare stipendi di dipendenti pubblici e forniture della pubblica amministrazione. E che promuova anche un circuito che consenta ai possessori di titoli di Stato di scambiarseli direttamente (se lo desiderano) per regolare transazioni private.

In effetti è quello che noi del Gruppo Moneta Fiscale intendiamo fare con i CCF.

Sarebbe un’azione molto meno efficace se realizzata con gli attuali titoli di Stato e non con i CCF, in quanto non otterrebbe il risultato di evitare la formazione di nuovo deficit pubblico e nuovo debito pubblico ai sensi del trattato di Maastricht (ricordo che i CCF NON rientrano nel Maastricht Debt, al contrario dei titoli di debito).

Però potrebbe comunque dar luogo a risultati interessanti, quali (1) la possibilità di collocare debito pubblico senza costi di intermediazione da pagare al settore finanziario, e (2) l’incremento di liquidità dei titoli di debito.

E’ evidente che un’azione di questo tipo sarebbe semplicemente una diversa modalità per condurre la politica fiscale. Non costituirebbe un’azione di politica monetaria.

Tra l’altro, Stefano Sylos Labini ricorda che la tangente Enimont fu pagata in titoli di Stato. E nel caso in cui si ritenga l’esempio un po’ dubbio, visto che si trattava di una transazione illecita (Sergio Cusani si è fatto otto anni a San Vittore per questo…), a me personalmente è accaduto di negoziare più di una transazione immobiliare con pagamento in titoli di Stato.

Utilizzare i titoli di Stato, e domani i CCF, come strumento di scambio non è quindi nulla di inusitato.

Ed emettere CCF è politica fiscale, non politica monetaria.


venerdì 5 aprile 2019

Moneta Fiscale: la strada giusta per l'economia italiana


Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini


Articolo pubblicato anche su ytali.com.


La depressione dell’economia italiana dura da anni e non accenna a risolversi. A prezzi costanti, il PIL italiano 2018 è stato inferiore di circa 80 miliardi di euro rispetto al 2007 – un decremento del 4% ! Nel medesimo periodo, le esportazioni sono aumentate dell’11% - non una prestazione stellare in undici anni, ma comunque una chiara indicazione che il problema principale è la carenza di domanda interna. Se il PIL italiano fosse cresciuto allo stesso ritmo delle importazioni, oggi sarebbe più elevato del 15% circa - oltre 250 miliardi di euro.

Questa situazione genera un tasso di disoccupazione U-6 (che prende in considerazione anche gli scoraggiati nonché i lavoratori involontariamente part-time) vicino al 30%. Indiscutibilmente, esiste un enorme output gap.

Il 2019 non si presenta certo sotto auspici più favorevoli, anche a causa del generale rallentamento delle economie mondiali (e in particolare dell’Eurozona). Tra l’altro, le aspettative incerte sul futuro dell’economia tendono a limitare consumi e investimenti, tengono bloccato l’ingente risparmio della popolazione italiana (1.370 miliardi di conti correnti su un totale di 4.300 miliardi di attività finanziarie), restringono il credito bancario e abbassano la velocità di circolazione di moneta nell’economia, alimentando ulteriormente il circolo vizioso.

L’economia italiana sicuramente soffre anche di altri problemi. La crescita della produttività è irrisoria da vent’anni a questa parte. Ma di nuovo, almeno in parte questo nasce dalla depressione della domanda. In termini reali, gli investimenti sono stati inferiori di oltre il 15% nel 2018 rispetto al 2007. La bassa domanda del settore privato, le restrizioni alla spesa pubblica, e il basso impiego della capacità produttiva esistente producono effetti negativi e perduranti su investimenti e produttività.

Il governo in carica sta cercando di immettere più potere d’acquisto nell’economia, ma i vincoli fiscali lasciano pochissimo spazio di azione. Si può discutere se il reddito di cittadinanza e la “quota 100” sulle pensioni siano le forme d’intervento più adeguate, ma il problema di gran lunga più grave è che la dimensione assoluta di queste manovre è del tutto insufficiente.

Dato che i vincoli fiscali impediscono di reflazionare la domanda emettendo debito, e poiché la politica monetaria non può diventare più accomodante di quanto sia già oggi, è necessaria una strada alternativa. La Moneta Fiscale è lo strumento necessario.

La nostra proposta è che il governo emetta titoli trasferibili e negoziabili, che i possessori potranno usare, a partire da due anni dopo l’emissione, per conseguire sconti fiscali. Questi titoli avranno immediatamente valore in quanto incorporano diritti certi a risparmi d’imposta futuri, e potranno essere immediatamente scambiati contro euro o utilizzati come strumenti di pagamento (in parallelo all’euro) per acquistare beni e servizi.

La Moneta Fiscale verrebbe assegnata, senza corrispettivo, per integrare i redditi dei lavoratori, finanziare investimenti pubblici e programmi di spesa sociale, e ridurre il cuneo fiscale sul lavoro in favore delle aziende. Queste assegnazioni incrementerebbero la domanda interna e (replicando gli effetti di una svalutazione del cambio) migliorerebbero la competitività delle aziende. L’output gap verrebbe colmato senza peggiorare i saldi commerciali esteri del paese.

