martedì 29 novembre 2016

Fillon


Domenica scorsa, le elezioni primarie del partito repubblicano francese hanno designato Francois Fillon quale candidato alle presidenziali della prossima primavera. Una sorpresa rispetto alle previsioni di qualche settimana fa, che davano favorito Alain Juppé.

La designazione di Fillon è vista da molti come un grande favore a Marine Le Pen. Con il centrosinistra in pieno disarmo, è pressoché certo che il primo turno delle presidenziali porterà al ballottaggio la La Pen contro il candidato repubblicano. Ci si aspetta quindi, dagli elettori che si identificano con la sinistra (più o meno moderata), un voto al candidato repubblicano, in funzione di “blocco”, o se vogliamo di scelta del male minore, rispetto al Front National.

Ma Fillon può scompaginare questi piani perché si presente con connotazioni, e con un programma, decisamente meno digeribili per un elettore progressista.

I primi sondaggi post designazione di Fillon per la verità non accreditano questa interpretazione, attribuendogli anzi (a Fillon) percentuali di consenso sorprendentemente alte. Ma questo può essere il tipico effetto di “traino mediatico” di cui beneficia quasi sempre (ma in genere solo temporaneamente) un candidato vittorioso. Per una valutazione più significativa è meglio attendere qualche settimana.

Ad ogni modo, l’ipotesi di una presidenza Fillon ha probabilità significative di avverarsi, il che rende opportuno iniziare a riflettere sul suo programma economico, definito “thatcheriano” da molti commentatori.

A prima vista, il programma si presenta molto, ma molto male. Massicci tagli di spesa pubblica (100 miliardi), licenziamenti di dipendenti statali (600.000) e due punti in più di IVA. Il tutto per finanziare riduzioni di imposte e contributi, sia personali che societarie. Previsti anche incentivi ai titolari di grandi patrimoni che prendano la residenza in Francia. Il saldo degli interventi dovrebbe consentire di pareggiare il bilancio pubblico, a fronte di deficit oggi previsti al 3,3% del PIL nel 2016, e al 3% nel 2017 (fonte FMI, World Economic Outlook Ottobre 2016).

Eseguito alla lettera, un programma del genere avrebbe conseguenze pesantemente recessive e risulterebbe controproducente anche ai fini del tentativo di riequilibrare il deficit statale. Sarebbe, in effetti, una riproposizione della fallimentare “austerità espansiva” che ha afflitto l’Eurozona soprattutto a partire dal 2012-2013, creando danni pesantissimi.

Un “dettaglio”, tuttavia, potrebbe modificare questa valutazione. Le riduzioni di spesa e i tagli di dipendenti pubblici sarebbero distribuiti sull’arco di cinque anni. E il pareggio di bilancio viene sì dichiarato come obiettivo, ma non nell’immediato. Il programma di riforme dovrebbe invece associarsi, inizialmente, a una crescita del deficit.

Fillon ha probabilmente in testa di ottenere un effetto iniziale espansivo, almeno per i primi diciotto mesi del suo (eventuale) mandato. I tagli di spesa saranno invece quasi tutti posposti. Ammesso che non ci sia nel frattempo una ripresa dell’economia così forte da ridurre il deficit pubblico senza porsi il problema di effettuarli (i tagli) sul serio…

Eseguito così, il programma di Fillon potrebbe non essere negativo come si presenta a prima vista, soprattutto se l’espansione iniziale del deficit pubblico fosse rilevante – almeno un punto percentuale per il 2017 e per il 2018. Se questa espansione di deficit verrà attuata, non ho alcun dubbio che la commissione UE non muoverà un dito per opporsi. E da Berlino si sentiranno pesanti mugugni, ma niente di più.

Preoccupante rimane l’idea di aumentare l’IVA di due punti, intervento fortemente regressivo e con impatti moltiplicativi sulla spesa privata che rischiano di essere pesanti. L’aumento IVA andrebbe eliminato o quantomeno concentrato su tipologie di prodotti e servizi di livello medio-alto e alto (in altri termini, quelli acquistati da segmenti di popolazione che si accorgono poco o nulla degli incrementi di prezzo).

Conclusione (molto provvisoria): la presidenza Fillon potrebbe avere conseguenze economiche meno deleterie di quanto attualmente si teme. Detto ciò, per risolvere gli squilibri prodotti (alla Francia) dalle disfunzioni dell’Eurozona, servirebbe parecchio di più di un punto di maggior deficit per diciotto mesi. E a questo dubito che si arrivi.

sabato 26 novembre 2016

Berlusconi sulla moneta complementare

Silvio Berlusconi, pochi giorni fa, ha parlato diffusamente di moneta complementare e di sovranità monetaria. Qui il link all’intervista con Bruno Vespa (dal minuto 29 al minuto 32, all’incirca).

