martedì 29 settembre 2015

Svalutazione e salari reali: una distinzione necessaria



L’impatto della svalutazione del cambio sui salari reali è un tema molto dibattuto.  Un paese che svaluta la sua moneta guadagna competitività e – a parità di condizioni – è in grado di esportare di più e di recuperare quote di mercato interno, sostituendo importazioni con produzioni domestiche: la somma di questi due benefici supera in larga misura, generalmente, l’effetto dei maggiori costi per importazioni di materie prime e di altri beni e servizi non sostituibili con produzioni interne.

Detto ciò, spesso leggo articoli e commenti che fanno notare come il recupero di competitività esterna avvenga a fronte di un calo della capacità di spesa del paese che svaluta. Proprio l’effetto di sostituzione di una parte delle importazioni con produzioni interne è indicativo di questo effetto, si dice. Se trovo conveniente andare al mare in Sardegna e non più alle Maldive, è perché la vacanza alle Maldive è diventata più costosa: prima della svalutazione ci andavo (ed evidentemente ritenevo il bene “vacanze alle Maldive” di livello superiore), dopo non mi conviene più e quindi mi accontento della Sardegna. L’implicazione è che ho sostituito un prodotto di alto livello con uno di livello inferiore, quindi ho subito una perdita di potere d’acquisto effettivo.

Questa considerazione ha una sua logica, ma parte da un presupposto implicito: che la svalutazione sia un aggiustamento necessario perché il paese che svaluta deve correggere uno scompenso di saldi commerciali esteri (riequilibrare dei saldi negativi, in altri termini). Un paese che ha un alto deficit commerciale “vive al di sopra dei propri mezzi” perché spende più del suo reddito (attenzione, si parla di deficit commerciale, non di deficit pubblico ! vedi qui) e questo, in genere, non può proseguire all'infinito.

Per la verità ci sono varie situazioni in cui un paese può convivere senza grossi problemi con un deficit commerciale protratto nel tempo. Uno è il caso in cui la moneta di quel paese, o le passività finanziarie emesse nella moneta di quel paese, sono così ampiamente accettate e desiderate dal resto del mondo, che quest’ultimo è disposto a finanziare il deficit per un periodo di tempo indeterminato.

E’, sostanzialmente, la situazione degli USA. Spesso si attribuisce la capacità degli statunitensi di sostenere, per un periodo di tempo indeterminato, ampi deficit commerciali allo status di “valuta di riserva internazionale” che contraddistingue il dollaro. Io lo vedo più come una conseguenza delle dimensioni e dell’importanza del mercato USA. In pratica al produttore straniero si dice: qui c’è un grande mercato, puoi realizzare grandi fatturati. Io però pago dollari. Se ti va è così, se vuoi rinunciare all’opportunità… vedi tu.

In buona sostanza, non rinuncia nessuno.

Un’altra situazione è quella in cui un paese sostiene deficit commerciali per molto tempo in quanto sta crescendo più velocemente dei suoi partner. In pratica, si indebita con l’estero per finanziare il suo sviluppo interno. Questa è una situazione che può essere “sana”, o meno, a seconda della qualità e della sostenibilità dello sviluppo di quel paese. Dipende, in altri termini, dal fatto che la crescita interna sia frutto di investimenti in tecnologia, ricerca, produzioni di qualità, e non di bolle immobiliari o di consumi.

Tutto ciò premesso, prendiamo il caso di un paese come l’Italia: che non emetteva ai tempi della lira una moneta ambita, nel resto del mondo, quanto il dollaro (e in questo momento non ne emette proprio nessuna…) e che non cresce più velocemente dei suoi partner commerciali (anzi al contrario… questa, comunque, è possibile e augurabile che sia una situazione transitoria).

Quel paese ha un vincolo di equilibrio di saldi commerciali esterni. Se esporta meno di quello che importa, per definizione spende più di quello che produce, e ha necessità di riequilibrare la situazione.

Ora, il riequilibrio tra spesa e produzione può avvenire, evidentemente, in due modi: riducendo la prima o aumentando la seconda.

Tutto ciò conduce a capire che vanno distinte due fattispecie all’origine di un processo di aggiustamento mediante riallineamento valutario (leggi svalutazione).

La prima fattispecie è quella in cui il paese sta producendo quello che il suo sistema economico gli consente, ma ha un deficit commerciale. In questo caso non può riequilibrare la situazione dal lato della produzione, ma deve diminuire la spesa.

Quando l’Italia è uscita dallo SME e ha svalutato, nel 1992, non soffriva di un grosso sottoutilizzo delle sue risorse produttive. Doveva riequilibrare i saldi esteri, e la via era quella della diminuzione di consumi e investimenti interni.

Questo doveva necessariamente avvenire tramite una riduzione dei salari reali ? se ne può discutere, e sicuramente erano possibili processi di aggiustamento diversi da quelli allora attuati. Che l’aggiustamento gravasse sui salari e non sui profitti fu, sicuramente, la conseguenza dei rapporti di forza politici di quel momento. Ma che dovesse esserci un qualche impatto negativo, almeno nell’immediato, sulla capacità di spesa TOTALE del paese, mi pare indubbio.