Va notato che in base ai principi contabili internazionali, questi titoli fiscali non costituirebbero debito, in quanto l’emittente non assumerebbe alcun obbligo di rimborsarli in euro. Sulla base delle regole Eurostat, quindi, verrebbero trattati come “non-payable deferred tax assets” e non avrebbero impatti sui conti pubblici fino al loro utilizzo per conseguire sconti fiscali (cioè due anni dopo l’emissione, quando produzione e gettito avranno recuperato).

Sulla base di ipotesi molto prudenziali (moltiplicatore fiscale pari ad 1 e ripresa degli investimenti privati in misura tale da recuperare metà della caduta rispetto al 2007) l’incremento del PIL produrrebbe gettito fiscale incrementale sufficiente a compensare gli sconti fiscali. Questi ultimi raggiungerebbero un massimo di 100 miliardi annui, che si confronta con oltre 800 di entrate totali del settore pubblico italiano. Il rapporto di copertura (cioè le entrate pubbliche lorde divise per gli sconti fiscali che diventano utilizzabili ogni anno) sarebbe più che sufficiente per gestire eventuali ammanchi dovuti a future recessioni.

Si tratta della pietra filosofale ? no davvero: semplicemente, in un’economia con un forte sottoutilizzo delle risorse produttive, immettere potere d’acquisto spinge principalmente la produzione, e solo marginalmente i prezzi. E se le dispersioni esterne sono sotto controllo (come consentito dal miglioramento di competitività) l’effetto moltiplicativo è ai massimi. La Moneta Fiscale mobilita risorse inutilizzate, accelera gli investimenti e spinge le banche a far ripartire il credito.

Attivando un programma di Moneta Fiscale, l’Italia risolverebbe il suo problema di output gap senza chiedere nulla a nessuno. Non sarebbero necessarie revisioni dei trattati, né trasferimenti finanziari (che peraltro non sono nemmeno contemplabili). Il debito pubblico smetterebbe di incrementarsi e inizierebbe a declinare in percentuale del PIL, realizzando così gli obiettivi del Fiscal Compact. Le finanze pubbliche sarebbero del tutto sostenibili, data la stabilizzazione del debito e la ripresa della crescita.

Peraltro, seppure l’Italia peggiorasse in futuro la sua disciplina fiscale ed emettesse un eccesso di Moneta Fiscale, solo i riceventi ne verrebbero danneggiati: il valore dello strumento scenderebbe ma senza impatti sull’euro e senza che si creino rischi di default. Oltretutto, se dovessero crearsi carenze temporanee di entrate, potrebbero essere attivate misure di salvaguardia quali, ad esempio, il finanziamento di alcune spese con titoli fiscali (in luogo di euro), un innalzamento del prelievo fiscale compensato da assegnazioni supplementari di titoli fiscali, incentivi ai possessori di titoli per posporne l’utilizzo, o il collocamento di titoli fiscali per rifinanziare debito in scadenza. Sono misure che eviterebbero effetti pro-ciclici e incertezze di mercato.

In ogni caso, l’ampiezza del rapporto di copertura sopra descritto rende questo scenario del tutto improbabile. Inoltre, è giusto ricordare che l’incapacità italiana di controllare le finanze pubbliche è un mito. Tra il 1998 e il 2018, l’Italia è stato l’unico paese dell’Eurozona a non conseguire mai deficit primari di bilancio pubblico salvo che nel 2009. Casomai l’Italia ha sofferto di un eccesso di contenimento dei deficit pubblici e, di conseguenza, di un pesante impatto negativo sulla produzione.

Una forte ripresa dell’economia italiana (e verosimilmente di altri paesi meridionali dell’Eurozona, che potrebbero replicare lo schema Moneta Fiscale) è una precondizione indispensabile per la cooperazione efficace ed armoniosa delle economie europee. La Moneta Fiscale è lo strumento appropriato per raggiungere questo obiettivo.


mercoledì 3 aprile 2019

La "no-deal Brexit" rispetta la volontà popolare


La vicenda Brexit è più confusa che mai, e le previsioni in merito al suo esito finale appaiono alquanto aleatorie.

Tuttavia mi sembra il caso di precisare una cosa: la Brexit effettuata senza alcun accordo preventivo con la UE, la cosiddetta “no-deal Brexit” o “hard Brexit”, rispetta la volontà popolare così come si è espressa nel referendum del giugno 2016. Anzi, a mio avviso è l’unico scenario che la rispetta pienamente.

La ragione è molto semplice. Il referendum non chiedeva alla popolazione del Regno Unito “siete o no favorevoli a uscire dalla UE a condizione che si stipuli un accordo con determinate caratteristiche ?”. La domanda era molto più semplice: “volete uscire o rimanere ?”.

E la maggioranza dei votanti si è espressa per l’uscita.

