mercoledì 28 marzo 2018

Moneta Fiscale: la soluzione degli europroblemi italiani


Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini

I notevoli risultati conseguiti da partiti euroscettici quali M5S e Lega nelle recenti elezioni italiane sono stati attribuiti allo scadente andamento dell’economia (vedi ad esempio questo recente articolo di Martin Wolf sul Financial Times).

Effettivamente, è così. A prezzi costanti, il PIL italiano 2017 è stato inferiore di 100 miliardi di euro rispetto al 2007 – un decremento del 5,5% ! Nel medesimo periodo, le esportazioni sono aumentate del 7,8% - non una prestazione stellare in dieci anni, ma comunque una chiara indicazione che la causa principale è la carenza di domanda interna. Se il PIL italiano fosse cresciuto allo stesso ritmo delle importazioni, oggi sarebbe più elevato del 14% - ovvero 241 miliardi di euro.

Queste situazione genera un tasso di disoccupazione U-6 (che prende in considerazione anche gli scoraggiati nonché i lavoratori involontariamente part-time) del 30% circa. E’ fuori discussione che esista un enorme output gap.

L’economia italiana sicuramente soffre anche di altri problemi. La crescita della produttività è irrisoria da vent’anni a questa parte. Ma di nuovo, almeno in parte questo nasce dalla depressione della domanda. In termini reali, gli investimenti sono stati inferiori del 18,5% nel 2017 rispetto al 2007. La bassa domanda del settore privato, le restrizioni alla spesa pubblica, e il basso impiego della capacità produttiva esistente producono effetti negativi e perduranti su investimenti e produttività.

Dato che le regole fiscali impediscono di reflazionare la domanda emettendo debito, e poiché la politica monetaria non può diventare più accomodante di quanto sia già oggi, è necessario uno strumento alternativo. La Moneta Fiscale è lo strumento necessario.

La nostra proposta è che il governo emetta titoli trasferibili e negoziabili, che i possessori potranno usare, a partire da due anni dopo l’emissione, per conseguire sconti fiscali. Questi titoli avranno immediatamente valore in quanto incorporano diritti certi a risparmi d’imposta futuri, e potranno essere immediatamente scambiati contro euro o utilizzati come strumenti di pagamento (in parallelo all’euro) per acquistare beni e servizi.

La Moneta Fiscale verrebbe assegnata, senza corrispettivo, per integrare i redditi dei lavoratori, finanziare investimenti pubblici e programmi di spesa sociale, e ridurre il cuneo fiscale sul lavoro in favore delle aziende. Queste assegnazioni incrementerebbero la domanda interna e (replicando gli effetti di una svalutazione del cambio) migliorerebbero la competitività delle aziende. L’output gap verrebbe colmato senza peggiorare i saldi commerciali esteri del paese.

Va notato che in base ai principi contabili internazionali, questi titoli fiscali non costituirebbero debito, in quanto l’emittente non assumerebbe alcun obbligo di rimborsarli in euro. Sulla base delle regole Eurostat, quindi, verrebbero trattati come “non-payable deferred tax assets” e non avrebbero impatti sui conti pubblici fino al loro utilizzo per conseguire sconti fiscali (cioè due anni dopo l’emissione, quando produzione e gettito avranno recuperato).

Sulla base di ipotesi molto prudenziali (moltiplicatore fiscale di 1 e ripresa degli investimenti privati in misura tale da recuperare metà della caduta rispetto al 2007) l’incremento del PIL produrrebbe gettito fiscale incrementale sufficiente a compensare gli sconti fiscali. Questi ultimi raggiungerebbero un massimo di 100 miliardi annui, che si confronta con oltre 800 di entrate totali del settore pubblico italiano. Il rapporto di copertura (cioè le entrate pubbliche lorde divise per gli sconti fiscali che diventano utilizzabili ogni anno) sarebbe più che sufficiente per gestire eventuali ammanchi dovuti a future recessioni.

Abbiamo trovato la pietra filosofale ? certamente no: in un’economia con un forte sottoutilizzo delle risorse produttive il moltiplicatore opera prevalentemente sulla produzione e solo marginalmente sui prezzi. E se le dispersioni esterne sono sotto controllo (come consentito dal miglioramento di competitività) l’effetto moltiplicativo è ai massimi. La Moneta Fiscale mobilita risorse inutilizzate, accelera gli investimenti e spinge le banche a far ripartire il credito.

