lunedì 29 luglio 2013

Quantitative Easing, di nuovo


Paul Krugman torna sull’argomento, con alcune considerazioni che si collegano a quanto s’era detto qui, e ad altre che potrete leggere nel libro.
 
In sintesi: il Quantitative Easing consiste nell’acquisto, da parte della Banca Centrale, di titoli di Stato e attività finanziarie, per immettere liquidità nell’economia nelle situazioni in cui i tassi d’interesse praticati dalla BC al sistema bancario sono scesi pressoché a zero, ma questo non basta a uscire da una situazione di trappola della liquidità e di depressione.
 
Krugman ha ragione a sostenere che il QE è figlio delle critiche della scuola monetarista di Milton Friedman alle politiche keynesiane. In pratica la posizione monetarista è: la politica fiscale (sostegno alla domanda mediante incremento della spesa o riduzione delle tasse) non è indispensabile e neanche opportuna, la politica monetaria è sufficiente a stabilizzare l'economia.
 
Normalmente una situazione di economia debole si gestisce abbassando i tassi d’interesse da parte della BC; se non è sufficiente ecco che entra in azione il QE. Che quindi svolge le funzioni, per così dire, di una “super-riduzione dei tassi”.
 
In realtà questo non è affatto sufficiente. Per quanto la BC si dia da fare a sostenere il valore di un ampio ventaglio di attività finanziarie, e quindi a ridurre i tassi d’interesse su tutte queste attività, la propensione alla spesa del pubblico (consumatori e aziende) aumenta ben poco perché il clima generale è depresso e pessimistico.
 
Se l’economia è depressa, se c’è un forte livello di disoccupazione, se non si riesce a uscire dalla trappola della liquidità, serve un’azione diretta di sostegno alla domanda.
 
Una cosa, rispetto alle argomentazioni di Krugman, è giusto aggiungerla. Le critiche monetariste alla politiche di sostegno della domanda attuate nel secondo dopoguerra partivano da una constatazione corretta. Per motivi, diciamo così, di “marketing politico”, ci si era appellati a Keynes per promuovere interventi di “deficit spending” in periodi in cui l’economia non era depressa.
 
Questo non è keynesismo. E’ riallocazione della spesa. Se faccio deficit (nel senso che aumento il delta tra spesa e tasse, aumentando la prima o abbassando le seconde) con l’economia in una situazione di domanda e occupazione normale, non ottengo benefici diretti sulla domanda e sul PIL totali.
 
Se finanzio il deficit con moneta, aumenta l’inflazione. Se lo finanzio con debito, aumento i tassi. In un modo o nell’altro, il sostegno alla domanda si vanifica perché “spiazza” altre forme di spesa.
 
Ma i monetaristi, partendo da una critica corretta (la politica fiscale è scarsamente efficace nello stimolare la domanda quando l’economia non è depressa), hanno finito per formulare un’asserzione sbagliata (la politica monetaria è sempre e comunque l’unica che serve).
 
Modeste oscillazioni del ciclo economico possono essere “normalizzate” con aumenti o diminuzioni dei tassi d’interesse, e in generale delle condizioni di accesso al credito (politica monetaria).
 
Ma quando si verifica uno dei rari eventi di depressione economica, di trappola della liquidità, la politica monetaria diventa molto poco efficace, e anche la “super-facilitazione del credito” mediante QE non ottiene gli effetti necessari sulla domanda.
 
Rari eventi, dicevo: gli anni Trenta sono stati un caso, oggi ne abbiamo un altro. E’ questa la situazione a cui si riferiva Keynes. E per uscirne (anche rapidamente) la soluzione rimane quella che proponeva lui: politiche di sostegno della domanda.

venerdì 26 luglio 2013

Il problema è l’offerta ?


No, ma se anche fosse ?
 
Un paio di giorni fa Alberto Bisin ha scritto su Wall Street Italia:
 
“La produttività in Italia è piatta da un decennio. Il paese non cresce realmente da due. Se non è un problema di offerta questo.”
 