Oggi l’Italia si trova in una situazione completamente diversa. Nel 2014 ha ottenuto un saldo commerciale estero positivo per quasi il 3% del PIL. Nello stesso tempo, il PIL è stato inferiore del 10% rispetto al 2007, la produzione industriale del 25% e i posti di lavoro sono un milione circa in meno.

E’ chiaro che oggi l’Italia non ha il problema di “vivere al di sopra dei propri mezzi”. In realtà produce più di quanto spende (saldi commerciali esteri positivi). Il problema dell’Italia è che utilizza la capacità produttiva del suo sistema economico molto al di sotto delle potenzialità.

L’Italia ha bisogno di immettere potere d’acquisto e domanda nel sistema economico per riattivare le risorse produttive oggi inutilizzate e riassorbire la disoccupazione. E ha bisogno della sua moneta, o di qualcosa che ne svolga le funzioni (come i CCF) per attuare questa azione espansiva sulla domanda.

Detto questo, è anche utile uno strumento di recupero della competitività per evitare che, oltre un certo livello, l’espansione della domanda produca saldi commerciali negativi. Questo è il motivo per cui nel progetto CCF (vedi punto 9, qui) una parte delle erogazioni sono previste andare alle aziende per ridurre il costo del lavoro effettivo (senza penalizzare le retribuzioni nette). E anche per cui, in caso di uscita dall’euro “secca”, una forte azione espansiva sulla domanda interna rende utile o necessario un certo livello di riallineamento del cambio.

Tuttavia è importante sottolineare che oggi l’Italia non deve ridurre la spesa per riportarla al livello della produzione. La necessità è aumentare domanda, spesa e produzione INSIEME.

E se la spesa può e deve aumentare, viene a cadere la necessità di (o il pretesto per...) comprimere i salari reali.

Mi fermo qui per il momento, anche se è un tema su cui c’è molto altro da dire.

Sottolineo però che nell’analizzare le interazioni tra svalutazione e salari reali, o più in generale tra svalutazione e spesa interna, è fondamentale (ma non lo vedo fare, almeno negli articoli e nei dibattiti che mi sono capitati sott’occhio) distinguere tra

Svalutazione effettuata per RIEQUILIBRARE i saldi commerciali esteri, IN ASSENZA di un forte sottoutilizzo delle risorse produttive

e

Svalutazione effettuata per EVITARE lo squilibrio dei saldi commerciali esteri, in presenza di un’AZIONE ESPANSIVA DELLA DOMANDA INTERNA che innalza l’impiego di risorse produttive oggi fortemente SOTTOUTILIZZATE.

La situazione del 1992 era la prima, quella del 2015 è (sarebbe) la seconda.

martedì 22 settembre 2015

Jeremy Corbyn, che ne dici dei CCF ?


Si sta parlando parecchio, in questi giorni, del neoeletto leader laburista inglese Jeremy Corbyn.
 
Corbyn ha conquistato la leadership del suo partito sulla base di una piattaforma politica che segna un netto stacco rispetto al blairismo. Tony Blair ha spostato decisamente a destra l’asse dei Labour, il che ha finito per rendere le proposte del suo partito difficili da distinguere da quelle dei Conservatori. E questo di recente non pare aver aiutato i Labour, a giudicare dal cattivo risultato conseguito alle elezioni politiche del maggio scorso. I Conservatori hanno rivinto non tanto, apparentemente, perché l’elettorato britannico fosse particolarmente entusiasta di Cameron, ma perché i Labour non proponevano (almeno riguardo all’economia) nulla di diverso, salvo un po’ di tasse in più.
 
La proposta più innovativa, tra quelle di Corbyn, è lanciare il cosiddetto “Quantitative Easing for the people”. Perché la Bank of England – è il presupposto della proposta – stampa moneta per finanziare acquisti di titoli di stato che poi restano nel circuito finanziario, invece di alimentare produzione e occupazione ? Non è meglio utilizzare queste risorse per un programma di investimenti infrastrutturali e rilanciare la crescita dell’economia ?
 
A chi segue questo blog, la proposta non suonerà particolarmente innovativa. Emettere moneta attiva espansione economica se, in presenza di risorse produttive inutilizzate, le rimette al lavoro grazie all'incremento della domanda. Se gli acquisti di titoli si limitano a calmierare i tassi d’interesse ma non ci sono azioni di sostegno della domanda (mediante spesa pubblica, minori tasse o incentivi alla spesa privata) non si producono effetti apprezzabili né sui prezzi né su produzione e occupazione (mentre, se la domanda aumenta ma le risorse produttive sono già sostanzialmente sature, l’espansione monetaria innesca inflazione, non crescita reale).
 
Rispetto alla drammatica, assurda situazione dell’Eurozona, il Regno Unito per la verità ha agito in modo decisamente più favorevole alla crescita dell’economia. Ma il trend di recupero rispetto alla crisi del 2008-2009 non è entusiasmante (lo sembra solo se confrontato alle catastrofi che si registrano sul Continente). Corbyn afferma che si può fare molto di più, e ha probabilmente ragione.
 
La proposta di Corbyn sta incontrando critiche e resistenze, almeno in parte motivate con considerazioni relativa al tema dell’indipendenza della Bank of England rispetto al governo. Se Corbyn diventa primo ministro, può ordinare alla BoE di finanziare un programma di investimenti pubblici ? Con ogni probabilità, allo stato attuale, no. E se la BoE non collabora, il governo inglese finisce per ritrovarsi – chi l’avrebbe mai detto – nella situazione degli stati dell’Eurozona. Non può fare affidamento, in altri termini, su una Banca Centrale che agisce in sintonia con il governo, ed è costretto ad adottare politiche meno espansive di quanto sarebbe (a suo giudizio) opportuno.
 
