lunedì 29 giugno 2015

Alcune critiche, e le nostre repliche, al progetto Moneta Fiscale

Qui in anteprima, alcuni commenti ricevuti in merito al progetto Moneta Fiscale, e le nostre considerazioni al riguardo.
 
Moneta vuol dire fiducia: perché i CCF rischiano di non funzionare
 
Guido Iodice (Keynesblog.com)
Thomas Fazi (Oneuro eunews.it/oneuro)
 
Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi hanno avanzato, in un loro libro edito da Hoepli, la proposta di istituire una forma di “moneta fiscale”, poi rilanciata in un appello promosso da Stefano Sylos Labini e firmato anche da Luciano Gallino e infine meglio esplicitata nell’e-book di MicroMega. I certificati di credito fiscale (CCF) verrebbero emessi dal governo e sarebbero in sostanza dei crediti sulle tasse future (a due anni). Con i CCF, lo Stato potrebbe aumentare la spesa pubblica, ridurre il cuneo fiscale e immettere liquidità nel sistema economico. I CCF sarebbero (quasi-)moneta in più, in modo tale che lo Stato non dovrebbe sostituire parte della sua spesa pubblica in euro con spesa in CCF, ma attivare più spesa grazie a questi ultimi. L’auspicio è che essi vengano percepiti come moneta e utilizzati negli scambi, per lo meno tra imprese e tra imprese e Stato. Secondo i promotori, i CCF si ripagherebbero da soli perché, una volta rimessa in moto l’economia, il PIL tornerebbe a crescere e gli introiti fiscali ad aumentare, coprendo quindi l’ammanco dovuto all’utilizzo finale dei certificati, cioè lo sconto sulle imposte.
 
Un merito della proposta è che essa esplicitamente riconosce l’impraticabilità e i rischi di un’uscita unilaterale dall’eurozona e pertanto si preoccupa di trovare una soluzione “morbida”. I problemi però sono molteplici. In primo luogo i promotori danno per scontato che l’emissione di questa quasi-moneta non violi i Trattati. Ammesso che sia così, tuttavia è facilmente immaginabile che la Commissione europea chiami lo Stato a rispondere davanti alla Corte di giustizia. L’incertezza sull’esito farebbe precipitare il valore del CCF nei confronti dell’euro, rendendo via via meno efficace il programma. Ammettendo però di superare questo scoglio, un ulteriore problema è costituito dal fatto che i CCF andrebbero sommati allo stock del debito pubblico. Anche qui, i promotori insistono sostenendo che non sia un problema, ma la Commissione potrebbe porre comunque ostacoli che minerebbero la fiducia del pubblico.
 
In sostanza, i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione, né vedremmo economie che ruotano di fatto intorno a valute estere (basti pensare all’Islanda prima della crisi del 2008). Nella realtà la moneta legale, come qualsiasi moneta priva di valore intrinseco, è fiduciaria e quindi ha valore in base alla credibilità di chi la emette. Chi ha una banconota da 100 euro in tasca sa che c’è un impegno, da parte dell’emittente, a fare in modo che essa sia scambiabile tra un mese o un anno con un paniere di prodotti il cui valore reale sarà, nel peggiore dei casi, solo di poco inferiore a quello odierno (è questo il senso del target inflazionistico). O che, se non bassa, l’inflazione sia almeno stabile e perciò prevedibile. Viceversa i cittadini di paesi che sperimentano tassi di inflazione elevati e crescenti per lungo tempo, alla fine, perdono fiducia nella moneta legale esattamente come la perderebbero in un assegno firmato da un noto protestato, e si rivolgono alle monete emesse da soggetti più affidabili (tipicamente gli Stati Uniti). Sia chiaro, non si sta dicendo qui che l’Italia farebbe la fine dello Zimbabwe, ma semplicemente che un dubbio sul valore futuro dei CCF li renderebbe pressoché inservibili come stimolo alla domanda.
 