Attivando un programma di Moneta Fiscale, l’Italia risolverebbe il suo problema di output gap senza chiedere nulla a nessuno. Non sarebbero necessarie revisioni dei trattati né trasferimenti finanziari. Il debito pubblico smetterebbe di incrementarsi e inizierebbe a declinare in percentuale del PIL, realizzando così gli obiettivi del Fiscal Compact. Le finanze pubbliche sarebbero sostenibili purché la BCE confermi il “whatever it takes” – impegno che non avrebbe motivo di rinnegare, data la stabilizzazione del debito italiano.

Se l’Italia peggiorasse in futuro la sua disciplina fiscale ed emettesse un eccesso di Moneta Fiscale, solo i riceventi ne verrebbero danneggiati: il valore dello strumento scenderebbe ma senza impatti sull’euro e senza che si creino rischi di default. In ogni caso, l’ampiezza del rapporto di copertura rende questo scenario del tutto improbabile. Inoltre, è corretto ricordare che l’incapacità italiana di controllare le finanze pubbliche è un mito. Tra il 1998 e il 2017, l’Italia è stato l’unico paese dell’Eurozona a non conseguire mai deficit primari di bilancio pubblico salvo che nel 2009. Casomai l’Italia ha sofferto di un eccesso di contenimento dei deficit pubblici e, di conseguenza, di una pesante caduta della produzione.

Una forte ripresa dell’economia italiana (e verosimilmente di altri paesi meridionali dell’Eurozona, che potrebbero replicare lo schema Moneta Fiscale) è una precondizione indispensabile per la cooperazione efficace ed armoniosa delle economie europee. La Moneta Fiscale è lo strumento appropriato per rendere raggiungibile questo obiettivo.


venerdì 23 marzo 2018

Azioni espansive sì: ma quali


L’Italia sta attraversando da anni una pesantissima crisi economica, prodotta da un insufficiente livello di domanda interna. Una netta inversione di tendenza è possibile, e anche in tempi rapidi. Ma solo a condizione di attuare una forte azione espansiva della capacità di spesa di tutti gli operatori economici – cittadini, aziende e Stato.

E’ importante, tuttavia, aver presente che esiste una gerarchia di efficacia degli interventi. In altri termini, immettere capacità di spesa produce maggiore produzione e occupazione, ma non tutte le azioni hanno lo stesso impatto.

Gli interventi ad alta efficacia – in termini di generazione di maggior PIL – sono in primo luogo quelli sugli investimenti pubblici e sul pubblico impiego. La spesa pubblica diretta, nel momento in cui mette al lavoro risorse produttive (persone e aziende) altrimenti inoperose, dà un contributo immediato al PIL di pari importo; e avvia poi una catena di effetti indotti (più occupati e maggiori redditi inducono maggiori consumi e investimenti).

Notevole è anche l’efficacia della defiscalizzazione dei fattori produttivi, per esempio mediante la riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle aziende (abbassamenti di oneri e contributi che gravano sul costo del lavoro, ma senza penalizzare i redditi netti dei dipendenti). In questo modo si produce un immediato recupero di competitività che permette alle aziende italiane sia di guadagnare mercato all’estero, sia di sostituire importazioni con produzioni interne. Inoltre, si evita che l’azione espansiva sulla domanda si disperda (in parte) a causa di peggioramenti dei saldi commerciali esteri.

La riduzione delle tasse e l’aumento dei trasferimenti (per esempio, pensioni) sono efficaci soprattutto se rivolte a segmenti sociali disagiati, che sono quelli con maggiore propensione alla spesa. L’azione espansiva è meno efficace rispetto al caso della spesa diretta per pubblico impiego o investimenti, in quanto il potere d’acquisto non si traduce in un incremento immediato di PIL: in parte viene risparmiato e non speso. Più alta è la propensione marginale al consumo, tuttavia, e meno sensibile è questo effetto: per questo motivo, oltre che per ragioni di equità sociale, l’intervento va rivolto soprattutto ai segmenti di reddito medio-bassi e bassi.

Quest’ultimo è un problema connaturato alla flat tax: troppa parte dell’azione espansiva va a beneficio dei segmenti di reddito medio-alti e alti.