Corbyn si trova senza soluzioni, a questo punto ? Non necessariamente: può emettere Certificati di Credito Fiscale, e utilizzarli per finanziare il programma di investimenti.
 
Si verifica una fattispecie in qui i CCF possono tornare utili a paesi che (al contrario degli stati membri dell’Eurozona) emettono e gestiscono la loro moneta. Un caso diverso l’avevo immaginato facendo riferimento agli USA: e ai tempi mi sembrava un’ipotesi di scuola. Beh, non necessariamente.
 
Forse rimarrà tutta accademia. Non è detto che Corbyn arrivi al governo, non è detto che attui il “QE for the people”, non è detto (nel caso) che la BoE non collabori.
 
Però il dato di fatto è che i CCF, la “moneta” fiscale, non confliggono con il monopolio delle banche centrali nell’emissione di moneta legale, ma sono in grado di “aggirarne” gli effetti.
 
Tutto questo, va messo in conto, non susciterà gli entusiasmi delle banche centrali, né dell’establishment finanziario in genere. Ma se ci si ostina a non sviluppare politiche di pieno impiego delle risorse produttive, altrimenti detto a non risolvere il risolvibilissimo problema della disoccupazione di massa… le banche centrali devono mettere in conto che la loro posizione di monopolio e di indipendenza potrebbe essere messa molto seriamente in questione.

sabato 19 settembre 2015

Eurozona: un piano B che deve diventare piano A


L’Eurosistema odierno è ben diverso da quello a cui molti cittadini europei pensavano quando hanno sentito parlare per la prima volta dell’euro come loro moneta unica. L’euro doveva essere un simbolo (e un veicolo) di maggiore integrazione e prosperità. In realtà è diventato il maggiore ostacolo al compimento di questa visione: uno strumento di divisione, di conflitto e di inefficienza economica.

Per molti di coloro che hanno coltivato questo sogno, il “piano A” consiste nel farlo risorgere riformando le istituzioni dell’Unione Europea. Ma le divergenze degli interessi in gioco e la complessità dei processi politici rendono altamente improbabile che questa evoluzione si possa concretizzare.

Occorre invece pensare a una serie di azioni attuabili dai membri dell’Eurozona per produrre una reale, vigorosa ripresa economica; assicurare la stabilità finanziaria; e creare, dove necessario o opportuno, le condizioni per un’uscita morbida dall’Eurosistema. Un “piano B”, in pratica, che ha grosse possibilità di rivelarsi quello realmente fattibile. Un piano che non richieda la riforma integrale dell’Unione Europea, ma che nello stesso tempo eviti la complessità e i pericoli insiti in una rottura deflagrante della moneta unica europea.

 
Produrre una reale, vigorosa ripresa economica

Proponiamo che i governi nazionali emettano titoli, denominati Certificati di Credito Fiscale (CCF), che danno diritto al loro possessore di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione del paese emittente a partire da due anni dopo la loro emissione.

I CCF possono essere ceduti sul mercato finanziario in cambio di euro, incrementando la capacità di spesa. Con ogni probabilità, il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di Stato zero-coupon a due anni.

Il governo attribuirà (senza corrispettivo) CCF a cittadini e aziende. Ai cittadini, saranno attribuiti privilegiando ceti sociali disagiate e lavoratori a basso reddito. Per massimizzare l’impatto dell’assegnazione dei CCF sull’espansione della domanda, potrà essere prevista una clausola di decadenza tali per cui i CCF saranno annullati se non spesi entro un certo periodo di tempo (per esempio, un anno).

Alle aziende, le assegnazioni saranno attribuite in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. Saranno inoltre privilegiati i settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale, e le aziende che accresceranno maggiormente investimenti ed occupazione.

L’attribuzione di CCF alle aziende, correlata ai costi di lavoro sostenuti, ridurrà i costi di lavoro effettivi, ne migliorerà immediatamente la competitività, ed eviterà quindi che l’effetto espansivo sulla domanda interna crei difficoltà riguardo ai saldi commerciali esteri.

Le emissioni saranno tarate in modo tale da recuperare l’”output gap” prodotto dalla crisi. Nel caso dell’Italia, potrebbero partire da un livello pari al 5% del PIL annuo, aumentare gradualmente fino al 10% e successivamente essere modulate in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza ingenerare tensioni inflazionistiche oltre il livello-obiettivo BCE del 2% o scompensi nei saldi commerciali esteri.

Partendo dagli attuali livelli di domanda depressa e di disoccupazione massiccia, la maggiore disponibilità di potere d’acquisto genera maggior PIL in misura più che proporzionale (il “moltiplicatore keynesiano”). Tenuto anche conto che l’utilizzo dei CCF sarà possibile con un differimento di due anni dopo l’emissione, la maggiori entrate fiscali prodotte (a parità di condizioni) dalle ripresa compenseranno tale utilizzo, evitando di incrementare deficit e debito pubblico.