Supponendo tuttavia di superare a pieni voti il test dell’incertezza, si pone paradossalmente il problema della possibile tesaurizzazione dei CCF. Per quanto riguarda la parte utilizzata per i trasferimenti, il pubblico potrebbe semplicemente decidere di non spenderli, ma detenerli fino a quando potranno essere usati per pagare le imposte, peraltro l’unico momento in cui il valore dei CCF potrebbe essere considerato sicuro ed uguale a quello facciale. In tal caso, l’effetto moltiplicativo sarebbe nullo e lo Stato si troverebbe con un buco di bilancio imprevisto.
 
Non vogliamo tuttavia apparire troppo demolitori nei riguardi di questa proposta. Al contrario, essa contiene in nuce qualche buona idea che potrebbe essere effettivamente applicata. L’importante è non cadere nell’illusione di un keynesismo “meccanico” o “idraulico”, nel quale l’immissione di nuova acqua fa girare il mulino dell’economia, checché ne pensino gli agenti economici (per inciso, Keynes non era affatto un keynesiano “idraulico”).
 
Se la proposta dei CCF è prona alle critiche testé illustrate, a maggior ragione lo è quella immaginata da alcuni in caso i default di uno Stato all’interno dell’eurozona, seguito dall’emissione di “euro-cambiali” che verrebbero utilizzate come liquidità sostitutiva. Il modello spesso richiamato è quello dello Stato della California che nel luglio 2009, di fronte ad una grave crisi delle proprie finanze, emise delle “promesse di pagamento” (Registered Warrants) per pagare i dipendenti pubblici, i fornitori e coloro che vantavano diritti a rimborsi fiscali per 2,37 miliardi di dollari. L’esperimento non fu propriamente un successo: appena pochi giorni dopo l’emissione iniziale, le principali banche si rifiutarono di accettare questi “pagherò” (o come li chiamano gli americani, IOU, che sta per I Owe You, “io ti devo”). Solo dopo ingenti tagli di spesa e aumenti delle imposte decisi dallo Stato, alcune di esse tornarono sui loro passi e ricominciarono ad accettare i Warrants. Se l’operazione ha mostrato i suoi limiti in California, lo Stato con il reddito più alto nel paese più ricco del mondo, la speranza che funzioni in luoghi come i PIIGS è pressoché nulla, sebbene possa rivelarsi l’unica, disperata, opzione se non si vuole uscire dall’euro. In tal caso, si può immaginare che il pubblico possa dare fiducia agli IOU a seguito di un accordo europeo che dia una qualche certezza sul fatto che gli “euro-pagherò” si potranno trasformare in euro “veri” entro un tempo ragionevole. In caso contrario non si capisce come la gente possa dare valore a pezzi di carta che riportano una promessa di pagamento in euro firmati da un governo che ha appena dichiarato la propria insolvenza su debiti in euro.
 
 
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Replichiamo con piacere, su invito di Micromega, ai commenti di Guido Iodice e di Thomas Fazi in merito al nostro progetto di Moneta Fiscale, da attivarsi mediante emissione di Certificati di Credito Fiscale (CCF). E ringraziamo Iodice e Fazi per l’interesse dimostrato al riguardo. Dobbiamo però notare che pare essere loro sfuggito un aspetto chiave della proposta. I CCF non sono titoli di debito: lo stato emittente non assume alcun impegno a rimborsarli in euro, ma solo ad accettarli a compensazione di pagamenti di imposte future, o di qualsiasi altra forma di pagamento ad esso (lo stato) altrimenti dovuti. Sono titoli che conferiscono a chi li riceve il diritto a uno sconto fiscale futuro; sono cedibili a terzi e sono convertibili in euro per essere spesi immediatamente. Chi li vende vuole spendere, chi li compra vuole usarli per abbattere le proprie tasse e accrescere le proprie risorse per consumi e investimenti.
 
I CCF non sono quindi IOU analoghi al caso californiano, né ai titoli emessi in altri contesti di tensioni finanziarie (un esempio ancora più noto è quello della crisi argentina del 2001). Non esiste nessuna fattispecie né teorica né pratica sotto la quale lo stato emittente possa essere costretto a non onorare (quindi a fare default) su un CCF.
 