Non chiedetemi in che misura ci si possa fidare di Berlusconi perché non ho risposta, e per la verità non l’avrei neanche se mi poneste la stessa domanda sostituendo al suo nome quello di qualsiasi altro politico. Mi sembra doveroso notare, comunque, che sull’argomento dice cose corrette non al 100% ma quantomeno al 90% sì.

Un altro elemento da non sottovalutare è che Berlusconi, contrariamente a quanto spesso sento dire, è tutt’altro che finito sul piano politico. Finché c’è, continua a controllare almeno un 10-15% dell’elettorato.

Quota che ha buone possibilità di essere decisiva, se dopo il referendum (e qualunque ne sia il risultato) l’Italicum, come mi sempre inevitabile, cadrà, e verrà sostituito da una legge elettorale proporzionale o che comunque renderà necessario formare una coalizione di governo.


martedì 22 novembre 2016

Becchi e Dragoni sui CCF


Paolo Becchi – docente universitario vicino in passato a M5S, oggi alla Lega – e Fabio Dragoni intervengono su Libero Quotidiano con un articolo che menziona la Moneta Fiscale parallela, e specificamente i Certificati di Credito Fiscale, come strumento-ponte per l’uscita dall’euro. Qui il link alla pagina facebook di Stefano Sylos Labini, che riporta l’articolo.

La mia attività di proposta e promozione del progetto CCF è partita ormai da più di quattro anni, quindi i segnali d’interesse sono sempre graditi. Diversamente da Becchi e Dragoni, comunque, ho sempre concepito i CCF come uno strumento che può convivere con l’euro su base permanente, senza necessariamente doverlo sostituire.

L’affiancamento e sostituzione naturalmente è una possibilità, e infatti ne avevo delineato, in prima approssimazione, i possibili passaggi tecnici. Che cosa si verificherà in pratica – affiancamento senza o con sostituzione finale – sarà tuttavia la conseguenza di evoluzioni e decisioni di natura politica.

L’euro è destinato a essere completamente rimpiazzato dalla moneta nazionale introdotta via CCF ? è l’opinione non solo di Becchi e Dragoni ma anche, ad esempio, di Enrico Grazzini e di Giovanni Zibordi. Personalmente non mi ritengo in grado di stimare la probabilità dei diversi scenari.

Ritengo invece che la via Moneta Fiscale sia un progetto tecnicamente e operativamente molto più semplice, rispetto al break-up, per superare le disfunzioni dell’Eurosistema.

Schemi alternativi (quali la revisione dei vincoli di deficit o l'Helicopter Money effettuata dalla BCE) esistono in teoria, ma non vedo nessun segno che sia stia formando un consenso politico, tra gli stati membri dell’Eurozona, per attuarli.

In assenza di questo consenso politico, la soluzione dell’Eurocrisi non può arrivare che da azioni unilaterali di singoli stati: quali, appunto, l’introduzione di Moneta Fiscale nazionale.


domenica 20 novembre 2016

”La storia non si ripete ma fa rima”: seconda guerra mondiale e declino dell’Unione Europea

La citazione del titolo è attribuita a Mark Twain, ma come spesso accade, l’attribuzione è dubbia (non la si ritrova nei suoi scritti). Ma apocrifa o no che sia, qualcosa di simile si sta verificando oggi.

Si è venuta a creare una sostanziale contrapposizione le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale – USA, Russia e Regno Unito – e la UE a “trazione tedesca”. Alleati contro Germania e fiancheggiatori, oggi come nel 1939 o nel 1941.

La presidenza Trump non avrà, nei confronti della UE, l’atteggiamento di costante fiancheggiamento e supporto che caratterizzava Obama, e che sicuramente sarebbe proseguito con Hillary Clinton. Il protezionista Trump non vede certo con favore un progetto politico incentrato su mobilità del lavoro, apertura all’immigrazione, accordi commerciali che spingono alla delocalizzazione. E ha ben chiare le spaventose disfunzioni della moneta unica.

Il Regno Unito ha votato a favore della Brexit. E la Russia di Putin ha, con la UE, diverse situazioni di tensione – tra cui la crisi ucraina e le conseguenti sanzioni economiche.

La Francia si potrebbe aggiungere al gruppo in caso di vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali della prossima primavera. Un evento per il momento non probabilissimo, ma l’eventualità è stimata al 35%-40% dai bookmakers (più affidabili dei sondaggisti, tutto sommato…) contro non più del 5% ante elezioni USA.

L’Italia si sta facendo particolarmente male, oggi come nel 1940, sostenendo l’alleato sbagliato. Analogamente ad allora, più astuto è l’atteggiamento degli spagnoli – che in teoria avrebbero dovuto fiancheggiare l’Asse ma in guerra poi non ci sono entrati. E oggi sostengono l'austerità euroindotta a parole, ma l’hanno attuata molto meno di noi (e se la cavano, di conseguenza, parecchio meglio).

