domenica 26 agosto 2018

Alleanze nell'Eurozona: perchè sono scettico


Mia figlia ha appena terminato il primo anno di liceo, ed è una ragazza molto motivata e scrupolosa nello studio (sicuramente più di quanto lo fossi io alla sua età…).

Qualche mese fa ho quindi passato diverse serate a fare da “cassa di risonanza” dei suoi ripassi in vista delle interrogazioni di fine anno.

Una in particolare, a cui teneva molto, riguardava la storia romana del periodo monarchico e repubblicano (fino alle Guerre Puniche).

Lei esponeva, io ero incaricato di fare domande… infinite ripetizioni, alla fine anche le gatte di casa sapevano tutto delle guerre tarantine e dell’assedio di Sagunto.

Una cosa che mi ha colpito – una quarantina d’anni fa l’avevano raccontata anche a me, immagino, ma nel frattempo me l’ero abbondantemente scordata – è la descrizione della strategia politica romana nel periodo in cui Roma era ancora una città-stato, in posizione di predominio rispetto ai suoi “confederati” (che però non erano ancora stati trasformati in province).

La strategia aveva come punto essenziale, molto semplicemente, quello di trattare abbastanza bene qualcuno, e molto male qualcun altro.

E’ il ben noto principio del divide et impera. Differenziando i trattamenti, eviti che i tuoi “confederati” (nella sostanza, in effetti, tuoi subordinati) si alleino ai tuoi danni.

La posizione della UE nei confronti degli Stati europei, nel corso dell’eurocrisi, ha seguito lo stesso principio. Si spiega così, ad esempio, la rigidità applicata ad alcuni paesi (Italia, Grecia) e niente affatto ad altri (Francia, Spagna) riguardo ai limiti di deficit pubblico.

Per questo sono scettico quando si parla di alleanze con altri paesi dell’Eurozona che l’Italia dovrebbe costruire per spingere alla revisione delle regole di funzionamento.

Le alleanze non si formano, e la ragione è che il divide et impera continua a essere applicato. Gli spagnoli (per esempio), trattati meglio degli italiani, eviteranno di entrare in un fronte comune di opposizione.

L’Italia deve contare su sé stessa. La sua dimensione politica ed economica gli dà tutto il peso necessario. I punti chiave sono non sono le alleanze all’interno dell’Eurozona, ma altri due.

Un sufficiente livello di coesione interna, che nasce dalla determinazione a dare priorità agli interessi generali del paese.

E la capacità di disegnare un percorso di revisione efficace e non deflagrante dei meccanismi di funzionamento dell’Eurozona. Qui entra in gioco la validità tecnica di proposte come la Moneta Fiscale.

Quanto alle alleanze esterne, l’unica sponda che potrebbe essere decisiva nello spostare gli equilibri è quella USA (pura fantasia è che possano giocare un qualche ruolo Cina e Russia).

Alcune voci al riguardo sono uscite di recente, ma non ho nessuna idea in merito alla loro affidabilità. In ogni caso, non serve che gli USA “comprino debito italiano”. Molto più plausibile e utile sarebbe che esprimessero una valutazione positiva – è sufficiente a parole – in merito alla capacità della Moneta Fiscale / CCF di produrre la soluzione della crisi senza alcuna destabilizzazione nè deflagrazione.


martedì 21 agosto 2018

Investimenti pubblici, ma non solo


Le più recenti dichiarazioni di vari esponenti del governo confermano l’intenzione di puntare su un rafforzamento degli investimenti pubblici per ottenere un rilevante effetto espansivo e portare la crescita economica 2019 almeno al 2%.

Lo si era già detto qui: è il livello minimo perché si possa affermare che è stata ottenuta una significativa discontinuità rispetto al recente passato. Per inciso, basterebbe un'applicazione anche solo parziale del progetto CCF per arrivare senza problemi al 3%.

Anche in assenza di CCF, ad ogni modo, alcune leve di azione possibili sono state indicate dal Ministro Tria, che ha citato 118 miliardi di investimenti già approvati in passato, che sono già stati computati nei deficit pubblici degli anni scorsi, ma che non sono stati attuati per problemi operativi e legali (ad esempio le normative – da rivedere – che costringono gli enti pubblici territoriali, quali comuni e regioni, a investire solo l’avanzo di cassa dell’anno, quando spesso hanno liquidità accumulata negli anni precedenti).

Basta sbloccare solo una parte minore di quegli importi per ottenere un effetto significativo sulla crescita reale del PIL.