La loro natura non-debitoria e non-monetaria è all’origine anche dell’ammissibilità dei CCF ai sensi di trattati e regolamenti UE. Se non sono debito, i CCF non sono neanche “legal tender” nel senso in cui lo è l’euro. Non sono moneta legale che debba essere obbligatoriamente accettata in tutta l’Eurozona, sebbene possano diventare sostituti della moneta, secondo che il pubblico e il mercato siano disposti ad accettarli in pagamento. Ma questo vale in linea di principio per qualunque titolo e non per questo mette in discussione l’euro come moneta legale. I CCF traggono il loro valore dalla dichiarazione unilaterale e volontaria di accettazione da parte del singolo stato che li emette. Non confliggono con il monopolio della BCE riguardo all’emissione di moneta legale ad accettazione obbligatoria.
 
Quanto all’affermazione che “i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione”: naturalmente qualsiasi attività di natura monetaria o quasi-monetaria può subire un depauperamento di valore al di sopra di certe soglie di emissione. Se i CCF venissero emessi in misura pari a un multiplo degli incassi annui dello stato (per esempio) italiano, passerebbero degli anni prima che il possessore riesca effettivamente a utilizzarli: ne seguirebbe una notevole perdita di valore. Ma le analisi numeriche ampiamente illustrate nell’ebook mostrano come l’Italia (ma vale anche per la Grecia) otterrebbe una forte ripresa della domanda e dell’economia con livelli di emissione annua che sono una frazione, non certo un multiplo, degli incassi sopracitati.
 
Riguardo poi al rischio di tesaurizzazione, questo è un dubbio applicabile a qualsiasi forma di azione espansiva attuata mediante incentivi alla spesa privata (riduzione di tasse o anche incrementi di trasferimenti, quali ad esempio le pensioni). Questo timore non inficia la validità del progetto: casomai può condurre a formulare l’azione espansiva allocando i CCF in maggior proporzione (rispetto a quanto già previsto nel progetto) a chi ha maggiori necessità di spesa, a chi ha una più elevata propensione al consumo e all’espansione della spesa pubblica con effetto diretto sul PIL (per esempio utilizzando i CCF a parziale finanziamento di opere di pubblica utilità).
 
Facciamo comunque notare che le azioni restrittive messe in atto in Italia (e in molti altri paesi dell’Eurozona) dal 2011 ad oggi hanno compresso la spesa privata (maggiori imposte e minori trasferimenti) più della spesa pubblica diretta. L’ipotesi alla base dell’”austerità espansiva” era che cittadini e aziende, pur trovandosi con meno soldi in mano, non avrebbero (se non marginalmente) compresso la loro spesa, grazie ai benefici effetti psicologici prodotti dalla constatazione che “i conti pubblici stavano tornando sotto controllo”.
 
Alla prova dei fatti, la “fata fiducia” (come la chiama Paul Krugman) si è rivelata una pura fantasia. Gli agenti economici, che poi sono, in ultima analisi, persone in carne ed ossa, si comportano in modo molto più semplice e lineare. Spendono meno quando hanno pochi soldi in tasca, e di più quando glieli rimetti e non li minacci di toglierglieli per altra via…
 
Il progetto CCF non ha nulla di magico. E’ l’applicazione di un concetto in definitiva intuitivo. Quando un sistema economico opera a livelli fortemente inferiori al suo potenziale (e soffre di conseguenza di disoccupazione massiccia e di rischi di deflazione), il recupero di domanda, produzione e occupazione è ottenibile (senza alcun rischio per la stabilità finanziaria e monetaria) immettendo potere d’acquisto, direttamente nella disponibilità degli agenti economici. Stampando moneta (o un suo equivalente) o emettendo strumenti che generano potere d’acquisto. In tal senso, i CCF creano capacità di spesa immediata e la conferiscono a chi quella spesa ha maggiore necessità di effettuarla. Si tratta di uno strumento direttamente destinato a incrementare la domanda e a ridurre significativamente la fiscalità che grava sulle famiglie, i lavoratori e le aziende (ottenendo così anche un recupero di competitività ed evitando squilibri nei saldi commerciali esteri).
 
Biagio Bossone e Marco Cattaneo

giovedì 25 giugno 2015

La Grecia verso una non soluzione ?