E’ riaffiorata, come avviene periodicamente da quasi 150 anni, la questione tedesca. Un paese troppo importante per essere “come gli altri” in Europa, ma non abbastanza per egemonizzare il resto del continente. Anche per la sua idiosincraticità, per l’incapacità di essere adattabile e flessibile, molto anche per la sua lingua troppo diversa dalle altre.

La UE doveva portare al superamento delle logiche di conflitto e di ricerca dell’egemonia, ma non è andata così. La Germania l’ha utilizzata come uno strumento di perseguimento dei suoi interessi nazionali – o per essere più esatti, delle sue elites industriali e finanziarie. Per la verità non ne ha neanche fatto mistero. Ma il punto è che il progetto non funziona.

La spinta tedesca verso l’egemonismo, tra l’altro, è destinata a fallire anche perché le possibilità della Germania di assurgere a superpotenza mondiale sono molto più remote oggi di allora. Anche e forse soprattutto per il fattore demografico. A molti non è chiaro, credo, che la popolazione tedesca, su un territorio un po’ più piccolo, è oggi all’incirca della stessa dimensione (80 milioni) del 1939. Gli USA nel frattempo sono passati da 130 a 330 ! e la popolazione mondiale da 2,5 miliardi scarsi a quasi 7,5.

Se siamo vicini alla fine dell’Eurocrisi, come spero e ritengo anche probabile, ci si potrà consolare - per quanto pesanti e insensati siano stati i suoi effetti - pensando che almeno non si è arrivati a sparare. Forse perché bene o male l’umanità un po’ più saggia lo è diventata. O forse solo perché la tecnologia ha reso troppo devastante l’ipotesi di un conflitto militare tra grandi potenze.

E se siamo vicini alla fine dell’Eurocrisi, la spinta politica la sta dando, paese per paese, principalmente l’affermazione di formazioni politiche di destra. L’eccezione più importante potrebbe essere l’Italia con il post-politico (e non inquadrabile della dicotomia destra-sinistra) M5S.

Capisco la delusione di chi si colloca a sinistra e avrebbe desiderato un percorso guidato da schieramenti socialdemocratico-keynesiani. Ma chi si doveva collocare in quell’area l’ha abbandonata, fiancheggiando il progetto austero-globalista. O se no, si è rilevato poco incisivo, o è andato in confusione o peggio (vedi Syriza) quando ha avuto possibilità di azione.

Speriamo di essere alla vigilia di una svolta. Ci sono stati trent’anni di keynesismo, di crescita sostenuta, di benessere gradualmente sempre più diffuso, di costruzione dello stato sociale tra il 1945 e il 1975. Ci possiamo rincamminare in quella direzione, come allora e anche meglio.


venerdì 18 novembre 2016

Obama si è scordato dell’Eurozona

La politica economica di Obama merita un giudizio positivo ? non più di una stentata sufficienza. E non aver fatto meglio di una stentata sufficienza ha avuto un’influenza importante sulle recenti elezioni e sulla sorprendente vittoria di Trump.

Obama, stando ai sondaggi, ha concluso la sua presidenza con un buon livello di popolarità, e le proposte economiche di Hillary Clinton erano percepite come una sostanziale continuità rispetto ad Obama. Ma Hillary ha perso, e il motivo principale è che larghi segmenti dell’elettorato USA vivono con malessere la propria condizione.

Disoccupazione sulla carta bassa, ma con partecipazione alle forze di lavoro ben inferiore al livello pre-2008; disparità dei redditi e ineguaglianza sociale altissimi e senza alcuna tendenza a ridursi.

Obama si è insediato, a inizio del 2009, nel pieno di una gravissima crisi, il cui apice è stato il fallimento Lehman nel settembre del 2008. Le sue azioni iniziali sono andate nella direzione giusta, con il varo di un importante piano di stimoli fiscali – 900 miliardi di dollari – che ha invertito il trend e avviato la ripresa.

Il problema è che la gravità della crisi e l’effetto di contrazione della domanda interna sono stati sottostimati. Il piano del 2009 – come notato in effetti, ai tempi, da parecchi commentatori – per quanto di dimensione assoluta rilevante, sarebbe dovuto essere ancora maggiore, probabilmente per almeno altri 300 miliardi.

La ripresa USA, di conseguenza, c’è stata, ma blanda e percepita come insoddisfacente da una larga parte della popolazione.

Naturalmente siamo lontani anni luce dai disastri dei vari paesi dell'Eurozona che hanno seguito le prescrizioni UE. Ma comunque Obama, o meglio il partito democratico, a partire delle elezioni 2010 hanno perso il controllo del congresso, arrivando nel 2014 ad essere in minoranza sia alla camera che al senato.

A quel punto Obama aveva senza dubbio compreso che si sarebbe dovuta intensificare l’azione espansiva, con un ulteriore programma di spesa rivolto, per esempio, agli investimenti infrastrutturali. Purtroppo, semplicemente, non era in grado di farlo approvare dal congresso.