Il Ministro Savona ha da parte sua indicato che varie società partecipate dallo Stato – Terna, Leonardo, ENI, ENEL – hanno importanti programmi di investimenti, che daranno un ulteriore contributo se arriveranno a livelli superiori a quelli del 2018 – e, va ricordato, se verranno attuati utilizzando strutture organizzative e fornitori localizzati in Italia.

La terribile sciagura del Ponte Morandi di Genova rafforza senz’altro la sensibilità della pubblica opinione a favore dell’urgenza di investire su infrastrutture, manutenzione e sicurezza. Anche rivedendo e ripensando il sistema delle concessioni di pubblici servizi e imponendo (de minimis) ai concessionari vincoli molto più stringenti degli attuali.

Due annotazioni, però. Benissimo rilanciare gli investimenti pubblici (nel senso più ampio del termine, quindi incluse le partecipate statali e i concessionari). Ce n’è la necessità, anzi l’urgenza, e per incrementare lo sviluppo del PIL sono molto efficaci. Non dimentichiamo però che, presa la decisione politica, vanno anche valutati i vincoli operativi. Spesso non è banale, sul piano strettamente pratico ed esecutivo, avviare un investimento anche quando ce ne sono mezzi e volontà.

In secondo luogo: l’opinione pubblica si sta, un po’ alla volta, liberando da dicotomie errate – deficit brutto / pareggio di bilancio bello; pubblico brutto / privato bello. Ma attenzione a non ricadere in una nuova contrapposizione, altrettanto errata: spesa corrente brutta / investimento bello. Contrapposizione che sento menzionare (come fosse una verità evidente) un po’ troppo spesso negli ultimi tempi.

La spesa pubblica corrente non ha nulla che la debba far considerare negativa a priori. Anzi: spesa pubblica corrente è anche quella necessaria a dotare delle strutture adeguate (personale e organizzazione) la sanità, le scuole, la pubblica sicurezza, i vigili del fuoco, la tutela del territorio e molte altre cose.

Se oggi risulta più facile far ripartire la crescita facendo leva sugli investimenti, benissimo. Ma il più rapidamente possibile, vanno creati i presupposti per irrobustire, invertendo le demenziali politiche di tagli che ci affliggono da molti anni, anche la spesa pubblica corrente nei molti settori in cui il paese ne ha grandissimo bisogno.


lunedì 13 agosto 2018

Turchia


Molti commentatori economici “antisovranisti” stanno utilizzando la crisi turca per contrastare la tesi secondo la quale è (di gran lunga) preferibile emettere e gestire la propria moneta nazionale.

La Turchia sta attraversando forti tensioni finanziarie e la lira turca si sta rapidamente svalutando. Meglio quindi essere nell’Eurosistema, “che ci protegge da questo tipo di problemi" ?

No, proprio per niente. I problemi della Turchia nascono da un eccesso di indebitamento in valuta estera, contratto durante i recenti anni di forte crescita economica, domanda interna effervescente e alti deficit commerciali.

Questi eccessi sono la prova delle difficoltà che possono nascere dalla libera e deregolamentata circolazione di capitali: uno dei principi basilari dell’Eurosistema, in effetti.

Indebitarsi in moneta estera è certamente un rischio. Usare l’euro al posto della propria moneta nazionale lo evita ? al contrario. Se si usa l’euro e si cessa di emettere la propria moneta, TUTTI i debiti – pubblici e privati – diventano debiti in moneta estera.

E infatti la crisi dei PIGS, nell’ambito dell’Eurosistema, si è venuta a creare nel 2009-2012 a causa di un eccesso di indebitamento estero, soprattutto privato, contratto per finanziare deficit commerciali (nel caso di Spagna, Portogallo e Grecia) o a causa di movimenti finanziari speculativi (Irlanda) o di bolle immobiliari (Spagna e Irlanda). Problemi in larga misura analoghi a quelli attuali della Turchia.

Tra l’altro la Turchia ha un rapporto debito pubblico / PIL molto basso (40% circa), su livelli simili a quelli di Spagna e Irlanda all’inizio della crisi: prova che i “conti pubblici in ordine” non evitano l’instabilità finanziaria.

Se c’è una cosa che la crisi turca, una volta di più, dimostra è che i mercati sono spesso inaffidabili nella loro valutazione di breve-medio termine riguardo all’affidabilità di un paese. E che è quindi potenzialmente catastrofico infilarsi in una situazione dove i mercati diventano il giudice supremo della “credibilità” dei paesi stessi – come è invece costretto a fare chi (i paesi dell’Eurozona) raccoglie debito (in particolare debito PUBBLICO) denominato in una moneta che non emette.