Se si punta a una semplificazione del sistema di aliquote, andrebbe casomai valutato un sistema a due scaglioni fortemente differenziati. Lo stesso impatto sul gettito di un’aliquota unica al 15% (come propone la Lega) per esempio, sarebbe ottenuto, all’incirca, utilizzando il 10% per imponibili fino a 35.000 euro, e il 40% sull’eccedenza. Ma l’effetto espansivo sarebbe in questo caso quasi tutto rivolto ai segmenti medi e bassi, e l’efficacia macroeconomica dell’azione sarebbe decisamente più elevata.

Il progetto MF / CCF attua l’azione espansiva mediante l’erogazione di Certificati di Credito Fiscale / Moneta Fiscale, e gli interventi proposti sono appunto strutturati in modo coerente a quanto detto sopra. Sono quindi rivolti alle fasce sociali disagiate, all’integrazione di redditi da lavoro con netta preferenza per i livelli bassi e medio-bassi, alla riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle imprese, agli investimenti pubblici e al pubblico impiego in settori che sono stati ingiustificatamente penalizzati in questi anni (tra gli altri: sanità, istruzione, tutela del territorio, piccole opere infrastrutturali e loro manutenzione ecc.).


mercoledì 21 marzo 2018

Solo la Moneta Fiscale può rendere funzionale l'Eurosistema


Martin Wolf, il principale commentatore economico del Financial Times, ha citato alcuni giorni fa l’ipotesi Moneta Fiscale (in questo articolo, con un link interno al nostro progetto). Successivamente è stato pubblicato un nostro commento sul tema, che riporto qui di seguito in versione italiana.


Di: Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini

Gentili signori,

Martin Wolf fa riferimento alla proposta di Moneta Fiscale che abbiamo sviluppato e che stiamo promuovendo ormai da alcuni anni. M. Wolf concorda sulla sua fattibilità tecnica, benché “creerebbe sicuramente isteria in Nord Europa”.

Bene, non dovrebbe. Nella nostra proposta, la Moneta Fiscale verrebbe emessa sotto forma di titoli al portatore trasferibili e negoziabili, che darebbero diritto ai possessori di ottenere sconti fiscali due anni dopo l’emissione. Questi titoli avrebbero valore immediatamente, in quanto incorporerebbero diritti certi a risparmi fiscali futuri, e potrebbero essere fin da subito scambiati contro euro o utilizzati come strumenti di pagamento in parallelo all’euro. Sulla base delle regole contabili europee, non costituirebbero debito pubblico.

La Moneta Fiscale verrebbe allocata, senza corrispettivo, per integrare redditi da lavoro, ridurre il cuneo fiscale a vantaggio delle aziende, e finanziare investimenti pubblici e spesa sociale.

Permetterebbe all’Italia di espandere la domanda interna e migliorare la competitività delle imprese, evitando nello stesso tempo qualunque incremento di debito pubblico e qualunque rottura del Fiscal Compact. In effetti renderebbe il debito sostenibile, rovesciando gli effetti di anni di austerità e rimuovendo ogni motivazione che potrebbe spingere la BCE a venir meno al “whatever it takes” di Mario Draghi.

La Moneta Fiscale è a volte descritta come un passo che porterebbe necessariamente all’Italexit. Al contrario, è il modo per superare le disfunzionalità dell’Eurozona che condannano l’economia italiana a uno stato di depressione permanente. Diversamente, una rottura con fuoriuscita dell’Italia dall’euro rimane sempre possibile. Invece di farsi cogliere dall’isteria, il Nord Europa dovrebbe salutare la Moneta Fiscale come l’unico strumento in grado di evitare la rottura dell’Eurosistema.


domenica 18 marzo 2018

L'Eurosistema così non funziona


Credo che qualsiasi commentatore di fatti economici dotato di un minimo livello di competenza ed equilibrio si renda conto che l’attuale Eurosistema è, e rimane, costantemente a rischio di rottura.

E non va mai dimenticato che il rischio di rottura deflagrante preoccupa sicuramente l’establishment finanziario internazionale, ma altrettanto la grande industria esportatrice nordeuropea e in particolare tedesca.

L’equivoco di fondo sulla Moneta Fiscale è che troppi la vedono come una strada che conduce alla deflagrazione violenta e incontrollata, quando invece è esattamente il modo per evitarla.

Occorre un governo italiano che dica (e metta in atto) semplicemente quanto segue.