Una quota dei CCF attribuiti nell’ambito del programma complessivo sarà inoltre utilizzata a sostegno di una serie di altre iniziative: un Piano del Lavoro finalizzato a realizzare opere di riassetto idrogeologico e di pubblica utilità in genere, sostegni ai ceti sociali disagiati, programmi di Reddito di Cittadinanza strutturati in modo da collegarsi a meccanismi di inserimento sul mercato del lavoro, eccetera.

Produrre una reale, forte ripresa economica è particolarmente vitale perché non solo, a sette anni di distanza dal fallimento Lehman, l’Eurozona si trova tuttora in un contesto economico depresso; ma anche perché i grandi fenomeni migratori non sono gestibili in presenza dei livelli di disoccupazione attuali. L’immigrazione, opportunamente gestita, può trasformarsi in una grande risorsa se si verifica nel contesto di un’economia e di un mercato del lavoro tonici. Rischia, al contrario, di innescare pericolose derive sociali se si innesta su una situazione di produzione e di occupazione depresse e stagnanti.

 
Assicurare la stabilità finanziaria
 
I CCF non sono una forma di debito. Il governo emittente non si impegna a rimborsarli, ma soltanto a concedere riduzioni di pagamenti fiscali nel momento in cui i CCF vengono utilizzati. Il governo non può quindi essere forzato ad andare in default sull’impegno assunto con l’emissione di un CCF.

Per paesi quali Italia, Spagna e Francia, che emettessero CCF per stimolare domanda interna e recuperare competitività esterna, non si verificherebbe alcun incremento di deficit anche con un moltiplicatore keynesiano leggermente inferiore all’unità – e se superasse l’unità, come i modelli econometrici indicano come probabile per economie in recupero da una situazione di domanda depressa, il programma genererebbe addirittura risorse fiscali incrementali.

In caso di difficoltà nel raggiungere gli obiettivi fiscali prestabiliti (ad esempio a causa di condizioni economiche esterne sfavorevoli) possono essere attuare una o più delle seguenti azioni compensative (“clausole di salvaguardia”):

1.     Sostenere sotto forma di CCF (e non di euro) alcune spese pubbliche.

2.     Effettuare incrementi di imposte ma compensare il contribuente mediante assegnazioni di CCF.

3.     Incentivare i possessori di CCF a differirne l’utilizzo, riconoscendo una maggiorazione di valore dei CCF posseduti (in pratica, un tasso d’interesse corrisposto in CCF).

4.     Collocare sul mercato CCF a scadenza più lunga (in cambio di euro)

Tutte queste azioni sono enormemente meno procicliche del tentativo di ridurre i deficit fiscali in contesti di recessione o di depressione economica (come è avvenuto soprattutto dal 2011 in poi in molti paesi dell’Eurozona) mediante puri e semplici tagli di spesa o incrementi di tassazione. Si evita infatti di drenare potere d’acquisto dall’economia: al contrario, un tipo di attività finanziaria (l’euro) viene sostituita con un’altra (i CCF), per valori sostanzialmente invariati.

L’introduzione dei CCF renderebbe anche più stabile il sistema bancario. Se le banche si trovano a detenere proporzionalmente più CCF e meno titoli di debito, gli eventuali rischi di default su quest’ultimo influenzano in misura minore la loro stabilità finanziaria.

 
Possibile uscita morbida dall’Eurosistema

Un alto livello di emissione di CCF dovuto, ad esempio, a un utilizzo frequente delle clausole di salvaguardia potrebbe causare una perdita di valore dei CCF emessi. Questo, tuttavia, non avrebbe impatti sugli altri stati membri dell’Eurozona, in quanto non svilirebbe il valore dell’euro (né dei CCF nazionali emessi da altri paesi).
 
Se la sovraemissione di CCF rendesse molto rilevante la loro circolazione in un determinato paese (rispetto a quella degli euro) si potrebbero verificare le condizioni per trasformare i CCF nazionali in una vera e propria moneta legale di quel paese. Questo equivarrebbe a un’uscita “morbida” dall’Eurosistema. Il meccanismo potrebbe anche essere definito e concordato a priori.

giovedì 17 settembre 2015

Intervista sui Certificati di Credito Fiscale



D1. Che cosa propone il progetto CCF riguardo all’Italia ?
R1. In primo luogo, di emettere fino a un massimo di 200 miliardi annui di titoli di Stato – i Certificati di Credito Fiscale, o CCF – aventi natura non debitoria.
Per “natura non debitoria” s’intende che lo Stato italiano non si impegnerà a rimborsare questi titoli, bensì ad accettarli, a partire da due anni dopo la loro emissione, per ridurre il pagamento di tasse, imposte, contributi previdenziali e sanitari, multe eccetera: qualsiasi obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione italiana potrà essere estinta utilizzando indifferentemente CCF o euro.

D2. I CCF possono essere quindi essere considerati una forma di moneta ?
R2. I CCF non sono moneta legale nel senso in cui lo è l’euro. Nessuno è obbligato ad accettare pagamenti in CCF, salvo lo Stato emittente, che volontariamente attribuisce al possessore di CCF la facoltà di ridurre gli impegni di pagamento altrimenti dovuti nei suoi confronti. L’unica di conto rimane l’euro, i depositi bancari restano denominati in euro, i bilanci delle aziende continuano a essere redatti in euro.
Pur non essendo moneta legale, tuttavia, i CCF possiedono due connotati tipici della moneta. Sono una riserva di valore, in quanto il diritto a uno sgravio fiscale futuro è, a tutti gli effetti, un attività patrimoniale. E sono un potenziale intermediario di scambio, in quanto i CCF possono circolare ed essere accettati come corrispettivo di pagamento nello scambio di beni e servizi.