Le notizie si accavallano e in questo momento non c’è ancora nulla di certo. Al momento, Grecia, UE e FMI stanno con grandi fatiche e incertezze cercando di finalizzare un accordo che eviterebbe sia l’uscita della Grecia dall’Eurozona che il default.
Se accordo ci sarà, tutto lascia pensare che si tratti di un ennesimo cerotto che otterrà come risultato di guadagnare qualche mese, senza nessuna prospettiva realistica che il problemi dell'economia greca vengano effettivamente risolti.
Si parla di impegni della Grecia a generare surplus primari di bilancio pubblico dell’1% nel 2015, del 2% nel 2016 e (pare) del 3% all’anno successivamente. Sono livelli inferiori a quelli (completamente fuori dalla realtà) di cui si parlava prima delle elezioni che hanno portato al governo Syriza. Tuttavia, per tentare (con probabilità molto basse) di conseguirli, occorre, comunque, varare misure restrittive (tasse e tagli di spesa) che peggioreranno notevolmente l’andamento dell’economia greca.
Si parla anche, vagamente, di possibili revisioni del profilo di rimborso del debito. In effetti, se oggi i creditori erogano nuovi finanziamenti che serviranno a rimborsare i vecchi, nei fatti si ha l’equivalente di un riscadenziamento.
Nulla di concreto, neanche a livello di proposte, per quanto riguarda, invece, la riduzione dell’ammontare nominale del debito.
C’è poi la richiesta (da parte del ministro delle finanze greco Varoufakis) di varare un programma di investimenti finanziato da fondi BEI, che nelle intenzioni del proponente dovrebbe fornire l’azione di sostegno necessaria per far ripartire l’economia greca. Ma l’accettazione di questa proposta, anche solo a livello di principio, non appare avere alcuna probabilità di concretizzarsi.
Se l’accordo sarà finalizzato nei termini sopra descritti, Syriza si troverà, purtroppo, a pagare il prezzo di una strategia negoziale basata sul presupposto illusorio di convincere la UE a modificare la propria impostazione di politica economica.
La  Grecia avrebbe avuto, e in realtà ha ancora, un’alternativa. Dotarsi di uno strumento finanziario gestito autonomamente e utilizzabile per immettere potere d’acquisto nell’economia e far ripartire domanda, produzione e occupazione.
Anche senza uscire dall’Eurozona, la Grecia può emettere Certificati di Credito Fiscale – titoli utilizzabili per pagare tasse e obbligazioni finanziarie verso il settore pubblico, a partire da una certa data futura.
I CCF hanno un valore garantito dall’utilizzabilità a fronte di pagamenti di imposte future, possono essere convertiti in euro vendendoli sul mercato finanziario, e anche essere utilizzati per transazioni dirette. Hanno alcune caratteristiche della moneta (sono una riserva di valore e potenzialmente un intermediario di scambio) ma non sono un’unità di conto (che rimarrebbe l’euro). Non confliggono con l’euro, che continuerebbe a essere l’unica moneta a corso legale utilizzabile in tutti i paesi dell’Eurozona.
Non è possibile, per lo stato emittente, essere costretti al default su un CCF, in quanto sussiste un impegno di accettazione (a fronte di pagamenti futuri dovuti all’emittente) ma non di rimborso in euro. Naturalmente un eccesso di emissione può depauperare il valore dei CCF, ma la dimensione necessaria per avviare una significativa ripresa dell’economia greca sarebbe in realtà solo una frazione delle entrate fiscali annue.
Diversi esponenti del governo Syriza sono al corrente di soluzioni tecniche di questo tipo. A quanto pare, non ne hanno capito fino in fondo le valenze, oppure è prevalsa invece la volontà di far cambiare impostazione alle politiche economiche UE nel loro complesso. Intendimento nobile, ma alla prova dei fatti illusorio.
Se l’accordo con i creditori si chiuderà nei termini sopra descritti, Syriza ha ancora, come detto, una possibilità. Avviare l’emissione di CCF senza particolari clamori, contando sul fatto che a qualche settimana di distanza la UE non avrà alcun desiderio di riaccendere i riflettori sulla situazione greca, ma, anzi, molto interesse a mostrare che la situazione che si stabilizza e che cessa di essere percepita come un problema.

giovedì 18 giugno 2015

Tax Credit Certificates for Greece are a Viable Solution

By Biagio Bossone and Marco Cattaneo


As no solution is yet in sight for the Greek crisis, the possibility of introducing a parallel currency is receiving increasing attention from economists and the financial press. Together with a group of Italian economists, we have devoted considerable attention to developing a viable scheme.