PRIMO, introduciamo la Moneta Fiscale perché è perfettamente compatibile con i trattati, e in generale con l’architettura dell’Eurosistema.

SECONDO, il debito da rimborsare in euro – il debito vero, in altri termini – non aumenterà più, neanche di un centesimo. Il Fiscal Compact risulterà quindi perfettamente rispettato.

TERZO, la Moneta Fiscale consentirà all’Italia di uscire dalla depressione economica e di ripristinare il pieno impiego (senza penalizzare i saldi commerciali esteri).

QUARTO, per ottenere un assetto stabile, sostenibile ed efficiente, non serve altro se non la conferma (più esattamente, la prosecuzione, o altrimenti detto la mancata revoca) da parte della BCE, del whatever it takes. E non si capisce perché il whatever it takes dovrebbe venir meno, visto che non si chiede di garantire neanche un centesimo di debito in più.

La revisione dei trattati è un totale vicolo cieco. Il break-up è tecnicamente molto più complesso e difficile, e non esiste il consenso politico necessario per metterlo in atto.

La Moneta Fiscale è la via più appropriata per ricreare, in Europa, condizioni di benessere diffuso, indispensabili anche per promuovere qualsiasi forma di cooperazione armoniosa ed efficace.


giovedì 15 marzo 2018

Se si deve rivotare, facciamolo subito


Da alcuni giorni, un’esauriente analisi pubblicata da Youtrend  circola sui social networks e spiega come una diversa legge elettorale non avrebbe evitato lo stallo prodotto dalle recenti elezioni politiche.

La causa naturalmente è la divisione dell’elettorato in tre blocchi – centrodestra, M5S e centrosinistra – e la difficoltà di trovare accordi di coalizione.

Dato questo presupposto, non mi pare sensata un’ipotesi che pure formulano in parecchi: un “governo di scopo” con personalità non legate a partiti, e finalizzato a fare poche cose – una nuova legge elettorale oltre alla finanziaria (pardon, legge di stabilità) per il 2019. Per poi tornare a votare nella primavera del 2019, magari in concomitanza con le elezioni europee.

Mi sembra uno scenario da evitare: se si deve andare di nuovo al voto, è inutile e anzi probabilmente dannoso attendere un anno. Le camere si insedieranno tra una decina di giorni: se ad aprile si constaterà che l’accordo di coalizione non si trova, ci sono i tempi tecnici per scioglierle e votare entro fine giugno o primissimi di luglio. Del 2018.

L’obiezione è che nuove elezioni a scadenza così ravvicinata produrrebbero una nuova situazione di stallo. Ma in primo luogo, come spiegato da Youtrend, il rischio di stallo esiste con pressoché tutte le alternative di legge elettorale che potrebbero essere approvate in sostituzione dell'attuale.

Inoltre, rivotare con il Rosatellum ha significative possibilità di non creare una nuova impasse. L’attuale legge elettorale è infatti congegnata in modo da trasformare una percentuale di voti intorno al 40% in una maggioranza di seggi.

Il 4 marzo scorso i due principali blocchi – il centrodestra e M5S – hanno conseguito rispettivamente il 37% e il 33%, quindi il 70% totale. Se si rivota a breve scadenza, l’effetto sarà di rafforzarli ulteriormente – soprattutto a danno del PD, ma anche di tutte le liste minori – perché il nuovo voto sarà visto come una sorta di ballottaggio.

E’ molto probabile quindi che la somma di centrodestra e M5S si avvicini molto o anche raggiunga l’80%. Se i voti non si dividono in misura quasi perfettamente uguale, che uno dei due raggiunga o superi il 40% diventa quindi molto probabile.

Casomai, se c’è accordo si può arrivare a una modifica del Rosatellum semplice e da approvare in tempi rapidissimi: un premio di maggioranza abbastanza limitato, compatibile con le indicazioni date dalla Corte Costituzionale in sede di “bocciatura” dell’Italicum. Per esempio il 10%, che aumenterebbe ulteriormente la probabilità, per uno dei due blocchi, di ottenere la maggioranza dei seggi in parlamento.