D3. Perché l’utilizzo è differito di due anni ?
R3. Perché, nel momento dell’utilizzo, i CCF a parità di condizioni riducono gli euro incassati dallo Stato italiano. Il differimento dà all’economia italiana il tempo di ottenere un significativo recupero di PIL, e quindi anche di entrate fiscali, compensando così l’effetto dell’utilizzo dei CCF quando giungeranno a maturazione.

D4. A chi verranno assegnati i CCF, e con quali dimensioni e tempistiche ?
R4. Il progetto attuale prevede tre destinazioni principali: le aziende private, i lavoratori e lo Stato stesso. Su 200 miliardi totali massimi all’anno, all’incirca 80 alle aziende private, 70 ai lavoratori e 50 allo Stato. Riguardo alla tempistica, le assegnazioni complessive potrebbero per esempio essere pari a 90 miliardi il primo anno del programma, aumentare a 150 il secondo e raggiungere i 200 il terzo, per poi rimanere stabili a quel livello.
Le aziende private riceveranno CCF commisurati ai costi di lavoro da esse sostenuti. E’ previsto un meccanismo a scaglioni, con maggiore incidenza percentuale sui costi pagati a lavoratori con redditi meno elevati. Per ogni 100 euro pagati in retribuzioni, imposte e contributi, l’azienda riceverà, a regime, 20 euro in CCF. Per i redditi più alti, la percentuale scenderà considerevolmente. Potranno essere previsti meccanismi incentivanti per le aziende che incrementano l’occupazione. E per garantire l’equilibrio dei saldi commerciali esteri, si può considerare di privilegiare nell’allocazione le aziende maggiormente esposte alla concorrenza internazionale (vedi anche il successivo punto 9).
Per i lavoratori, il meccanismo sarà analogo, sempre a scaglioni: il lavoratore percepirà, in aggiunta a una retribuzione netta di 100 euro, 20 euro in CCF – con percentuale in discesa per i redditi alti.

D5. Quindi aziende e lavoratori riceveranno gratuitamente un considerevole importo di CCF. Che cosa ne faranno ?
R5. Chi non avrà esigenze finanziarie immediate, potrà mantenerli come forma di risparmio addizionale. Altrimenti potranno essere monetizzati in anticipo. Si svilupperà un attivo mercato finanziario: i CCF sono, in effetti, una categoria di titoli di Stato. Ci saranno a regime massimi 400 miliardi di CCF in circolazione (due anni di emissioni, dopo i quali le nuove assegnazioni sostituiranno quelle in scadenza).
La monetizzazione anticipata comporterà uno sconto finanziario, in quanto 100 euro di CCF equivalgono (per quanto riguarda gli impegni verso il settore pubblico italiano) a una banconota da 100 euro che non posso utilizzare se non tra due anni. Ma il valore finale è certo, addirittura più di quello di un BOT destinato a essere rimborsato in euro. Lo Stato potrebbe, infatti, andare in default sui suoi impegni di pagamento di euro, mentre il CCF avrà sempre e comunque un valore (in quanto lo Stato imporrà sempre il pagamento di tasse e imposte).
Lo sconto finanziario sarà determinato dal mercato, ma approssimativamente lo si può stimare non molto diverso da un tasso BOT a due anni.
Il compratore finale dei CCF scambiati sul mercato sarà un soggetto che avrà esigenze di pagamento nei confronti dello Stato italiano, per tasse o altro, e li utilizzerà quindi alla scadenza.

D6. Per quali motivo è prevista l’assegnazione di altri 50 miliardi, attribuiti direttamente allo Stato italiano medesimo ?
R6. Potranno essere utilizzati per altre forme di sostegno della domanda, quindi di spesa: integrazione di reddito alle categorie disagiate, investimenti pubblici, spesa sociale, interventi di ricostruzione in aree colpite da calamità naturali eccetera.

D7. Perché viene proposta un’emissione annua massima di 200 miliardi ?
R7. A causa del calo di PIL prodotto nel 2008 dalla crisi finanziaria mondiale, e ulteriormente (soprattutto dal 2012 in poi) dall’eurocrisi, il PIL italiano è fortemente inferiore al suo potenziale. Se dal 2007 in poi si fosse avuta una crescita reale media dell’1% - tasso considerato già modesto in condizioni normali – il PIL 2015 sarebbe più alto di oltre 300 miliardi. Questo è l’”output gap” da colmare. Una crescita media del 5% all’anno per tre anni è fattibile con la riforma proposta, e colma la maggior parte di questo deficit di PIL.