Chissà come mai questa stasi nella produttività e nella crescita prima dell’euro non c’era. Poco più di vent’anni fa, nel 1992, è avvenuto l’ultimo riallineamento dei cambi all’interno del sistema monetario europeo, e quindi l’ultima rivalutazione del marco tedesco rispetto alla lira italiana.
 
Poco più di dieci anni fa, l’Italia è entrata nell’euro.
 
Apparentemente tutto questo per Bisin è irrilevante. Quali altri fenomeni spieghino la perdite di competitività e la stasi di produttività e crescita, non si capisce.
 
Ma ammettiamo pure che Bisin abbia ragione. L’euro non c’entra niente: per qualche congiunzione astrale, per qualche incantesimo malvagio, le aziende e gli imprenditori italiani fino al 1992, o fino al 1999, sapevano come migliorare la produttività e l’offerta, e poi se ne sono dimenticate.
 
Oggi c’è una rilevante differenza di competitività. Come la risolve Bisin ? sfregando la lampada ed evocando il genio buono, che rimuove l’incantesimo, fa tornare la memoria agli imprenditori e di colpo ottiene di recuperare dieci o venti di ritardo di produttività ?
 
Grosso modo era quello che diceva di voler fare Monti. I risultati li abbiamo visti.
 
O taglia i salari del 20% dalla sera alla mattina ? anche qui Monti ci ha abbondantemente provato, non c’è riuscito ed ha invece ottenuto il collasso della domanda interna e la peggiore crisi degli ultimi ottant’anni (e forse anche di più, probabilmente stiamo sforando al ribasso l’impatto della Grande Depressione).
 
Il punto è che non ha nemmeno più di tanto importanza chiedersi qual è l’origine della perdita di competitività dell’Italia. E’ l’euro, o per essere più esatti il fatto che la Germania gioca meglio dell’Italia (non da oggi) la partita del contenimento salariale. E questo squilibra, inevitabilmente, un regime monetario privo di meccanismi di flessibilità interni.
 
Ma facciamo finta che non sia così, diamo ragione a Bisin. Gli italiani sono diventati pigri, corrotti, inefficienti, lassisti, improduttivi. Anzi lo erano già prima, ma dieci o vent’anni fa non si sa perché sono peggiorati di colpo.
 
Che cosa cambia ? il problema rimane lo stesso. Come si risolve la situazione ?
 
Con la deflazione salariale, che (a costo di portare la domanda al collasso) permette di recuperare due o tre punti, non certo venti ?
 
Con le riforme strutturali, la famosa araba fenice che non si capisce bene per quali vie misteriose dovrebbe produrre i risultati che servono ?
 
Mentre si capisce benissimo che i tempi di attuazione sono pluridecennali, a condizione peraltro di una volontà politica che le larghissime maggioranze di Monti e Letta, supportate dalla benedizione di tutti i potentati europei e internazionali, non sono minimamente riusciti ad attivare.
 
Un grosso e rapido recupero di competitività è ottenibile in due modi.
 
Uscita “secca” dall’euro e svalutazione.
 
Introduzione di uno strumento monetario complementare, che consenta di ridurre fortemente il costo del lavoro e, allo stesso tempo, di incrementare redditi e domanda.

Se Bisin o qualcun altro hanno altre idee (idee attuabili, non che ipotizzino di evocare il genio della lampada) sono tutto orecchi.

lunedì 22 luglio 2013

Le dottrine Juncker


Jean-Claude Juncker è stato per più di sette anni, fino a pochi mesi fa, il presidente dell’Eurogruppo, il comitato di coordinamento dei ministri economici dei 17 paesi che adottano l’euro come moneta.
 
Durante questo periodo è stato uno dei personaggi più visibili, insieme ai vari Barroso, Van Rompuy, Draghi, Rehn, tra le autorità europee che hanno in qualche modo gestito la crisi della moneta unica europea.
 
Prima, durante, dopo e ancora a tutt’oggi, ha ricoperto la carica di primo ministro lussemburghese (dal 1995, diciotto anni ormai).
 
Ultimamente di Juncker viene citata frequentemente una frase, tratta da un’intervista del 1999 a Der Spiegel. Così nota ormai che spesso viene etichettata come “dottrina Juncker”.
 
“Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”.
 
Presa a sé, sembra la frase di un sociopatico. Il principio è di infliggere alla popolazioni, utilizzando processi subdoli e non democratici, decisioni dagli effetti sgradevoli (molto sgradevoli), che “susciterebbero proteste e rivolte” se ne venissero capite le implicazioni.
 
Ora, può essere che Jucker sia esattamente questo – un sociopatico. Tuttavia non guasta ricordare un’altra sua frase, meno citata ultimamente ma anch’essa molto nota.
 
“Noi, capi di governo, sappiamo cosa fare, ciò che non sappiamo è come farci rieleggere dopo averlo fatto”.
 
La seconda frase dà una chiave di lettura alternativa della prima. Juncker potrebbe non essere un sociopatico.
 
Può essere invece che abbia avuto (come me) un’insegnante di lettere che gli ripeteva ad ogni occasione “nihil sine magno labore natura dedit mortalibus”.
 
Per cui Juncker, e gli altri eurocrati, sono forse genuinamente convinti che una grave crisi si risolve solo con gravi sofferenze. Se poi bisogna farle accettare alla popolazione tramite reiterate mistificazioni in merito alle conseguenze delle decisioni prese, pazienza, al termine del percorso si staglia un futuro luminoso.
 
Nella loro testa, questo è un percorso spiacevole ma necessario. Il punto, naturalmente, è che non è vero niente. Alla prof di lettere di Juncker non competeva di insegnare la macroeconomia keynesiana, e questa lacuna Juncker non l’ha mai colmata.
 
Altrimenti avrebbe forse capito che un sistema economico in trappola della liquidità non ha da temere l’inflazione e può rilanciarsi, rapidamente ed efficacemente, con politiche di sostegno alla spesa, finanziate da espansione monetaria. Senza infliggere “magno labore” a nessuno, salvo quello di far tornare al lavoro i disoccupati (che questo “magno labore” a dire il vero non vedono l’ora di sobbarcarselo).
 
E se si è (contro il parere dei più qualificati economisti mondiali) adottata una moneta unica in 17 paesi, per cui c’è il problema che in mezza Europa serve sostegno alla spesa ed espansione monetaria, nell’altra mezza no (o molto meno), il problema è la “meccanica” del sistema monetario – che si può risolvere esattamente come si risolvono tutti i problemi meccanici – riprogettando il meccanismo.

venerdì 19 luglio 2013

Che cosa succede dopo le elezioni tedesche ?


Se state leggendo questo articolo, probabilmente il titolo vi ha incuriosito.
 
Esordisco in modo deludente. Che cosa succede dopo le elezioni tedesche del 22 settembre 2013 non lo so.
 
So (credo di sapere) che cosa succede fino alle elezioni tedesche. Niente.
 
Per quanto odioso sia lo spot elettorale inscenato da Schaeuble in Grecia giusto in questi giorni, va preso per quello che è. Uno spot a beneficio dei suoi elettori, appunto.
 
Fino alle elezioni tedesche, tutto resterà sopito. I mercati finanziari partiranno dal presupposto che la BCE non tollererà agitazioni sui titoli periferici dell’Eurozona, e quindi non avranno convenienza o interesse a farle accadere.
 
Poi ci sarà la riconferma di un governo a guida CDU, oppure (in caso di risultato per loro deludente abbinato a una frana dei tradizionali partner liberali) una “Grosse Koalition” con la SPD.
 
In teoria un risultato ancora peggiore per il centro destra aprirebbe scenari di coalizioni di centro sinistra: SPD + Linke + Verdi, inclusi magari (in uno strano assemblaggio) Pirati e AfD se superassero il blocco del 5%. Questa sarebbe l’alternativa più positiva e costruttiva nei confronti di un possibile cambio di atteggiamento verso la crisi dell’Eurozona.
 
Ma non so costruttiva fino a che punto (il fondatore della Linke, Lafontaine, è forse la voce più raziocinante, in Germania, riguardo all’Eurocrisi, ma non rappresenta una posizione maggioritaria neanche nel suo partito). E siamo ai confini della fantapolitica, e probabilmente anche oltre.
 