Chi afferma che sarebbe necessario un nuovo referendum “perché le condizioni sono cambiate” sostiene una posizione insensata. Tra un referendum e l’attuazione delle decisioni che ne conseguono passa sempre del tempo, e le condizioni sono sempre, inevitabilmente, in mutamento. Ma la volontà si è espressa allora, e va rispettata, se si crede nella democrazia.

L’argomentazione che sento formulare più di frequente riguarda uno slogan utilizzato dai leavers durante la campagna referendaria: con la Brexit si cesseranno di pagare contributi alla UE, e quindi ci saranno più soldi per altre cose – per esempio, per il NHS (National Health Service, il sistema sanitario pubblico).

Ora, l’accordo negoziato con la UE da Theresa May (e respinto già tre volte dal parlamento di Westminster) prevede al contrario che i contributi alla UE continuino per assicurarsi una nuova relazione commerciale (in che misura non è chiaro: ritengo a livelli inferiori a prima, dato che la UE sta chiedendo più soldi agli stati membri per “coprire il buco prodotto dalla Brexit”).

Ma la causa è, ancora una volta, il fatto che la May (la quale, ricordiamoci, ha fatto nel 2016 campagna per il remain) ha negoziato un accordo, cosa che il referendum NON chiedeva di fare.

Più in generale, rimane vero che se smetto di pagare contributi alla UE mi rimangono più soldi per fare altro. Che poi questo “altro” abbia luogo o meno, non è automatico: dipende dalla volontà del governo e del parlamento. Ma questo era evidente anche durante la campagna referendaria.

L’attuale confusione nasce dal fatto che importanti gruppi d’interesse economici e politici – allineati con la UE – stanno fortemente influenzando il governo e il parlamento inglese per evitare il no deal; nell’interesse loro, che non coincide – a mio parere – con quello della popolazione britannica.

E’ legittimo pensare che il no deal sarebbe una sciagura. Io non lo credo affatto, ma c’è spazio, ovviamente, per discuterne. Ma giusta o sbagliata che sia, la no deal Brexit è l’unica opzione coerente con la volontà popolare, così come si è espressa nel voto del 2016.

lunedì 1 aprile 2019

Eh sì, era meglio con la lira


Il Social Network Commentator (SNC) è un personaggio già noto ai lettori di questo blog, e si caratterizza in quanto legge molto più di quanto capisca, per poi dispensare al mondo le sue opinioni in merito (anche e soprattutto) a quanto NON ha capito. Su vari argomenti, ma principalmente in tema di macroeconomia.

Un paio di settimane fa un suo tweet affermava grosso modo quanto segue: attenzione a dire che con la lira l’Italia stava meglio che con l’euro. Infatti:

UNO, i tassi d’interesse erano più alti di oggi e assorbivano una quota di PIL superiore a quella odierna, anche se negli anni Sessanta e Settanta il rapporto debito / PIL era pari al 60-70%, cioè alla metà di quello odierno.

DUE, “si mendicavano” prestiti dal Fondo Monetario Internazionale, dagli USA e dalla Germania.

TRE, la disoccupazione era comunque pari – come oggi – al 10% (almeno in alcuni periodi).

Considerazioni che possono riuscire convincenti a chi non le esamina con un minimo di approfondimento. Ma in realtà:

UNO, i tassi nominali erano più alti ma i tassi reali (al netto dell’inflazione) no. E la crescita del PIL era tale per cui il rapporto debito / PIL rimaneva stabile. Tutto ciò fino all’ingresso dell’Italia nello SME: a quel punto, per evitare di svalutare (senza poi riuscirci, peraltro) l’Italia è entrata in un regime di tassi d’interesse reali particolarmente elevati, e questo ha prodotto l’incremento del debito / PIL (anche se l’economia cresceva). Lasciando fluttuare la lira (senza correre dietro alle sirene del cambio fisso) i tassi reali sarebbero stati molto più bassi e il debito / PIL non sarebbe salito.

DUE, contrariamente a quanto credono parecchi difensori dell’attuale assetto economico-monetario (non solo SNC), i prestiti contratti dall’Italia non servivano per “pagare le importazioni”, ma per costituire riserve valutarie: che poi venivano regolarmente bruciate nei (vani) tentativi di tenere bloccato il cambio. Esempio eclatante quello del 1992 – 50.000 miliardi di lire di riserve sono stati inutilmente dispersi per sostenere la permanenza italiana nello SME. Anche in questo caso, un regime di cambio variabile lo avrebbe evitato.

TRE, la disoccupazione è arrivata in certi anni a essere a due cifre anche con la lira, ma il fenomeno dell’occupazione precaria e/o part-time era molto meno sviluppato. Era molto inferiore, in altri termini, la quota di persone teoricamente occupate ma con forme d’impiego di fatto insufficienti a sostenersi decentemente. La situazione del mercato del lavoro era quindi enormemente migliore di oggi.

L’Italia stava meglio con la lira ? eh sì. Le politiche intraprese per entrare nell’euro prima, e per rimanerci dopo, per l’Italia sono state un’autentica sciagura. E le ragioni, per chi le vuole vedere, sono chiarissime.