D8. Le assegnazioni annue massime previste però sono 200, non 300 miliardi.
R8. Sì, in quanto un’immissione di domanda nell’economia avvia una catena di eventi – il percettore di maggior reddito a sua volta in parte lo spende, aumentando il reddito di altre aziende e/o individui, eccetera. Quindi l’effetto è più che proporzionale. E’ il cosiddetto “moltiplicatore fiscale”, che è tendenzialmente superiore a 1 quando l’economia recupera da una situazione di domanda depressa. L’incentivo alla spesa dei CCF ricevuti potrebbe anche essere incrementato assegnandoli agli individui per il tramite di un’apposita “carta fiscale” e prevedendone la decadenza se non vengono spesi entro una data prestabilita (ad esempio, dodici mesi).

D9. La composizione dell’intervento di 200 miliardi – 80 alle aziende private, 70 ai lavoratori, 50 in spesa pubblica – è arbitraria ?
R9. La composizione esatta sarà il frutto di decisioni politiche. E’ però fondamentale l’ordine di grandezza destinato alle aziende, in quanto occorre riallineare il costo del lavoro per unità di prodotto italiano a quello dei membri più efficienti dell’eurozona, in particolare della Germania. 80 miliardi sono il 18% circa dei costi di lavoro delle aziende private italiane, e l’attribuzione di CCF ai datori di lavoro riporta quindi la competitività italiana a livelli tedeschi, con risultati simili (anche se tramite un meccanismo differente) a quanto farebbe la “spaccatura” dell’euro e il conseguente riallineamento valutario.
Viene così meno una fonte di squilibri: senza un miglioramento della competitività italiana, buona parte del sostegno della domanda prodotto dai CCF alimenterebbe domanda di prodotti esteri, squilibrando la bilancia commerciale. In questo modo, al contrario, le aziende italiane diventeranno immediatamente più competitive, esporteranno di più, e guadagneranno mercato interno nei confronti delle importazioni.
Va notato che questo non comporta un danno significativo per la Germania, perché, in aggiunta a quanto sopra, l’Italia otterrà anche una forte ripresa economica, il che aumenterà il suo import, compreso di prodotti nordeuropei. Oggi i saldi commerciali italiani sono positivi (partite correnti attive per il 2% circa nel 2014), ma solo grazie a una domanda interna molto depressa, che limita le importazioni. Con la ripresa dell’economia, i due effetti si compenseranno – più import per la maggior domanda, maggior export netto per la maggior competitività. La bilancia commerciale italiana resterà in equilibrio, ma a livelli decisamente più alti sia di import che di export.

D10. Si diceva prima che le erogazioni non saranno pari a 200 miliardi fin dal primo anno, ma raggiungeranno questo livello nel corso di un triennio…
R10. E’ realistico scaglionare l’intervento nel tempo, perché la maggior domanda dovuta ai CCF stimolerà le aziende a produrre di più, ma rimettere in moto la capacità produttiva oggi inutilizzata richiede tempo. I livelli effettivi e la distribuzione temporale saranno tarati in funzione della risposta dell’economia, in modo che l’occupazione recuperi senza che l’inflazione risalga in modo eccessivo. Oggi siamo a zero inflazione e occorre ritornare al 2%.
Anche la quota destinata alle aziende (gli 80 miliardi) potrà essere regolata nel tempo, sempre con l’obiettivo di mantenere in sostanziale pareggio i saldi commerciali esteri.

D11. Il progetto prevede anche l’introduzione dei cosiddetti “BTP fiscali”. Di che cosa si tratta ?
R11. Sono titoli di stato con scadenze varie – anche pluriennali – che non pagano interessi e capitale in euro. Danno invece diritto, via via che interessi e capitale maturano, a ridurre per pari importo impegni finanziari verso la pubblica amministrazione. Esattamente come i CCF, appunto.

D12. Come verranno introdotti, e con quali finalità ?
R12. In primo luogo, nel momento in cui cominceranno le assegnazioni dei CCF, si darà la possibilità a tutti i possessori di titoli di stato “tradizionali” (BOT, CTZ, BTP, CCT eccetera) di convertirli in BTP fiscali, con scadenze più lunghe e con un tasso d’interesse più alto. Per esempio un BTP con tre anni di vita residua e cedola del 2% potrebbe essere convertito in un BTP fiscale con sei anni di vita residua e cedola del 4%. Questa opzione di conversione rimarrà esercitabile (da parte del possessore del titolo) per tutta la vita residua.
Si evita in tal modo che l’annuncio della riforma dia luogo a movimenti speculativi sui mercati finanziari. Se il mercato dovesse reagire negativamente, si potrebbe creare una pressione al ribasso nel valore nei titoli di stato in circolazione (quelli tradizionali) creando problemi, per esempio, ai bilanci degli investitori istituzionali (banche, assicurazioni eccetera) che li possiedono. Ma se un titolo di stato è sempre convertibile in BTP fiscali – quindi in un titolo che mantiene sempre, con certezza, un valore, perché è utilizzabile per pagare tasse e non ha quindi rischio di default – la pressione al ribasso sopra citata incontra una soglia.
Questa, peraltro, non è l’unica finalità. Tanti più titoli vengono convertiti in BTP fiscali, tanto più diminuisce l’ammontare di titoli di stato “tradizionali”, che possono dar luogo a default. Si riduce così la possibilità di una “crisi dello spread” come quella del 2011.
Per quanto riguarda le nuove emissioni, anch’esse dovranno avvenire, nella maggior misura possibile, mediante BTP fiscali e non emettendo titoli “tradizionali”. Il debito in euro, quello che deve essere rimborsato e quindi può dar luogo a default, deve essere ridotto il più rapidamente possibile, idealmente a zero. E’ prevedibile che sul mercato ci sia interesse per le emissioni di BTP fiscali, anche perché verranno ridotte – idealmente azzerate – quelle di titoli “tradizionali”, e i loro abituali compratori (specialmente gli investitori istituzionali italiani) dovranno reimpiegare la loro liquidità. Uno strumento d’investimento senza rischio di default è interessante per motivi analoghi a quelli che rendono appetibile un titolo di stato in moneta sovrana.