L’amministrazione USA avrebbe potuto fare qualcosa di meglio per superare questa situazione di stallo ?

La risposta è positiva: avrebbe dovuto muoversi diversamente nei confronti della crisi dell’Eurozona. La situazione economica USA è stata influenzata anche, ovviamente in negativo e in misura apprezzabile, dalle scellerate politiche di austerità intraprese nell’Eurozona, a partire soprattutto dal 2011. La pesantissima caduta di domanda interna eurozonica, principalmente nel 2012-2013, non seguita da alcuna ripresa di portata paragonabile, è stata un grave fattore frenante per l’intera economia mondiale, USA inclusi.

La presidenza USA avrebbe potuto contrastare tutto questo ? sicuramente sì. Mettendo in gioco il suo peso politico, avrebbe potuto indurre la UE – e soprattutto il governo tedesco – quantomeno ad attenuare le azioni “prescritte” ai vari paesi del Sud Europa. Se Obama è stato in grado di persuadere la UE ad imporre sanzioni alla Russia in conseguenza della crisi ucraina (sanzioni dannose per le economie europee, che nessuno aveva in realtà voglia di porre in atto…) poteva, analogamente, mutare la rotta su cui era avviata l’Eurozona. Almeno parzialmente, ma comunque in misura significativa.

Questo non è accaduto. Gli USA si sono solo preoccupati di non far deflagrare la situazione. Hanno supportato il “whatever it takes” di Draghi, che ha evitato la rottura dell’euro ma non ha invertito il segno depressivo delle politiche fiscali. Nel 2015, hanno persuaso Tsipras a non uscire dall’euro promettendo sostegno alle richieste di stralcio del debito greco – richieste che sono rimaste però, e sono tuttora, lettera morta. In altri termini si sono solo preoccupati che la barca eurozonica non affondasse, non che fosse messa in condizioni di navigazione decorose.

Obama non ha capito quanto il benessere economico USA dipendesse da quello europeo, e quanto sbagliata fosse la direzione in cui le cose si stavano muovendo oltre Atlantico. Mentre risolvere la crisi dell’Eurozona, o quantomeno impedire una gestione così catastrofica, era l’elemento chiave che avrebbe trasformato la ripresa USA da passabile a robusta. E sarebbero stati, tra l’altro, migliori i risultati elettorali del partito democratico nel 2010, 2012 e 2014, col che Obama avrebbe avuto spazi di azione molto maggiori anche all’interno.

Obama si è scordato dell’Eurozona. E se il 20 gennaio 2017 alla Casa Bianca si insedierà Donald Trump, e non Hillary Clinton, lo dobbiamo in larghissima misura a questo.


mercoledì 16 novembre 2016

Ripassare i CCF




Certificati di Credito Fiscale: non esattamente una moneta, ma qualcosa di simile





CCF: titoli che danno diritto a ridurre pagamenti per imposte, e in generale per obbligazioni finanziarie di qualsiasi natura, dovuti al governo che li emette.





Due anni dopo la loro emissione, i CCF consentono di ridurre pagamenti per tasse, contributi sociali, multe, eccetera.





I CCF saranno quotati sui mercati finanziari, come qualsiasi altro titolo di Stato.





Il loro valore sarà leggermente più basso ma molto vicino al nominale. Non hanno rischio di insolvenza perché non sono soggetti a rimborso.





I CCF potranno anche circolare come mezzo di pagamento, per esempio in combinazione con carte di credito.







Benefici dei CCF





I CCF potranno essere assegnati gratuitamente a una pluralità di soggetti:





Lavoratori sia dipendenti che autonomi, per incrementare il loro potere d’acquisto.





Imprese in funzione dei costi di lavoro lordi da esse sostenuti, per ridurli – ottenendo un immediate recupero di competitività.





Nonchè per finanziare o co-finanziare spese sociali e investimenti pubblici.





Effetti:

Maggiore domanda interna.

Recupero di competitività per le aziende.





===> Ripresa di PIL e occupazione, senza creare squilibri commerciali esteri.








I CCF non sono debito: sono una forma di moneta complementare – ma non conflittuale con l’euro





I CCF non sono debito in quanto il governo emittente non assume impegni di rimborso.





Non ledono comunque il monopolio di emissione monetaria della BCE, che riguarda la moneta ad accettazione obbligatoria in tutta l’Eurozona.





Solo il governo che li emette si impegna, per legge, ad accettare i CCF per ridurre obbligazioni finanziarie nei suoi confronti. Questa è la fonte del valore dei CCF.








Emissione e allocazione dei CCF: principi base





Chiudere l’attuale output gap.

Ridurre la disoccupazione ai livelli pre-2008.

Incrementare l’inflazione all’obiettivo BCE del 2%.

Evitare squilibri commerciali esteri.





Inoltre, il programma è in grado di ottenere quanto segue:

Equilibare, ogni anno, il saldo tra incassi e pagamenti pubblici in euro.