Se c’è consenso, questa revisione può essere effettuata in tempi compatibili con nuove elezioni entro la pausa estiva. Se no pazienza, andiamo a rivotare con il Rosatellum così com’è. Ma entro pochissimi mesi. Restare un anno in una situazione di limbo non ha senso.


lunedì 12 marzo 2018

M5S e il ricalcolo del "deficit strutturale"


Il Sole 24Ore qualche giorno fa, in questo articolo di Manuela Perrone, ha esposto la sua ipotesi in merito a come un eventuale governo M5S punterà a ottenere spazi di azione per politiche economiche espansive.

In campagna elettorale, il ministro dell’economia designato dal M5S, Andrea Roventini, ha escluso l’uscita dall’euro e non ha menzionato soluzioni innovative quali la Moneta Fiscale. Ha parlato di rispetto del vincolo del 3% (riguardo al rapporto deficit pubblico / PIL), da interpretarsi però “in maniera flessibile”.

Che cosa significa ? una prima considerazione: la UE richiede che l’Italia continui a ridurre il rapporto deficit pubblico / PIL, ma con riferimento al cosiddetto “deficit strutturale”.

Il “deficit strutturale” è quello che si registrerebbe se il mercato del lavoro e il PIL del paese fossero in condizioni di “normalità”: se non esistessero, in altri termini, abnormi livelli di disoccupazione, sottoccupazione e output gap.

Questi livelli abnormi in realtà esistono, ma la UE li sottostima – è del resto anche la posizione sostenuta, senza successo, dall’attuale ministro dell’economia, Piercarlo Padoan. La UE nega che l’output gap sia molto elevato e giustifica la sua posizione, almeno in parte, constatando che in Italia esiste un elevato numero di persone che non cercano lavoro – pur essendo in condizione di svolgerne uno.

In realtà gli “inattivi scoraggiati” sono tali semplicemente in quanto la domanda interna è troppo debole perché la ricerca di un posto di lavoro, per un’ampia platea di cittadini, possa avere successo. Il che genera uno dei tanti circoli viziosi che caratterizzano l’Eurosistema: la domanda debole aumenta il numero dei (potenziali) lavoratori che non cercano lavoro; la UE riduce le stime della forza lavoro e quindi anche del PIL potenziale; aumenta, di conseguenza, la quota dell’attuale deficit pubblico considerata “strutturale” (e non congiunturale) e si riduce lo spazio per politiche espansive.

Qui entra in gioco la proposta M5S di introdurre un “reddito di cittadinanza”. Il RdC è condizionato alla ricerca attiva di un posto di lavoro, quindi un ampio numero di “scoraggiati”, nel momento in cui la riforma verrà avviata, non sarebbero più da considerare tali. Richiedere e percepire il RdC equivale infatti a dichiararsi “attivamente alla ricerca di un posto di lavoro”.

Questo implica la revisione al rialzo del PIL potenziale e giustifica che l’attuale deficit pubblico abbia spazi di espansione.

Va ricordato che si continua a menzionare il “limite del 3%”, ma la previsione 2018 per l’Italia è decisamente inferiore – deficit pubblico / PIL pari all’1,6%. Se la revisione del PIL potenziale venisse accettata in misura sufficiente a innalzare il deficit effettivo al 3%, lo spazio per una manovra espansiva sarebbe l’1,4% del PIL. Il che corrisponde all’1,4% di oltre 1.700, ovvero circa 25 miliardi.

Non pochissimi. E i 25 miliardi sono in realtà una stima per difetto, perché non tengono conto che l’azione espansiva comincia subito a generare maggior PIL e maggior gettito. Per cui l’immissione di domanda nell’economia reale comincia subito – almeno in parte – ad autofinanziarsi.

Funzionerà ? il dogmatismo ottuso fin qui dimostrato, in ogni occasione possibile, dalla UE non mi rende ottimista. D’altra parte il Sole 24Ore è decisamente schierato nel campo pro-UE, per cui si può anche ipotizzare che qualche verifica con Bruxelles l’autrice dell’articolo l’abbia effettuata, percependo un atteggiamento più collaborativo del consueto.

Detto ciò, ci credo se lo tocco con mano… sempre, beninteso, che il governo a trazione M5S veda la luce.

E fermo restando che è comunque una soluzione indiretta e parziale rispetto ad altre. Che, in presenza di una volontà politica forte e coesa, sarebbero percorribili fin da subito.