D13. Ma i CCF e i BTP fiscali non sono comunque debito pubblico ?
R13. No, perché lo Stato italiano darà diritto al titolare di ridurre i pagamenti per imposte e altre obbligazioni finanziarie nei confronti del settore pubblico, ma non dovrà mai rimborsarli. Non esistendo un obbligo di rimborso, l’emittente non potrà, quindi, mai essere forzato al default.

D14. Quale sarà la reazione dei partner europei ?
R14. Il progetto CCF è la via per rendere sostenibile il sistema monetario europeo (senza attuare una “transfer union”, che la Germania non accetta) ed elimina il rischio di una deflagrazione dell’Eurozona. Inoltre, non si richiede alcun contributo finanziario ai paesi settentrionali dell’Eurozona, e non si convertono le attività finanziarie italiane (depositi bancari, titoli di Stato) in moneta a rischio di svalutazione.

D15. I trattati vanno riformulati ?
R15. Nella forma attuale, sono ineseguibili. D’altra parte sono stati concepiti su istanza dei paesi dell’ex area marco, che temono di doversi far carico dei debiti di uno o più paesi del sud. Il progetto CCF produce una forte ripresa economica dei paesi che lo adottano e nello stesso tempo riduce, con l’obiettivo realistico di azzerare, il debito che crea rischio di default.

D16. Esistono tuttavia dubbi che il progetto CCF possa essere attaccato in quanto non conforme ai trattati.
R16. Paradossalmente molti tra coloro che sollevano questo tema affermano che, essendo il progetto CCF a rischio di attacco sulla base della non conformità ai trattati… bisogna attuare il breakup ! Come se il breakup li rispettasse…
Il punto chiave è che il progetto rende possibile il conseguimento degli obiettivi economici che i trattati si prefiggono, in quanto consente sviluppo economico, occupazione, stabilità monetaria e riduce rapidamente, fino a eliminarli, i rischi di default sui debiti pubblici e i conseguenti dissesti finanziari. Al contrario, gli obiettivi dei trattati non sono conseguiti da una serie di altre azioni – l’OMT, le iniziative di sostegno intraprese dalla BCE, il QE stesso – che, a loro volta, sono attualmente oggetto di azioni legali. Si può sicuramente affermare che il progetto CCF è, rispetto a queste iniziative, almeno altrettanto conforme ai trattati, nonché enormemente più efficace per quanto attiene al raggiungimento dei loro obiettivi.
E’ importante tenere a mente che i CCF non sono debito, in quanto lo stato emittente non ha obbligazioni di rimborso. Ma non violano neanche il monopolio di emissione della BCE, che riguarda la cosiddetta “legal tender”, cioè la moneta che estingue qualsiasi tipo di obbligazione denominata in euro. I CCF emessi dallo Stato italiano non danno diritto a estinguere un’obbligazione nei confronti di un soggetto privato, italiano o estero. Solo lo stato emittente si impegna ad accettarla, a partire da due anni dopo l’emissione: e questa è l’origine del loro valore.

D17. Che effetti si verificano riguardo al Fiscal Compact ?
R17. Il Fiscal Compact impone un percorso accelerato di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL. Per l’Italia (ma anche per altri paesi) si tratta di obiettivi totalmente irrealistici. Tentare di conseguirli richiederebbe manovre fiscali pesantissime che abbatterebbero ulteriormente il PIL, causando non la riduzione ma al contrario l’aumento del rapporto debito / PIL.
Nelle condizioni attuali il fiscal compact è quindi ineseguibile. Il progetto CCF, d’altra parte, fornisce proprio la via per rispettarlo, appunto perché i CCF e i BTP fiscali non sono debito, in quanto non creano rischio di default. In questo modo gli obiettivi di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL sono raggiungibili. E gli interessi diventano collimanti: il debito pubblico italiano espresso in euro, che la Germania teme, un giorno, di doversi sobbarcare a seguito di un default italiano, scende rapidamente e viene sostituito da titoli non soggetti a default. Situazione enormemente più tranquilla sia per la Germania che per l’Italia.

