giovedì 1 febbraio 2018

Il mercato deve disciplinare la finanza pubblica ? no


C’è un problema molto serio sul piano teorico, e molto grave riguardo alle sue conseguenze pratiche, nell’affermazione che occorre lasciare al mercato la disciplina della spesa pubblica, della tassazione, del deficit e del debito pubblico.

E’ una proposta che può suonare convincente. Che cosa c’è di meglio di affidare a operatori indipendenti la valutazione delle finanze statali ? è il sistema di controllo più efficace per evitare, o quantomeno per mantenere sotto controllo, eccessi e utilizzi impropri dei soldi pubblici, vero ? lo Stato che si gestisce male subisce un’immediata penalizzazione che limita la capacità di politici disonesti, incompetenti e spreconi di fare danni ai propri cittadini, giusto ?

No, non è giusto. Proprio per niente. Per vari motivi.

In primo luogo, perché il presupposto implicito è che il mercato allochi in maniera efficiente le risorse e valuti con correttezza e precisione il merito di credito e/o il rischio di un determinato investimento – sempre e comunque.

Su un arco di tempo lungo, questo è vero. Ma si parla di svariati anni. Sul breve termine, no.

“In the long run, the market is a weighing machine. In the short run, it’s a voting machine” – per citare Benjamin Graham (grande investitore teorico e pratico, nonché maestro di Warren Buffett).

Prendiamo ad esempio il cambio euro – dollaro. Come si determina un valore “corretto” nel lungo termine ? un sistema semplice, e probabilmente affidabile almeno quanto qualsiasi altro, è calcolare la media dei cambi dal momento in cui l’euro è stato introdotto.

Abbiamo a disposizione una serie storica di 19 anni, dal 1999 al 2017. La media generale è poco sopra 1,20 (1,2082 per la precisione).

Andiamo ora a vedere le medie dei singoli anni. La situazione che si presenta è questa:


1999
1,0661
2000
0,9235
2001
0,8960
2002
0,9425
2003
1,1341
2004
1,2441
2005
1,2464
2006
1,2563
2007
1,3704
2008
1,4714
2009
1,3945
2010
1,3274
2011
1,3927
2012
1,2857
2013
1,3285
2014
1,3292
2015
1,1097
2016
1,1066
2017
1,1301


Stimare in 1,20 circa il valore “mediamente corretto” è sensato. Ma è un valore intorno al quale si sono registrate ampie oscillazioni. I primi cinque anni – dal 1999 al 2003 – sotto. Poi undici anni consecutivi sopra. Poi ancora tre anni sotto.

A partire dal 2004 sarebbe stato plausibile affermare che l’euro si era rafforzato troppo, e quindi che era raccomandabile vendere euro e comprare dollari. E questa strategia alla fine si sarebbe anche rivelata corretta. Ma non nell’arco di un mese o di un trimestre. Dopo undici anni…

Per inciso, questo non significa che le sotto- e le sopravvalutazioni possano raggiungere livelli grandi a piacere. Come si vede dalla serie storica, rispetto al plausibile valore di equilibrio di 1,20 circa, le oscillazioni delle medie annue sono state tra 0,90 (nel 2001) e 1,47 (nel 2008). I massimi e minimi assoluti del dollaro rispetto all’euro hanno toccato (per un singolo giorno) rispettivamente 0,82 e 1,60. Le oscillazioni sono quindi state nell’ordine di +/- 30%: poi i valori fondamentali hanno ripreso il sopravvento e si è verificata la mean reversion, il ritorno verso la media.

Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per le quotazioni dell’indice di borsa. C’è un trend, e ci sono delle oscillazioni: gli eccessi in un senso o nell’altro rientrano verso il trend, certamente. Ma non necessariamente in periodi di tempo brevi. Anzi, la correzione è un evento sicuro: ma solo se l’orizzonte dell’analisi è pluriennale. E non parliamo di un paio d’anni, ma da dieci in su – se vogliamo avere delle certezze, o quantomeno dei gradi molto elevati di probabilità.

Se poi prendiamo in considerazione attività ancora più volatili e speculative, la tendenza “oscillatoria” dei valori di mercato diventa naturalmente molto più esasperata. Un bitcoin valeva 1.000 dollari un anno fa, 19.000 a dicembre scorso, e meno di 10.000 oggi.

L’implicazione è che prendendo per “razionale e corretto” il comportamento di breve termine del mercato, si finisce con l’agire in modo prociclico – comprando a valori alti e vendendo a valori bassi. La ricetta più sicura per rovinarsi.