CDU o CDU + SPD che sia, ai primi di ottobre il nuovo governo tedesco si siederà a esaminare una realtà che conosce benissimo, in effetti, anche oggi. Conti della periferia sud dell’Eurozona super sfondati e risultati sempre più disastrosi delle politiche di austerità.
 
Basta a produrre un cambio di atteggiamento ? solo se, temo, questo si sarà riflesso sulla situazione tedesca in modo sufficiente a trasformare l’attuale previsione di crescita del PIL da un pallido più (0,3%) in un deciso meno.

Questo potrebbe avvenire, e avere sul tavolo una proposta di riforma del sistema monetario europeo che risolva il problema, evitando però ai tedeschi quello che temono di più:
 
perdita di valore dei loro crediti verso il Sud
spaccatura dell’euro
rivalutazione del nuovo marco
 
potrebbe essere decisivo.

Intraprendere questa strada non richiede, in realtà, il consenso della Germania. L’Italia potrebbe e dovrebbe procedere anche da sola.

Ma temo che questo sia ancora più fantapolitico.

martedì 16 luglio 2013

John Maynard e io


Ovvero: questa volta mi monto un po’ la testa.
 
Ieri ero affaccendato con il libro e a un certo punto – nel capitolo dove cerco di spiegare perché le riforme strutturali non sono la soluzione della crisi – avevo appena finito di scrivere:
 
“Ancora peggio, se tutti i paesi in difficoltà “flessibilizzano” il lavoro nel senso sopra descritto, e gli altri continuano, nel frattempo, ad attuare politiche di moderazione salariale, queste politiche non producono in effetti significative riduzioni delle differenze di efficienza tra paesi. Mentre l’impatto negativo sulla domanda interna è pieno e pesante.”
 
E nel giro di pochi minuti vedo Guido Iodice di Keynesblog, e Paul Krugman sul New York Times, postare questa stessa identica citazione (si sentono la mattina per mettersi d’accordo ?):
 
“Or again, if a particular producer or a particular country cuts wages, then, so long as others do not follow suit, that producer or that country is able to get more of what trade is going. But if wages is cut all round, the purchasing power of the community as a whole is reduced by the same amount as the reduction of costs; and, again, no one is further forward.”
 
“Se, ancora, un determinato produttore o un determinato paese taglia i salari, si assicurerà così la possibilità di conseguire una maggior quota del commercio fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto. Ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce tanto quanto si sono ridotti i costi; e, di nuovo, non c’è beneficio per nessuno”.
 
John Maynard Keynes, “The Great Slump of 1930”
 
Ho raccontato la faccenda a cinque carissimi amici, stamattina, pensando che mi salutassero come la reincarnazione di Keynes.
 
Quattro hanno detto “sì, e io sono Giulio Cesare”. Il quinto “bravo, sei solo ottantatré anni in ritardo”.
 
Vabbè, tutta invidia.

Però adesso chiarisco una cosa: Keynes (e Krugman, e Iodice, e Cattaneo) NON stanno dicendo che le aziende e i paesi non devono perseguire miglioramenti di efficienza.
 
Stanno dicendo che se l’economia è in depressione a causa di una carenza strutturale di domanda, di spesa, è solo intervenendo su questa – sostenendola, incrementandola – che se ne può uscire.
 
Riproviamo a spiegarlo a Panebianco, ad AlesinaGiavazzi e a tutti gli altri che intonano quotidianamente il mantra delle riformestrutturaliperusciredallacrisi.
 

lunedì 15 luglio 2013

CCF e debito pubblico


Il progetto CCF risolve due fondamentali problemi causati dall’attuale sistema monetario europeo.
 
Permette di riequilibrare la competitività tra i vari paesi, analogamente a quanto (prima dell’introduzione dell’euro) avveniva per effetto dei riallineamenti dei cambi.
 
E permette ai singoli paesi di mettere in atto, quando necessario, politiche attive di sostegno della domanda finanziate mediante emissione di moneta (più precisamente, mediante emissione di CCF, che sono uno strumento monetario – anche se non prendono la forma di banconote e monete metalliche).
 