Che cosa avrebbe dovuto fare di diverso, la Turchia ? gestire il suo sviluppo economico con maggiore attenzione ai saldi commerciali esteri e regolare gli afflussi di capitale in valuta, limitando in particolare quelli che non davano solide garanzie di essere utilizzati per espandere produzione locale, in parte destinabile alle esportazioni.

Sento dire: i finanziamenti non sarebbero arrivati se non in valuta estera, perché della lira turca non ci si fidava. Probabile, o quantomeno non nella stessa misura. Questa però è un'ulteriore prova della scarsa capacità di valutazione dei “mercati”: non gli va bene prendersi un rischio di svalutazione e però invece accettano un rischio di default… (o magari contano sul fatto che arriverà a tempo debito un Fondo Monetario Internazionale o una Troika a limitargli i danni e a far pagare il conto alle popolazioni locali…).

Ma comunque, con meno finanziamenti esteri in valuta sarebbero arrivati quelli meglio in grado di rientrare grazie a flussi di export futuri, e meno di quelli a sostegno dei consumi o della speculazione immobiliare. Crescita meno rapida, quindi, ma più equilibrata.

Che cosa può fare la Turchia, adesso ? come argomenta Krugman qui, prendere esempio da chi nel recente passato ha avuto problemi analoghi ed è stato in grado di uscirne: la Malesia nel 1998, l’Islanda nel 2009, l’Argentina nei primi anni dopo la crisi del 2001.

Nelle parole di Krugman, per un periodo transitorio “interrompere l’esplosione del rapporto d’indebitamento con una qualche combinazione di controlli temporanei sui capitali, per creare un coprifuoco sulle fuoriuscite “da panico”, ed eventualmente ripudiare una parte del debito in valuta estera”.

Tutte cose che un paese appartenente all’Eurosistema, ovviamente, non ha l’autonomia di mettere in atto.

La sovranità monetaria non evita QUALSIASI problema. Questa ovviamente non è la tesi. E’ sempre possibile, anche avendo la propria moneta, cedere alle lusinghe di chi, nelle fasi di euforia, offre credito facile in moneta estera. Ma i problemi attuali della Turchia non sarebbero stati evitati affatto usando l’euro. Al contrario, sarebbero scoppiati molti anni fa, come nel caso dei PIGS, e sarebbero poi stati ancora più difficili da risolvere.

La sovranità monetaria non evita e non risolve qualsiasi problema, ma fornisce delle leve di azione che avrebbero evitato all’Italia i problemi attuali, e gli darebbero gli strumenti per risolverli oggi.

Mantenendo il suo debito pubblico in lire, l’Italia non avrebbe avuto, nel 2011, alcuna crisi dello spread. E oggi potrebbe tranquillamente immettere nell’economia il potere d’acquisto necessario a rilanciare la domanda interna, nonché migliorare la propria competitività senza passare da lunghi e dolorosi processi di deflazione salariale.

L’Italia, al contrario della Turchia e degli altri PIGS, non ha mai avuto alti deficit commerciali né una posizione finanziaria netta sull’estero (“NIIP”) fortemente passiva. Nel 2017 in realtà i saldi commerciali esteri sono stati in surplus per oltre 50 miliardi. La NIIP è oggi negativa ma solo per l’8% del PIL circa.

L’Italia non ha bisogno di capitali esteri per tornare a crescere. Sono i vincoli dell’Eurosistema che generano, artificialmente, costrizioni il cui superamento è indispensabile per uscire, finalmente, dalla depressione economica.


mercoledì 8 agosto 2018

Come arrivare al 3% di crescita


L’ultimo aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, elaborato a cura dell’allora ministro Padoan nell’aprile scorso, riportava un’ipotesi 2019 “tendenziale” (cioè a legislazione invariata) di crescita del PIL reale dell’1,4%, e di deficit / PIL dello 0,8%.

Nel frattempo però la congiuntura europea si è raffreddata e tutte le principali economie del continente sono in rallentamento. Vedremo le nuove previsioni del Ministero dell’Economia a settembre-ottobre, ma proprio oggi alcune dichiarazioni del Ministro Tria citavano (sempre a legislazione invariata) una crescita 2019 all’1% e un deficit dell’1,2%.

Claudio Borghi pochi giorni fa scriveva su Twitter che, in assenza di vincoli dovuti alle interlocuzioni con la UE e alle turbolenze dei mercati finanziari, punterebbe a un deficit / PIL del 3%.

Supponiamo che si convenga, alla fine, di approvare una legge di bilancio 2019 che preveda un impulso fiscale (maggiori spese e/o minori tasse) positivo per un punto di PIL, corrispondente a circa 18 miliardi.