We deem it important to point out that parallel currency schemes fall into two broad categories, with deeply different implications. The first would call for Athens to introduce IOUs (promissory notes), which would be used by the government to pay public salaries and pensions, thus freeing up euros for external debt service. European institutions and leaders have not denied this possibility.
 
In fact, IOUs would not prevent Greece from defaulting chaotically. If Greece started using IOUs as substitute for euros, this would signal its inability to stay within the Eurosystem. Bank deposit runs would accelerate, and Grexit would follow. In any case, the commitment to reimburse the IOUs in euro would have no credibility, since Greece is de facto insolvent.
 
The Greek government could instead introduce an instrument that would mobilize euros for domestic private-sector spending, thus supplementing the purchasing power of households and enterprises. The difference is subtle and often escapes even expert attention.
 
Greece today runs a balanced primary public-sector position. This means that it receives as many euros as it spends, net of interest payments. If payments to creditors were to stop, Greece would have enough euros to support its public expenditures: it would not need to introduce a monetary instrument to replace short euros.
 
What Greece is missing, instead, is the resources to re-launch its economy. To this end, it should issue what we call Tax Credit Certificates (TCCs). These certificates entitle bearers to equivalent tax discounts that would mature in, say, two years after issuance. Such entitlement could be liquidated in exchange for euros and used for immediate spending. Liquidation of TCCs would take place against purchases by those who want to acquire them for future tax discounts. For investors, TCCs would be a very safe instrument with a yield comparable to a two-year zero-coupon bond: by not being debt, it would be impossible for the government to default on them.
 
Through liquidation, TCCs allow future tax discounts to be transformed into current spending. Even under most conservative estimates (i.e., fiscal multiplier below one), the output recovery triggered by the TCC stimulus and taking place before TCC redemption would generate enough fiscal revenues to compensate for the euro shortfalls caused by redemption.
 
It is worth noting that while they incorporate some currency features, TCCs would not be legal tender and would not affect the ECB’s monopoly status as issuer of the euro.
 
The Greek government could issue, say, 7 billion euros of TCCs (about 4% of GDP), to be assigned to a variety of uses: allocations to enterprises in relation to their labor cost (so as to immediately improve their competitiveness), workers’ salary support, and social transfers to needing households. Receivers of TCCs could exchange them for euros in the financial market at discount on their nominal value. The discount would be small, since total TCC issuances would not be large relative to total fiscal revenues (7 billions would only represent about 10% of total gross revenues). TCC assignments would supplement disposable incomes and make Greek exports competitive.
 
There would not be “Gresham’s law” effect, whereby a bad currency drives the good one out of circulation: TCCs would supplement, not replace, the euro and their overall stock outstanding would not be large enough to displace the euro.
 
Greece should propose to creditors a new financial plan whereby it would commit, say, 2% of GDP to external debt payments (in euro) starting in 2016. The commitment would be credible once taken in the context of a pro-growth economic program driven by the TCC stimulus. In addition, safeguard clauses could be introduced and activated in the event of underperformance vis-à-vis the 2% reimbursement commitment. For instance, the government could entitle taxpayers to receive additional TCCs bearing longer maturities as compensation for additional euro tax payments, or TCC holders could be incentivized to postpone the use of TCCs for tax discounts by receiving an increase in their face value. Such safeguards would be hugely less pro-cyclical than those typically imposed by the EU to secure budget targets in the event of fiscal underperformance.
 
A “euro+TCC” system would be stable and sustainable. Greece’s unit of account and legal tender would remain the euro. Yet the country would gain the means to jump-start the economy, and the prospects for its creditors would improve enormously.
 
Political reactions are obviously a different matter. The EU and ECB might oppose the idea and even take punitive action against Greece, such as cutting it off the Emergency Liquidity Facility. This would precipitate Grexit. But this is what Europe doesn’t want: such reaction would betray ideological furor, and risk triggering the crumbling of the Eurosystem. We think this is a very unlikely scenario.
 