ADDENDUM: poco dopo aver pubblicato il post che state leggendo, sono venuto a conoscenza di questo intervento del ministro del lavoro designato M5S, Pasquale Tridico. Si parla di 19 miliardi e non di 25, ma la linea è confermata: alzare il deficit effettivo (pur rimanendo sotto il 3%) con la motivazione che il reddito di cittadinanza trasforma un milioni di "scoraggiati" in persone attivamente alla ricerca d'impiego.


venerdì 9 marzo 2018

Moneta Fiscale: la crisi di nervi dell'establishment


Interessanti considerazioni di Wolfgang Munchau (primo articolo tra quelli pubblicati in data 6.3.2018, qui):

“La nostra lettura del dibattito economico in Italia è che esiste un crescente supporto tra gli economisti radicali – quelli che sostengono M5S e Lega – a favore di un regime di moneta parallela, del tipo che Tsipras ha respinto per la Grecia. Prenderebbe la forma di titoli al portatore, emessi dal governo, utilizzabili per liquidare obbligazioni d’imposta. Questi strumenti sarebbero immediatamente accettati come equivalenti della moneta”.

E poco sopra:

“Il vero pericolo di un governo populista in Italia, condotto da partiti che in varie occasioni hanno dato priorità a ipotesi di uscita dall’euro, non è che in effetti attuerebbero questi programmi. Il pericolo è che le loro politiche produrrebbero questo risultato di nascosto”.

Bene, ho trovato una definizione con la quale etichettarmi. Siccome sviluppo e promuovo da anni il progetto CCF – insieme, appunto, a una crescente schiera di studiosi e ricercatori – secondo Munchau posso essere definito un “economista radicale”. A dire il vero io mi ritengo solo una persona che argomenta e propone cose che gli appaiono minimamente sensate. E in quale senso siano proposte “radicali”, mi sfugge.

Ma il punto è un altro. L’establishment europeista è terrorizzato dalla Moneta Fiscale non perché teme che non funzionerebbe (i tentativi di argomentare il contrario oscillano tra il risibile e il tragicomico).

L’establishment è terrorizzato perché vede la Moneta Fiscale come un ponte verso la rottura dell’euro.

E’ così difficile – mi chiedo – spiegare che se le disfunzioni dell’eurosistema vengono risolte, forzare il breakup non è più sensato né utile per nessuno ? Anche perché le difficoltà tecniche, operative e politiche di attuarlo resterebbero notevolissime, per quanto attenuate dal fatto che una forma di moneta nazionale sta già circolando.

Tra i vari punti problematici, cito solo le turbolenze di mercato, la necessità di procedere in segretezza, i problemi giuridici connessi alla ridefinizione dei contratti, la difficoltà di assemblare la necessaria maggioranza parlamentare.

D’altra parte, l’unico modo per rendere stabile nel tempo un sistema di governance economico-monetaria è risolverne le inefficienze. E le inefficienze dell’eurosistema sono spaventose e stanno producendo, in particolare al nostro paese, danni di dimensione ciclopica.

Nessuno si sveglia la mattina pensando a come modificare il sistema monetario e la connessa governance dell’economia – se il sistema funziona in modo normale e accettabile.

La moneta è come l’aria. Te ne accorgi solo quando manca, o quando è viziata al limite dell’irrespirabile.

Ma se il sistema è “viziato ai limite dell’irrespirabile” – e oggi lo è – pensare di andare avanti senza modificarlo (e senza idee chiare e corrette sul come) è peggio che irresponsabile. E’ folle.

martedì 6 marzo 2018

Aggiornamento: la crisi di domanda dell'economia italiana


Due giorni dopo le elezioni e in attesa che si capisca quale governo si formerà, un aggiornamento sul tema “crisi di domanda”. I dati sono analoghi a quelli che avevo già commentato qui e qui, rinfrescati in quanto l’Istat ha da poco reso disponibili i consuntivi preliminari 2017.

Il nocciolo della questione è molto semplice e sta in questi pochi numeri.

2017 vs 2007 a euro costanti 2017 - Dati 2007 inflazionati in base al deflatore del PIL

2007
2017
Variazione
Variazione %
PIL
1.816
1.716
-100
-5,5%
Consumi
1.420
1.367
-52
-3,7%
Investimenti
392
319
-73
-18,5%
Export
498
537
39
7,8%
Import
505
485
-20
-4,0%

Dieci anni dopo (un’eternità di tempo…) il PIL reale italiano è ancora inferiore di 100 (cento !) miliardi al massimo storico raggiunto nel 2007. Il 5,5% in meno.