Rimane in essere un problema: l’esistenza di debiti pubblici nazionali denominati in una moneta (l’euro) di cui i singoli stati non gestiscono l’emissione.
 
Nell’immediato, il progetto CCF dà avvio a una forte e rapida ripresa, e risolve quindi anche le tensioni che caratterizzano oggi la finanza pubblica di parecchi paesi europei. E la possibilità di attuare politiche di piena occupazione è un’arma molto forte per evitare che insorgano di nuovo in futuro.
 
A breve-medio termine (un paio d’anni circa), via via che i CCF diventeranno uno strumento finanziario ampiamente diffuso e utilizzato, è tuttavia molto opportuno che i singoli paesi estinguano i debiti pubblici in euro, utilizzando ulteriori emissioni di CCF.
 
A quel punto, tensioni speculative sul mercato dei titoli di Stato come quelle insorte nell’estate 2011 diverranno impossibili.

giovedì 11 luglio 2013

Svalutazione e inflazione: il nesso che non c’è


L’argomento principale di questo blog è descrivere e analizzare un progetto di riforma del sistema monetario europeo che supera i problemi creati dalla moneta unica, senza dover attuare la “spaccatura” dell’euro.
 
Ritengo però utile, comunque, sgombrare il campo da un equivoco molto comune. Un’affermazione frequente, anche da parte di chi sostiene la necessità / utilità / inevitabilità di tornare alle monete nazionali, è che ci sarebbero conseguenze in termini di maggiore inflazione.
 
I “pro-euro-break-up” di solito non negano questo. Sostengono, piuttosto, che l’impatto sarebbe relativamente modesto, e comunque ben inferiore rispetto al danno che deriva dal mantenere in essere l’attuale sistema monetario.
 
A mio parere si può, con plausibilità, sostenere una tesi ancora più forte. Di per sé, la svalutazione non implica affatto inflazione.
 
Aumenta il costo di un bene importato, e allora ? se non migliora la domanda, il distributore italiano di questo bene, o l’azienda trasformatrice che lo utilizza come input produttivo, non è in grado di aumentare i suoi prezzi. L’effetto è di ridurre i margini dell’importatore, non di aumentare i prezzi a valle.
 
I prezzi aumentano solo se la domanda totale sale fino al punto di riassorbire la differenza (oggi altissima) tra domanda e capacità produttiva del sistema economico.
 
Il ritorno dell’Italia alla sovranità monetaria crea le condizioni per mettere in atto politiche di sostegno della domanda che riassorbono questa differenza. Se si eccede, a quel punto c’è un problema di inflazione. Ma solo a quel punto.
 
La svalutazione è un presupposto per la ripartenza della domanda, ma occorre prima che le politiche di sostegno della domanda vengano messe in atto.
 
Se invece si svaluta con l’economia in situazione di piena occupazione, l’incremento dei prezzi si verifica, ma per un motivo diverso: sale la domanda dall’estero, e questo crea l’eccesso di domanda rispetto all’offerta. Ma non è, evidentemente, la situazione di oggi. Non mi è chiaro, peraltro, perché un’economia in piena occupazione dovrebbe svalutare.
 
Questo spiega tra l’altro il “mistero” del 1992: la lira uscì dallo SME e si svalutò, ma l’inflazione scese invece di salire. Perché ? furono attuate, contemporaneamente alla svalutazione, forti politiche di compressione della domanda interna.
 
Migliorarono notevolmente, quindi, i saldi commerciali, ma cadde la domanda interna, la domanda totale non aumentò e non ci fu una significativa ripresa della produzione e dell’occupazione. E l’inflazione scese.

lunedì 8 luglio 2013

Ha ragione chi dice…


Ha ragione chi dice che l’euro nella sua forma odierna è insostenibile ?

perché non esiste più il meccanismo (i cambi flessibili) che riequilibrava la competitività dei vari paesi e preveniva la formazione di sbilanci commerciali
perché gli stati, spossessati di autonomia monetaria, non possono più attuare politiche attive di sostegno della domanda (che servono in alcuni paesi dell’eurozona e in altri no, o comunque in misura diversa)
perché i debiti sovrani sono diventati debiti in moneta straniera, che i singoli stati non emettono e non gestiscono più: sono così a rischio default paesi che, emettendo debito in moneta nazionale, non lo erano.
 