 

martedì 16 giugno 2015

EBook su Micromega

Lo trovate qui, liberamente e gratuitamente scaricabile. Una disamina del progetto Moneta Fiscale che si è cercata di rendere il più esaustiva possibile, toccando temi tecnico-finanziari ma anche storici, politici, legali e altro ancora.

domenica 14 giugno 2015

Monete commemorative


Trovate qui un interessante articolo scritto dall’amico Fabio Conditi, insieme a Stefano di Francesco. A quanto pare, le banche centrali dei paesi che utilizzano l’euro hanno la possibilità di coniare monete metalliche a scopo commemorativo, purché di valore unitario diverso da quelle valide in tutti i paesi dell’Eurosistema, e con valenza legale all’interno del paese emittente (ma non negli altri, a quanto sembra).

Quindi può esistere essere la moneta belga da 2,50 euro, la moneta finlandese da 5 euro, domani potrebbe esserci la moneta italiana da 3,50 euro.

La cosa curiosa è che non sembrano esserci limiti né al numero di monete commemorative che possono essere coniate, né al loro importo unitario.

Tutto questo mi ha ricordato un evento avvenuto a inizio 2013. Negli USA esiste un tetto massimo di legge al livello del debito pubblico, che viene rivisto periodicamente in quanto, essendo per la maggior parte del tempo il bilancio statale in deficit (come quasi dappertutto…) il valore del debito tende ad aumentare.

La revisione del tetto sul debito pubblico normalmente è un pro forma. Ma a inizio 2013, i repubblicani hanno seriamente minacciato Obama di non approvare l’aumento (e, controllando il congresso, erano in grado di farlo) se non avessero ottenuto una serie di concessioni. Questo avrebbe costretto il governo a una serie di tagli e blocchi di spesa.

Si è parlato della cosa per alcune settimane, e una soluzione possibile consisteva nell’emissione, da parte del Tesoro USA, di una moneta commemorativa di platino da un trilione (mille miliardi…) di valore. L’emissione di monete è riservata alla Federal Reserve, con un’eccezione… le monete commemorative, appunto. Questa moneta poteva essere depositata presso la Federal Reserve, che sarebbe stata obbligata ad accettarla (essendo “legal tender”).

A questo punto la Federal Reserve avrebbe accreditato i mille miliardi su un conto intestato al Tesoro, rendendo superfluo l’incremento del tetto di debito pubblico !

Alla fine nulla di tutto questo è stato necessario, i repubblicani avendo lasciato cadere le loro richieste.

Onestamente, penso che anche l’Eurocrisi sarà risolta con un meccanismo diverso dal conio di monete commemorative. Ma c’è da riflettere. Da un lato sulla natura della moneta. E dall’altro, su come la sua rarefazione artificiale stia prolungando e inasprendo una crisi economica che potrebbe essere risolta in tempi rapidissimi.

mercoledì 10 giugno 2015

Il problema greco si risolve con uno strumento monetario nazionale



C’è molto da riflettere su alcuni passaggi di questa intervista al ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, pubblicata ieri dalla rivista tedesca Tagesspiegel. I punti chiave sono a mio avviso i seguenti.

D. Se confrontiamo i dati delle due proposte (NB quella dei creditori e quella del governo greco) i creditori chiedono misure fiscali per circa 3 miliardi di euro e la Grecia offre 1,87. Non sembra una differenza insormontabile, non le pare ?

R. Ma potrebbe fare la differenza tra uccidere, o meno, quello che è rimasto dell’economia greca. Stiamo continuamente contraendoci da sette anni. Se cerchiamo di estrarre altri 3 miliardi tramite tasse e tagli alle pensioni il deficit sarà più alto l’anno prossimo. E’ come bastonare una mucca malata cercando di farle produrre più latte: la uccideresti. Perfino la nostra proposta di 1,8 miliardi di surplus è eccessiva, dovremmo andare a zero.

D. Ma questo non è sufficiente a mettere fine alla recessione.

R. Questo è il motivo per cui le misure fiscali e le riforme sono solo un terzo del programma che stiamo negoziando. Abbiamo anche bisogno di ristrutturare il debito in modo che i rimborsi siamo gestibili. E abbiamo bisogno di un programma di investimenti. Stiamo proponendo che i fondi vengano dalla BEI (NB la Banca Europea per gli Investimenti).