Che cosa ha a che vedere tutto questo con la gestione del debito pubblico ?

Molto semplice: anche la valutazione dei titoli di Stato è soggetta a mode, manie speculative e oscillazioni intorno a un trend. Il trend ha un senso, le oscillazioni di breve termine no. Ma se prendo decisioni di politica economica sulla base delle oscillazioni di breve termine, commetto lo stesso errore dell’investitore sopra descritto: agisco in maniera prociclica.

E’ esattamente quanto accaduto con la crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona: si sono “prescritte” a vari paesi azioni di finanza pubblica restrittive (più tasse, tagli di spesa pubblica) perché “il mercato” nella sua “saggezza” e “correttezza” stava richiedendo tassi più alti e abbassava, quindi, il valore dei titoli.

Chi ha seguito queste ricette ha ottenuto soltanto di aggravare drammaticamente una situazione economica che si stava a fatica riprendendo dagli effetti della crisi finanziaria mondiale del 2008. E questo, è doloroso ogni volta constatarlo e ripeterlo, è stato in particolare il caso dell'Italia.

Anche i tassi d’interesse sul debito pubblico possono oscillare per ragioni di breve termine, speculative e infondate. Peggio ancora: nel caso dell’Eurozona, possono scontare (come scontavano nel 2011-2012) un elevato rischio di rottura, con rivalutazione delle monete di alcuni paesi e svalutazione di altre. Tanto è vero che, nonostante una serie di interventi shock sulla finanza pubblica (che all’Italia sono costati tredici trimestri consecutivi di caduta del PIL reale, tra metà 2011 e inizio 2014), i tassi d’interesse sul debito pubblico sono rientrati solo nel momento in cui la BCE ha fornito una garanzia credibile in merito alla sua volontà di intervenire per impedire il break-up dell’euro (il whatever it takes di Draghi, luglio 2012).

Il modo di gran lunga più certo ed efficiente affinché gli stati non si trovino in catastrofiche situazioni di questo genere è proprio quello non di sottoporre i propri meccanismi di finanziamento alla “disciplina di mercato”, ma di sottrarvisi. Perché di questa “disciplina” non ci si può assolutamente fidare come sistema di regolazione e controllo nel breve termine.

Lo Stato del resto, se è emittente di moneta, non ha bisogno del mercato per finanziarsi. Può stamparla e introdurla nell’economia nella misura necessaria – spendendo in eccesso rispetto alla tassazione.

L’eccesso di spesa rispetto alla tassazione rimane in tasca al settore privato sotto forma di risparmio. E lo Stato può offrire un servizio di gestione del risparmio offrendo un impiego sicuro in conti correnti senza rischio, con una remunerazione modesta ma certa: il cosiddetto “debito pubblico” (a cui bisognerebbe, una buona volta, cambiare nome, chiamandolo per esempio “liquidità dei privati presso il ministero dell’economia”…).

Questo significa che i politici devono avere mano totalmente libera nel gestire le politica di spesa e tassazione ? no, devono esistere principi, finalizzati alla piena occupazione e alla stabilità monetaria. Correttamente definiti ed applicati, questi principi definiscono i livelli appropriati di delta tra spesa pubblica e prelievo fiscale.

Ma piena occupazione e stabilità monetaria non significa “compiacere i mercati” e le loro oscillazioni di breve termine.

Tutto ciò è ottenibile se lo Stato emette la propria moneta e se il cosiddetto “debito pubblico” è denominato nella moneta stessa. Nell’Eurozona si è venuta a creare una situazione del tutto differente, e di difficile gestione, perché la potestà di emissione monetaria è stata demandata a un’entità – la BCE – che non risponde a nessuno stato.

Un modo efficiente e rapido per risolvere il problema è fare in modo che ogni stato mantenga in equilibrio, anno per anno, incassi e pagamenti in euro – con la conseguenza che il debito pubblico da rimborsare in euro non aumenti più, neanche di un centesimo (l’obiettivo del Fiscal Compact). Che sotto questa condizione, la BCE garantisca i debiti pubblici (significa, semplicemente, confermare il “whatever it takes”). E che nella misura necessaria, le politiche anticicliche vengano condotte emettendo uno strumento fiscale complementare quale i CCF: un titolo utilizzabile per soddisfare obbligazioni fiscali, senza che lo Stato emittente possa mai essere forzato al default in quanto non c’è impegno al rimborso cash, in euro.

Nessun commento:

Posta un commento