Ridurre gradualmente e costantemente il rapporto debito pubblico / PIL.





Ricordare: i CCF non sono debito.

Il governo emittente si impegna ad accettare i CCF per ridurre imposte future, non ha rimborsarli. Nessuno può forzarlo al default.


Programma CCF per l’Italia



                                                                 2017  2018 2019 2020 2021 2022

Emissioni di CCF – miliardi                         30      60      90    120  120  120

Impieghi di CCF                                                              30       60      90   120





Le emissioni annue di CCF aumenteranno gradualmente fino a 120 miliardi.



Va ricordato che il PIL reale italiano 2015 è 8% inferiore al livello 2007: circa 140 miliardi in meno.



La caduta di PIL è interamente alla domanda interna (consumi e investimenti). Le esportazioni sono maggiori, il che indica come il potenziale produttivo italiano permetterà, in pochi anni, di recuperare almeno i livelli di PIL 2007.



2007           2015          

PIL                                1.783          1.642          -141   -7,9%

Consumi                        1.385          1.313          -72     -5,2%

Investmenti                       386             273           -113   -29,3%

Export                               478             494           +16    +3,3%

Import                               475             442          -33     -6,9%

Surplus commerciale           +3              +52         

(Fonte: ISTAT – dati a potere d’acquisto costante 2015)





L’intervallo di due anni tra emissione e utilizzo dei CCF permette all’economia di recuperare e di generare gettito fiscale lordo sufficiente a compensare gli sconti fiscali ottenuti mediante i CCF stessi.






Clausole di salvaguardia





La UE richiede agli stati membri dell’Eurozona di compensare, aumentando le tasse o riducendo la spesa pubblica, qualsiasi differenza rispetto ad obiettivi prestabiliti di riduzione dei deficit pubblici.





Ma in una situazione di domanda depressa si tratta di azioni procicliche: deteriorano l’economia e peggiorano, invece di migliorare, lo stato delle finanze pubbliche.





Il programma CCF può prevedere al contrario un sistema di “clausole di salvaguardia” flessibili ed efficaci:





Non tagliare spese, ma pagarne alcune in CCF e non in euro.

Se sono necessari incrementi di tasse, compensare il contribuente con emissioni di CCF.

Ridurre il debito pubblico con emissioni di CCF di lunga scadenza.

Proporre, su base volontaria, ai titolari di CCF l’opzione di differirne l’utilizzo, riconoscendo un interesse.





Si ottiene in questo mondo, senza alcun effetto prociclico sull’economia:

===> Il saldo zero, in ogni singolo anno, tra incassi e pagamenti in euro.

===> Nessun incremento nel valore assoluto del debito pubblico in circolazione.

===> La costante riduzione del rapporto debito pubblico / PIL.


martedì 15 novembre 2016

La pallavolistica vittoria di Donald Trump


Molti commentatori – in genere, com’è comprensibile, persone non esattamente entusiaste della vittoria di Trump – hanno fatto notare che Hillary Clinton ha ottenuto più voti individuali. La vittoria di Trump sarebbe quindi in qualche modo questionabile, in quanto dovuta alle caratteristiche (perverse, dice qualcuno) del sistema elettorale USA, dove la nomina del presidente è affidata a “grandi elettori” allocati stato per stato, sulla base di un principio maggioritario.

Bene…

Molti ricorderanno l’emozionante semifinale del torneo di pallavolo agli ultimi Giochi Olimpici di Rio de Janeiro. L’Italia ha battuto gli USA per 3 set a 2. Punteggi dei set: 30-28 26-28 9-25 25-22 15-9.

Il totale dei punti ottenuti è stato Italia 105, USA 112. L’Italia ha fatto meno punti. Fosse stato un incontro di basket, realizzando 105 punti contro 112 degli avversari avrebbe perso.

Qualcuno pensa, quindi, che la vittoria italiana non sia stata legittima ? no, perché nella pallavolo contano i set, non il totale dei punti realizzati.

Del resto chi ha visto l’incontro rammenterà che l’Italia è partita molto male nel terzo set, e trovandosi sotto di parecchio ha “mollato” per risparmiare le energie in vista di quelli successivi. Era inutile sudare sangue per perdere quel set magari 18-25 invece di 9-25. E’ stata una condotta di gara comprensibile, e comunque del tutto legittima.

Cosa c’entra questo con le elezioni USA ? in due degli stati più popolosi, California e New York, i democratici erano dati nettamente in vantaggio. E’ plausibile che Trump non abbia fatto grandi sforzi lì, in sede di campagna elettorale. Ci si fosse dedicato maggiormente avrebbe potuto accorciare le distanze e magari arrivare a prendere più voti individuali della Clinton nel totale del paese. Ma non serviva perché i due stati erano comunque persi, e contavano i voti elettorali, non quelli individuali. Meglio concentrarsi sugli stati in bilico.