Stimando (prudenzialmente) un moltiplicatore fiscale di 1x, l’accelerazione della crescita sarebbe anch’essa dell’1%. Quasi metà dell'impulso fiscale verrebbe recuperato (ai fini del deficit pubblico) mediante maggiori incassi della pubblica amministrazione (visto che la pressione fiscale complessiva è, in Italia, di poco inferiore al 50%). Diciamo uno 0,4%. Il deficit / PIL aumenterebbe quindi dello 0,6%.

Avremmo quindi una crescita del 2% con un deficit dell’1,8%.

Come ottenere un maggior impulso fiscale, come (giustamente) desidera Borghi, e di conseguenza una crescita significativamente superiore ?

Introducendo nell’economia Moneta Fiscale (CCF o Minibot – ma nella misura in cui si trattasse di Minibot, emessi fiat con valenza espansiva, non a compensazione di crediti già esistenti: altrimenti l’effetto sulla crescita del PIL è molto più basso dell’importo facciale, come si spiegava qui) per un ulteriore punto di PIL: altri 18 miliardi.

Una parte dell’azione espansiva può essere destinata a ridurre il cuneo fiscale a beneficio delle imprese. Questo ridurrebbe il costo del lavoro lordo (senza però penalizzare i redditi netti dei lavoratori) ed eviterebbe che l’accelerazione dell’economia peggiori i saldi commerciali esteri.

La Moneta Fiscale non è debito pubblico. Avremmo un punto di ulteriore maggior crescita del PIL e un calo dello 0,4% nel deficit / PIL, dovuto al maggior gettito prodotto dall’incremento del PIL.

La crescita del PIL reale 2019 sarebbe quindi pari al 3%, e il deficit / PIL si assesterebbe all’1,4%.

Un 2019 così sarebbe un vero punto di svolta per l’economia italiana.

Si potrebbe fare ancora meglio (dal punto di vista del deficit) utilizzando Moneta Fiscale per l’intero importo (e non solo per una parte) della manovra espansiva totale.

Questo risultato però, dal punto di vista politico, è probabilmente più difficile da ottenere, in quanto la Moneta Fiscale è uno strumento innovativo, il che potrebbe (per motivi più psicologici che razionali) indurre – almeno per il primo anno – a non utilizzarla nella misura massima possibile.

In ogni caso, a costo di ripetere cose ovvie, mi preme ribadire che la legge di bilancio 2019 è un passaggio assolutamente chiave per il successo del governo in carica. Occorre ottenere una decisa accelerazione della crescita economica, e quindi l’avvio di una vera ripresa occupazionale.

Una crescita del 3% del PIL reale per il 2019 può sembrare ambiziosa, ma è invece fattibilissima. Raggiungerla, o quantomeno arrivarci molto vicini, uscendo dal tunnel degli zero virgola e degli uno virgola, è, per il governo in carica, la linea di demarcazione tra il successo e l’insuccesso.


lunedì 6 agosto 2018

CCF: eppure non è complicato


se si studia la proposta con attenzione:

Introdurre i Certificati di Credito Fiscale (CCF).

Utilizzarli per rilanciare la domanda interna e migliorare la competitività delle imprese.

Privilegiare investimenti pubblici, rilancio del pubblico impiego, sostegno alle fasce sociali deboli, riduzione del cuneo fiscale a beneficio delle imprese.

Proseguire fino a che si riassorbe tutta la disoccupazione e la sottoccupazione prodotta dalla crisi (se non si va oltre, non si innesca inflazione eccessiva).

La riduzione del cuneo fiscale massimizza l’impatto dell’azione espansiva perché evita peggioramenti nei saldi commerciali esteri.

Bloccare una volta per tutte l’incremento del debito pubblico da rimborsare in euro (il debito vero, il Maastricht Debt).

I CCF possono essere introdotti in congiunzione con un sistema di clausole di salvaguardia che evita qualsiasi possibile obiezione in merito all’assenza di coperture.

L’ammontare dei CCF utilizzabili per sconti fiscali resterà sempre e comunque una modesta frazione degli incassi lordi del settore pubblico.

CCF possono anche essere emessi per rifinanziare debito pubblico via via che giunge a scadenza, riducendo progressivamente le passività su cui lo Stato può essere forzato al default.

Non c’è violazione di alcun trattato o regolamento UE.

Non c’è nessuna richiesta di risorse finanziarie supplementari al mercato dei capitali.

La presenza dell’Italia nell’Eurosistema sotto queste condizioni è stabile e sostenibile.