Questa caduta (che negli ultimi tre anni è stata in qualche misura recuperata, ma con esasperante, inaccettabile lentezza) è all’origine di 52 miliardi di consumi e di 73 miliardi di investimenti in meno.

Il governo uscente ha menato vanto, soprattutto durante la campagna elettorale, dei risultati ottenuti dalle aziende italiani sui mercati esteri. E l’export in effetti è l’unica voce positiva: 39 miliardi in più, pari al +7,8%. Insieme alla caduta delle importazioni (generata dalla minore domanda interna) ciò ha portato il saldo commerciale estero da un leggero deficit (-7 miliardi nel 2007) a un forte attivo (+52).

Per la verità +7,8% in dieci anni non è esattamente una prestazione eclatante. La media è un +0,75% annuo di crescita reale delle esportazioni. Però considerato che in mezzo ci sono state la crisi finanziaria mondiale del 2008, l’acme dell’eurocrisi nel 2011-2012, e tutti i problemi connessi all’impiego di una moneta sopravvalutata per l’Italia (l’euro), il risultato dimostra, banalmente, quanto segue.

In Italia non manca la capacità di fare impresa. Non è venuta meno l’attitudine delle aziende italiane a concepire prodotti innovativi e qualitativi, né a commercializzarli con successo sui mercati di tutto il mondo.

A una semplice condizione. Che sui mercati ci sia capacità di spesa, quindi domanda potenziale. Senza, il prodotto più innovativo, bello e utile dell’universo non si vende – ovviamente.

Il 7,8% di crescita in dieci anni non è chissà che. Ma se questa modestissima crescita fosse stata conseguita non solo per l’export ma per il PIL nel suo complesso, il PIL italiano 2017 sarebbe stato pari a 1.958 miliardi. Un “piccolo” delta di 241, oltre il 14%, rispetto al dato effettivo.

Si tratta di 4.000 euro di reddito medio procapite, 16.000 per una famiglia di quattro persone. All’anno, per ogni anno. Semplicemente ripristinando all’interno dell’economia italiana il potere d’acquisto che è stato scelleratamente distrutto da chi pensava che quella fosse la via corretta per conseguire il risanamento finanziario dei conti pubblici e del paese.

Immettere domanda in un sistema economico le cui risorse produttive – persone e aziende – sono fortemente sottoutilizzate non è, tecnicamente, difficile. Perché non è indispensabile rompere l’unione monetaria, e neanche incrementare il debito (quello vero, da rimborsare in moneta straniera).

Il PD non l’ha voluto fare, e le conseguenze elettorali si sono viste.

Sta al prossimo governo percorrere altre vie.


venerdì 2 marzo 2018

Mulini e panetterie, ovvero: mandare a zero i saldi Target2


Nel dibattito sul funzionamento (e sulle disfunzioni) dell’Eurosistema, i saldi Target2 sono uno degli oggetti più misteriosi e peggio compresi, in particolare da quando, ormai più di un anno fa, Mario Draghi ha dichiarato che in caso di fuoriuscita di un paese, i crediti e le passività della sua Banca Centrale Nazionale (BCN) nei confronti della BCE andrebbero “regolati integralmente”.

Questa affermazione è stata, da molti, interpretata nel senso che si tratterebbe di una somma da pagare nel caso in cui un paese con un saldo netto passivo decidesse di uscire dall’euro. Una specie di “riscatto da pagare” in altri termini – o più prosaicamente, un debito da estinguere: che per l’Italia ammonterebbe oggi a oltre 400 miliardi.

Sull’argomento ho già scritto in passato, ma mi sembra utile sintetizzarne il nocciolo.

In realtà considerare il saldo passivo Target2 un debito è alquanto improprio, in quanto non esiste alcun impegno contrattuale a fronte del quale sia stato erogato un finanziamento e sia quindi insorto un rapporto creditizio.

I saldi Target2 esistono perché le bilance dei pagamenti dei vari paesi dell’Eurozona possono essere positive o negative: alcuni paesi incassano più dei loro esborsi, altri viceversa. Incassi ed esborsi includono le vendite e gli acquisti di beni e servizi verso l’estero (quindi le esportazioni e le importazioni) ma anche i movimenti di capitale (assunzione di finanziamenti dall’estero e investimenti esteri ricevuti, al netto di finanziamenti erogati all’estero e investimenti effettuati fuori dal territorio nazionale).