Magari Hillary Clinton ha fatto lo stesso in un altro stato di grandi dimensioni, il Texas, dov’erano favoriti i repubblicani. Però lo scarto delle previsioni era inferiore, e in effetti un po’ di possibilità Hillary in Texas le aveva, stando almeno ai risultati finali: California 62%-33% per Hillary, New York 58%-37% per Hillary, Texas 52%-43% per Donald.

Altri ancora fanno notare che la maggior parte dei voti individuali validi non sono stati espressi per Trump. E’ vero, ma neanche per la Clinton. Le percentuali sono state Trump 47,30%, Clinton 47,75%, il libertarian Gary Johnson 3,26%, l’ecologista Jill Stein 0,98% (e non si arriva a 100% perché c’erano altri candidati minori).

Per far sì che venisse eletto un candidato votato dalla maggioranza degli elettori (che avessero votato ed espresso voti validi) occorreva un altro sistema, per esempio un doppio turno con ballottaggio alla francese. A quel punto, dove sarebbero confluiti i voti dei “minori” ? la Stein sulla Clinton, in larghissima parte. Ma Johnson forse più su Trump. E parecchi di quelli elettori magari non avrebbero votato per nulla, non riconoscendosi in nessuno dei due candidati.

Nessun sistema elettorale è impeccabile. Sull’impossibilità di creare un sistema perfettamente rappresentativo sono stati scritti centinaia di libri e addirittura formulati e dimostrati teoremi matematici.

Però negli USA il sistema è quello, non favorisce nessuno a priori, e nessun candidato l’ha contestato.

A Rio si giocava a pallavolo – non a basket - e con il sistema di punteggio della pallavolo l’Italia ha battuto gli USA. Punto.

Alle elezioni statunitensi si eleggeva il presidente, e con quel sistema elettorale Donald ha battuto Hillary. Anche qui, punto.

sabato 12 novembre 2016

Che cosa succede con Trump

Ci sarà, negli USA, una svolta di politica economica ? con ogni probabilità sì, soprattutto nel senso di politiche fiscali maggiormente espansive, che lasciano pensare a un’accelerazione della crescita già a partire dal 2017.

Per la verità anche Hillary Clinton (e lo stesso Obama) si erano espressi a favore di programmi di investimenti pubblici in infrastrutture. Ma aveva (Obama) o avrebbe avuto (Clinton) il problema insormontabile di congresso e senato a maggioranza repubblicana, che avrebbero bloccato azioni di questo tipo se proposte da un presidente democratico.

Trump questo problema non lo avrà. Ha accennato a numeri significativi (1.000 miliardi di dollari in quattro anni ?) attuati tramite (qui la cosa sarà da chiarire) partnerships pubblico / privato e incentivi fiscali sotto forma di “tax credits” (cartolarizzabili e cedibili ? ai lettori di questo blog dovrebbe ricordare qualcosa… ).

Si parla anche di riduzioni d’imposta, sperabilmente rivolti in misura significativa alle fasce sociali disagiate e alla classe media impoverita, il vero motore del sorprendente successo elettorale di Trump.

Un programma di espansione fiscale significativo dovrebbe finalmente portare l’economia USA fuori dalla trappola della liquidità: il mercato obbligazionario sembra crederci, come indicato dai rendimenti dei titoli di stato a 10 anni, passati dall’1,6% scarso di poche settimane fa a oltre il 2,1%.

Cambi: la combinazione di ripresa economica e tassi d’interesse in salita dovrebbe spingere il dollaro al rialzo, ma questo peggiorerebbe il deficit commerciale e diluirebbe, quindi, l’effetto espansivo delle azioni fiscali. E d’altra parte il livello attuale – 1,085 contro euro – è probabilmente già sopravvalutato di un 10%, forse anche di un 15%.

In effetti agli USA farebbe comodo un dollaro più debole contro euro, ma questo aggraverebbe la sempre problematica e precaria situazione dell’Eurozona. La cosa più sensata sarebbe accettare un cambio all’incirca invariato a condizione che anche dall’altra parte dell’Atlantico finalmente cada il mantra dell’austerità e si attui una significativa espansione fiscale, quantomeno nei paesi tuttora in difficoltà – cioè più o meno tutti meno la Germania - e per almeno un paio di punti di PIL.

Questo risolverebbe ovviamente anche molti dei guai prodotti dall’Eurocrisi. Gli USA premeranno in questa direzione, speriamo che l’euro-autolesionismo venga finalmente meno.

Accordi commerciali: Trump è stato eletto su una piattaforma di forte critica della globalizzazione e dei suoi effetti negativi sulla classe media sempre più marginalizzata e impoverita. Non credo a guerre commerciali, ma al blocco definitivo del TTIP e del TTP, forse anche alla revisione del NAFTA. E in generale ad azioni – si vedrà quanto efficaci – orientate a isolare il lavoratore USA dagli impatti più violenti della concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro.