D18. Che cosa sono le “clausole di salvaguardia” previste nell’ambito del progetto CCF ?
R18. Ogni paese emittente di CCF può impegnarsi a mantenere, sempre e comunque, un saldo prestabilito tra pagamenti e incassi in euro – il 3% originariamente previsto dal trattato di Maastricht, o addirittura un saldo zero. Nel momento in cui evoluzioni negative della congiuntura, o qualsiasi altra circostanza, impedissero il raggiungimento di questi obiettivi, possono essere attuate una o più delle seguenti azioni:
Alcune componenti di spesa pubblica in euro possono essere sostituite da (ulteriori) erogazioni di CCF.
Possono essere introdotte o incrementate alcune forme di prelievo fiscale, compensando però il prelievo con erogazioni di CCF al contribuente.
Il possessore di CCF può essere incentivato a posporne l’utilizzo, riconoscendo un incremento di valore facciale in funzione del differimento (in pratica, un tasso d’interesse, pagato sotto forma di ulteriori CCF).
Lo stato emittente può collocare sul mercato BTP fiscali.
L’utilizzo di queste opzioni avrebbe effetti assai meno prociclici rispetto ai tagli di spesa pubblica e/o alle maggiori tasse imposte attualmente dalle regole UE in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica. Non si avrebbero, infatti, drenaggi di potere d’acquisto, ma (eventualmente) solo sostituzioni di una forma di attività patrimoniale (gli euro) con un’altra (i CCF).

D19. L’emissione di CCF non produrrà inflazione ?
R19. L’assegnazione di CCF produce un forte recupero della domanda e del PIL, ma gli effetti inflazionistici sono enormemente limitati dall’altissima quota di disoccupazione, quindi di capacità produttiva inutilizzata. Solo se l’ammontare emesso superasse i livelli che consentono il ripristino della piena occupazione si produrrebbe un eccesso d’inflazione. Va anche ricordato che, attribuendo CCF alle aziende in funzione dei loro costi di lavoro, se ne riducono i costi produttivi, con un effetto mitigante sull’inflazione. Peraltro, se un qualche modesto incremento avesse luogo, è esattamente quanto serve per riportarla dall’attuale zero (con rischio di cadere in deflazione) all’obiettivo BCE del 2%.

D20. Perché preferire il progetto CCF alla “spaccatura” dell’euro ?
R20. Perché è una riforma che può essere tranquillamente discussa e analizzata alla luce del sole e non una “deflagrazione” da attuare di sorpresa, in tempi rapidissimi, con rischi di panico bancario e sui mercati finanziari.
Perché non costringe la Germania a lavorare, d’improvviso, con una moneta rivalutata (con i conseguenti rischi di ritorsioni).
Perché non c’è svalutazione dei crediti stranieri verso l’Italia.
Perché non ci sono effetti redistributivi su aziende e banche, e contenziosi dovuti ai dubbi su quali crediti e debiti si convertono in “Euro Nord” o “Nuovi Marchi”, e quali in “Euro Sud” o “Nuove Lire”.
Perché il cittadino italiano non si vede trasformare i suoi risparmi, il suo stipendio, la sua pensione, d’improvviso, in un oggetto diverso, di cui è chiaro solo che varrà di meno.

D21. Il progetto CCF è applicabile ad altri paesi ?
R21. Certamente: tutti i paesi dell’Eurozona che hanno oggi difficoltà, o comunque livelli di competitività inferiori a quelli tedeschi, nonché alta disoccupazione, possono introdurli (anzi è raccomandabile che lo facciano). Ciò nella misura, caso per caso, opportuna per ripristinare competitività e piena occupazione, rispettando i vincoli di inflazione stabile e moderata, e di equilibrio nei saldi commerciali esteri.

D22. I CCF diventeranno, a un certo punto, una vera e propria moneta circolante ?
R22. Il progetto funziona anche a prescindere che i CCF vengano utilizzati per transazioni correnti. Tuttavia è probabile che l’utilizzo quotidiano prenda piede e si incrementi. Anche senza emetterli sotto forma di monete e banconote ma usandoli per pagamenti elettronici (ad esempio via carta di credito) e come sottostante nella definizione di contratti di lavoro, affitto, compravendita, eccetera. E’ possibile che, a un certo punto, il CCF diventi a tutti gli effetti la moneta circolante principale.

D23. Questo significa che il progetto CCF è, di fatto, una “via morbida” per l’uscita dall’euro ?
R23. Non è scontato che lo sia, ma è effettivamente una possibilità. Per esempio, evoluzioni economiche sfavorevoli possono portare determinati paesi a emettere CCF in misura superiore al previsto (in particolare, a causa di un utilizzo frequente delle clausole di salvaguardia di cui al punto 18). In questa eventualità, si verificherebbe una perdita di valore dei CCF emessi da quello stato, che tuttavia non pregiudicherebbe il valore dell’euro. Si inflazionerebbero, in pratica, i CCF emessi dal paese, senza conseguenze per il valore degli strumenti monetari utilizzati dagli altri.
Questo è uno scenario, forse il più probabile, che porterebbe a quanto detto sopra, cioè a rendere la circolazione di CCF predominante, in singoli paesi, rispetto a quella degli euro. A quel punto ci sarà la possibilità (che potrà anche essere disciplinata da regole preconcordate) di trasformare i CCF in una vera e propria moneta nazionale, realizzando appunto la fuoriuscita morbida dall’Eurosistema.
In definitiva, quindi, se l’evoluzione macroeconomica è in linea con le attese, il paese che emette i CCF può mantenere in essere un sistema in cui i CCF svolgono una funzione complementare all’euro, per un periodo di tempo indefinito.
Se invece decide di utilizzare i CCF come transizione verso l’uscita totale dall’Eurosistema – o se diventa opportuno farlo perché la circolazione dei CCF finisce per essere predominante -  i CCF sono effettivamente una “via morbida” all’exit, che evita le notevoli complicazioni e incertezze connesse alla “spaccatura” dell’euro.