Poiché l’Eurosistema è un’unione monetaria, quando la bilancia dei pagamenti complessiva è attiva, il paese (o più esattamente la sua BCN) incrementa i suoi saldi attivi netti presso la BCE. Nel caso contrario, crescono invece i saldi passivi netti.

Questi saldi (i saldi Target2, appunto) sono una regolazione contabile. Non esiste un contratto di deposito della BCN che ha saldi attivi presso la BCE, né un contratto di finanziamento a fronte dei quali la BCN “passiva” ha ricevuto fondi dalla BCE.

Draghi ha dichiarato che i saldi devono essere “regolati integralmente” se un paese abbandona l’Eurosistema, ma questo non può avvenire estinguendo un deposito o restituendo un finanziamento, perché sotto il profilo giuridico e contrattuale non esistono né depositi né finanziamenti.

Come potrebbe avvenire, quindi, la regolazione ?

Immaginiamo due imprese che hanno regolari transazioni commerciali, una con l’altra, e nei due sensi. Ad esempio: un mugnaio produce farina e la vende al panettiere. Poi si reca in panetteria, e compra il pane.

Per praticità, mugnaio e panettiere hanno convenuto che, invece di regolare in contanti le transazioni, le segnano a credito / debito. Ognuno dei due compra il prodotto dell’altro al prezzo del listino; il compratore decrementa il saldo netto e il venditore lo incrementa.

Poi, per qualche motivo, si decide di mettere fine a questo meccanismo. Però le transazioni commerciali continuano: il mugnaio continua a vendere farina al panettiere e a comprare il pane.

Il mugnaio ha un saldo passivo di mille euro. Ma non esiste un contratto di finanziamento – il panettiere in effetti non gli ha mai prestato soldi. Ha semplicemente venduto più pane (in valore) della farina che ha acquistato. Il panettiere non ha un titolo giuridico per richiedere il pagamento in contanti dei mille euro.

Come si procede allora ?

Semplicemente, il panettiere ha diritto di continuare gli acquisti di farina, scalando il corrispettivo dal saldo attivo, fino a portarlo a zero. Mentre il mugnaio potrà continuare a comprare pane, ma pagandolo in contanti, non più movimentando il conto.

Quando poi il conto sarà arrivato a zero, le transazioni commerciali potranno tranquillamente continuare, ma sempre con corrispettivo in contanti (da entrambi i lati).

Analogamente, se l’Italia lascia l’Eurozona, continuerà ad avere interscambi di beni, servizi e attività finanziarie con i paesi che continuano a far parte dell’unione monetaria. Ma mentre gli stati la cui BCN ha un saldo attivo nei confronti della BCE potranno utilizzarli per effettuare i loro acquisti in Italia (fino all’azzeramento del saldo), l’Italia dovrà comprare la valuta necessaria per effettuare i suoi acquisti (salvo che vengano accettati pagamenti in Nuove Lire).

Tutto qui.

Tenuto conto che le esportazioni italiane di beni e servizi ammontano a oltre 500 miliardi annui, in larga misura verso altri paesi dell’Eurozona, e che costantemente si verificano investimenti finanziari esteri verso l’Italia, l’azzeramento di un saldo passivo di 400 miliardi circa non richiederà tempi molto lunghi. Probabilmente qualcosa tipo un anno, poco più o poco meno.


giovedì 1 marzo 2018

Milano, sabato 10 marzo 2018, ore 14

Intervengo con una relazione sulla Moneta Fiscale a questo ciclo di incontri presso il circolo ARCI Bellezza di Milano (Via Giovanni Bellezza 16).

Diversamente da quanto comunicato in precedenza, il mio intervento avverrà nell'ambito di una "mini"-tavola rotonda con Chiara Zoccarato e Marcello Spanò (in funzione di moderatore), che inizierà alle ore 14 (non 17).

Nel frattempo vediamo come saranno andate le elezioni. Perché di Moneta Fiscale e varianti sul tema si parlerà, credo e spero, parecchio, dopo il 4 marzo...

Tra parentesi consiglio vivamente a tutti l'intero ciclo, contenuti e relatori mi sembrano veramente interessanti.