Resteranno sparate propagandistiche senza seguito il muro al confine col Messico, la deportazione degli immigrati irregolari, il bando all’ingresso di musulmani. Ma un atteggiamento più restrittivo nei confronti dell’immigrazione sicuramente ci sarà.

In politica estera, molto positivo è l’orientamento a porre termine all’avventurismo in Medio Oriente e a ricercare un dialogo cooperativo e distensivo con Mosca. Che per l’Europa comporterebbe il non disprezzabile effetto collaterale del venir meno delle sanzioni alla Russia.

Fin qui ci sarebbe da essere ottimisti. Dove sono i dubbi ? In ordine crescente di potenziale importanza:

Regolamentazione del mercato finanziario: si parla di riliberalizzare, e riaffiorano quindi i fantasmi del 2008. Ma i segnali sono disomogenei: annullamento del Dodd-Frank da un lato (ma quanto è stato realmente efficace ?) reintroduzione del Glass-Steagall dall’altro… scenari non chiari, o meglio contraddittori.

Sanità: si parla di annullare l’Obamacare, sul quale personalmente non ho un’opinione. Un disastro forse non è, un successo incontestabile neanche. Tutto dipende da che cosa lo sostituirà. La soluzione migliore sarebbe il single-payer system all’europea – interventi direttamente a carico del settore pubblico – ma bisognava eleggere Bernie Sanders…


Ambiente: Trump è, semplicemente, negazionista sul global warming. A giudizio di molti, si rischia di perdere l’ultima finestra di opportunità per evitare danni climatici di portata difficilmente valutabile. Anche qui non ho opinione – ho cercato di farmela, ma ancora non so a chi credere. Certo è inquietante.

venerdì 11 novembre 2016

La proposta Fazi - Iodice


In questo articolo, e in forma più estesa in questo paper, Thomas Fazi e Guido Iodice propongono uno schema di “stimolo fiscale decentralizzato” per l’Eurozona.

L’idea è di permettere agli stati attualmente in difficoltà di adottare politiche fiscali espansive, finanziate da emissioni sottoscritte e mantenute in portafoglio da investitori residenti nei paesi che le pongono in atto.

Altrimenti detto, l’Italia potrebbe incrementare il deficit e il debito pubblico (ad esempio) di tre punti percentuali, purché sussista un impegno a far sì che il maggior debito (maggiore, s’intende, rispetto agli impegni di riduzione concordati con la UE) venga sottoscritto stabilmente da investitori nazionali, e finanziato quindi da risparmio interno al paese.

Rispetto alla soluzione Moneta Fiscale, una differenza è che si ha, all’avvio della proposta, un incremento di debito pubblico, che la proposta MF invece evita (appunto perché si emette MF e non debito).

A termine, nella proposta F-I il maggior debito iniziale è riassorbito dalla crescita del PIL e quindi dal maggior gettito fiscale. Nella proposta MF, analogamente, gli sconti fiscali sono compensati dal maggior gettito.

In entrambi i casi, la BCE si impegna ad agire come prestatore di ultima istanza e quindi a mantenere contenuti gli spread tra i debiti pubblici dei vari paesi, purché:

nella proposta F-I, il maggior debito rimanga stabilmente nel portafoglio di investitori residenti, fino al momento in cui viene riassorbito.

nella proposta MF, non si emetta mai maggior debito, ma soltanto Moneta Fiscale.

Se sorge qualche tipo di problema, nella proposta F-I occorrerà agire con l’estensione (temporale e/o dimensionale) del vincolo di portafoglio (cioè dell’impegno a far sì che il maggior debito emesso e non ancora riassorbito dalla crescita continui a essere detenuto da residenti). Nella proposta MF, si interviene (sempre se necessario) con le clausole di salvaguardia non procicliche.

La logica dei due schemi ha molti punti di contatto, e sicuramente entrambi possono, sul piano tecnico, funzionare. In effetti la proposta F-I può essere considerata una modalità di applicazione di quanto descritto qui al punto SEI, mentre la MF corrisponde al punto OTTO.

La proposta F-I ha il vantaggio che il debito emesso viene sottoscritto da investitori in cambio di euro: ed è con gli euro che si effettuano le necessarie azioni espansive – aumenti di spesa pubblica o riduzioni di tasse.

Nella proposta MF, si emette invece un nuovo tipo di strumento monetario, la cui valutazione di mercato ha quindi un certo grado di aleatorietà – anche se, essendo utilizzabile per pagare tasse, con un periodo di validità indefinitamente esteso a partire dalla data iniziale di utilizzabilità, l’alea in merito al valore di mercato della MF è in effetti molto modesta (purché non si ne emetta in modo abnorme, s’intende: ma non ce n’è necessità).