Quanto dice Varoufakis è coerente con una sensazione che era emersa, esaminando le dichiarazioni del governo greco, fin da febbraio: le proposte di Syriza non sono affatto radicali, sono casomai troppo moderate.

E in effetti la discussione in merito al surplus di bilancio primario – che sia 3 oppure 1,8 oppure zero – è in un certo senso un falso problema. Sono tutti livelli insufficienti a produrre la ripresa di domanda, produzione e occupazione, quindi a invertire il ciclo depressivo-deflattivo che affligge le Grecia da sette anni.

Ora, il governo greco dovrebbe riflettere molto seriamente, a mio avviso, su quanto segue.

L’accordo sul surplus primario alla fine si può anche trovare. E di fatto anche il riscadenziamento del debito in qualche modo è un tema che si risolve da sé. Entro poche settimane succederà una delle due seguenti cose. I creditori erogheranno finanziamenti con cui si rimborseranno quelli vecchi – il che equivale a un allungamento di scadenze: nient’altro. Oppure, la Grecia farà default – non pagherà – e si troverà, sul piano della sostanza, in una situazione comunque simile: il debito sarà sempre quello, l’unica differenza è che non esisterà più un piano di rimborso contrattualmente valido, e si dovrà continuare a lavorare per ridefinirne uno. Che il riscadenziamento avvenga prima o dopo il default, non cambia, di per sé, molto.

Il tema più importante è l’ultimo tra quelli citati da Varoufakis. L’economia greca ha bisogno di una forte iniezione di potere d’acquisto per riavviare un ciclo positivo di consumi, domanda, investimenti e occupazione. L’accordo sul surplus di bilancio e sul riscadenziamento non sono sufficienti.

Di quanti soldi si sta parlando ? non cifre enormi in assoluto, gli ordini di grandezza sono probabilmente 6-9 miliardi all’anno (3-5% del PIL greco). Ma le probabilità che questi soldi arrivino dalla BEI o da qualche altra istituzione europea mi appaiono veramente remotissime, direi fantascientifiche.

Dati i dubbi, i tentennamenti, la mancanza di leadership, le incomprensioni, le diffidenze che caratterizzano i creditori della Grecia e le autorità europee, i primi due punti potrebbero trovare attuazione non necessariamente perché si troverà un accordo, ma anche solo per inerzia.

In questo scenario, la Grecia non realizzerà 3 miliardi di surplus primario, e neanche 1,8. Il rallentamento dell’economia connesso, naturalmente, anche all’attuale situazione di incertezza, porterà a zero il saldo incassi – pagamenti. Lo stato greco userà i soldi che riesce a raccogliere dai suoi cittadini, e stop.

E il riscadenziamento avverrà di fatto, a seguito del default.

Ma se queste due cose possono, e hanno buone probabilità di, accadere (come detto sopra) per inerzia, un grosso programma di investimenti richiede al contrario una decisione esplicita, per la quale non si intravede alcuna volontà politica, da parte di nessun governo e di nessuna istituzione.

Questo ci riporta alla proposta di emissione di una forma di strumento monetario nazionale, come i Certificati di Credito Fiscale greci. Risolto, in un modo o nell’altro (non fosse altro che per inattività) il problema del surplus e quello del riscadenziamento, rimane quello (decisivo) delle risorse nuove, fresche, necessarie a far ripartire l’economia.

Dall’esterno non credo proprio che possano arrivare. Non dalla UE o dai creditori attuali. Dalla Russia o dalla Cina in teoria sì: ma gli sconvolgimenti geopolitici che ne seguirebbero fanno apparire molto fantasioso questo scenario (mi pare).

Rimane la strada dell’emissione di CCF greci: uno strumento finanziario-monetario che è in grado di far ripartire l’economia, e senza mettere in atto la rottura dell’Eurosistema.

E’ una strada innovativa: ma è più plausibile, a mio modesto avviso, di tutte le altre, e il motivo è molto semplice. La Grecia la può attuare senza chiedere nulla a nessuno.