La proposta MF ha, da parte sua, il pregio di poter essere adottata senza alcuna necessità di rivedere trattati o regolamenti Eurostat. Il debito non aumenta mai, e la proposta può in effetti essere considerata il modo per rispettare rigorosamente gli obiettivi del Fiscal Compact (che altrimenti risulterebbero, come infatti stanno risultando, ineseguibili, dando luogo a continue revisioni e sforamenti). La proposta MF può quindi essere adottata senza chiedere nulla a nessuno. Gli accordi sulla dinamica di deficit e debito vengono rispettati alla lettera, e l’impegno della BCE ad agire come prestatore di ultima istanza già consegue dal programma OMT.

Quest’ultimo punto è di importanza tutt’altro che trascurabile. La proposta F-I richiede una revisione di trattati e regolamenti che deve essere concordata con gli organi UE e con gli stati membri dell’Eurozona. Il problema è che non sembra sussistere alcuna volontà politica di procedere in questo senso.

La proposta MF non richiede, al contrario, nulla di tutto ciò. Può essere adottata da un singolo stato membro in piena autonomia, senza violare nessuno dei trattati, e anzi potendo legittimamente affermare che si sta agendo in modo da rispettarli.


domenica 6 novembre 2016

Il non-mistero del moltiplicatore keynesiano

Una delle più frequenti critiche al progetto Moneta Fiscale – e, in effetti, a qualsiasi proposta di politica economica imperniata sull’espansione della domanda – è un presunto eccesso di fiducia nel “moltiplicatore keynesiano”: in altri termini, si pone in dubbio che un aumento di spesa pubblica o una diminuzione di imposte possa generare un’espansione più che proporzionale di domanda e di produzione.

Spesso si leggono dibattiti condotti a colpi di citazioni e di sostegni statistici – Olivier Blanchard dice, Carmen Reinhardt non è d’accordo, eccetera.

I critici affermano che i dati sono discordanti e ambigui – non esisterebbe, in altri termini, un’evidenza incontrovertibile che il moltiplicatore sia superiore a uno.

Ma il punto chiave è interpretare i dati in funzione del contesto in cui la manovra espansiva ha effettivamente avuto luogo.

Non è difficile capire che il moltiplicatore è alto in situazione di economia depressa, basso o nullo se il sistema economico è, al contrario, in situazione tonica, o anche solo normale.

Perché ? semplicemente perché la normalità, per un sistema economico, è (o dovrebbe essere) un buon livello di impiego delle risorse produttive. Il sistema dovrebbe, in altri termini non sprecare risorse: quindi farle lavorare. Non avere livelli di disoccupazione abnormi, né impianti fortemente sottoutilizzati.

Se l’offerta, quindi la capacità produttiva del sistema economico, è satura, immettere domanda genera pressioni al rialzo sui prezzi, ma non accresce produzione e occupazione: appunto perché non ci sono significativi spazi di incremento, quantomeno in tempi brevi.

Ma esattamente il contrario vale quando la domanda è pesantemente depressa, la disoccupazione è elevata, gli impianti sono sottoutilizzati. Un’azione di spinta sulla domanda aumenta produzione e occupazione. Non esercita invece pressioni sui prezzi particolarmente elevate se non quando il sottoutilizzo delle risorse produttive è stato, almeno in buona parte, riassorbito.

Questa era la situazione negli anni della Grande Depressione, e questa è la situazione di oggi: in particolare nell’Eurozona, e ancora di più in Italia.

L’opera di Keynes si comprende ricordando che nasce dall’analisi di un contesto di pesante carenza di domanda aggregata, conseguente a una crisi finanziaria. E’ questo che la rende così attuale oggi.

Il moltiplicatore keynesiano non ha nulla di magico. E’ un acceleratore che porta alla velocità di crociera una macchina che procede troppo lentamente. Non serve, al contrario, se l’auto sta già marciando a velocità ottimale.

E l’effetto di accelerazione, in un contesto depresso, è tra l’altro duplice: rapido stimolo dei consumi (o degli investimenti pubblici, se l’azione espansiva è indirizzata su quelli); ulteriore stimolo - differito ma sostanzioso - sugli investimenti privati. Perché via via che il sistema economico si riavvicina all’utilizzo pieno della capacità produttiva crescono gli incentivi a incrementarla.

E’ il cosiddetto crowding-in degli investimenti, che rafforza l’effetto espansivo delle politiche keynesiane in contesto di economia depressa.

Al contrario, le azioni espansive della domanda sono inefficaci quando l’economia è a regime: qui gioca il crowding-out, lo spiazzamento della spesa privata. L’impulso sulla domanda si disperde in inflazione e/o crescita dei tassi d’interesse, la spesa introdotta dall’esterno si compensa con contrazioni di altre forme di spesa.

Ma non è quello di cui dobbiamo preoccuparci oggi. Siamo nella classica situazione in cui l’effetto espansivo del moltiplicatore, dell’azione sulla domanda, è elevato. Ed è quanto necessario ad uscire dalla crisi.