Ha ragione chi dice che il ritorno alle monete nazionali non risolve, da solo, la crisi ?

perché anche stati dotati di autonomia monetaria possono attuare politiche economiche sbagliate: per esempio austerità fiscale mentre l’economia è ancora in situazione di “trappola della liquidità”, di domanda ancora depressa rispetto alle potenzialità del sistema economico nonostante la banca centrale abbia azzerato i suoi tassi di intervento. Oggi è in questa situazione il Regno Unito.
 
Ha ragione chi dice che il break-up dell’euro è indispensabile ?
No
perché ci sono altre vie, probabilmente più semplici da percorrere sul piano politico e operativo, per ripristinare flessibilità e autonomia degli stati nell’ambito del sistema monetario europeo.

venerdì 5 luglio 2013

Riforme strutturali: facciamoci una cultura


Essì. Ne parla un sacco di gente. Cattedratici, opinionisti, alti burocrati internazionali. Lo dicono, tutti questi signori: dalla crisi si esce con le riforme strutturali.
 
Evidentemente a me sfugge qualcosa. A me sembra che l’economia stia sprofondando perché non c’è credito, la moneta non circola e ci ammazzano di tasse. Ma la realtà è moooooolto più complessa. Mi devo documentare, allora.
 
Da qualche parte bisogna cominciare, no ? e allora vediamo un po’ che cosa ha detto Angel Gurria, segretario generale OCSE, il 24 settembre 2012. E’ venuto a Roma e ha tenuto il discorso d’apertura alla Conferenza Internazionale Sulle Riforme Strutturali In Italia (tutto maiuscolo). Qui si parte bene, mi sono detto.
 
Gurria nel suo discorso, per citarlo alla lettera, si limita a “sottolineare soltanto cinque piste che l’Italia deve seguire nel cavalcare quest’onda tumultuosa delle riforme”. Perché, dice, c’è un rapporto che ne elenca dodici o tredici (non se lo ricordava neanche lui). Vabbè, il rapporto lo leggerò. Cominciamo da queste cinque, se le sottolinea saranno le più importanti (credo).
 
Primo, migliorare la competitività – che significa “aumentare la produttività, mantenere moderate le dinamiche salariali in modo che siano in linea con la produttività, e ridurre la pressione fiscale sul reddito da lavoro, a condizione di farlo in modo fiscalmente neutro”.
 
Volevo chiamare uno dei tanti imprenditori che conosco per dirgli “lo sai che la prima riforma strutturale è aumentare la produttività ?” Però mi sono trattenuto. Non mi sembra una riforma strutturale. Questi signori pensano a aumentare la produttività tutti i giorni, e tutti i giorni trovano il modo di migliorare qualcosina. Certo, non è che per vent’anni non l’hanno fatto e adesso si svegliano perché hanno sentito Gurria, e migliorano del 20% in un mese.
 
Ridurre la pressione fiscale sul lavoro suona meglio ma “a condizione di farlo in modo fiscalmente neutro” ? cioè miglioriamo una cosa e ne tagliamo un’altra ? dà un grosso aiuto per uscire da una crisi così pesante, questo ? Boh. Vado avanti.
 
Secondo, consolidare le finanze pubbliche. “Questo richiede ulteriori sforzi per ridurre a livelli più sostenibili l’alto debito sovrano italiano”. Ah ecco. Non è che miglioro di 10 le tasse sul lavoro e taglio di 10 altre spese. No, le taglio di 20 perché “bisogna ridurre l’alto debito sovrano italiano”. Mmh. Proseguo.
 
Terzo, rafforzare le politiche sociali. “Attuare le riforme strutturali” ma nello stesso tempo “migliorare la coesione sociale”. Gurria è scandalizzato perché la disoccupazione ha superato l’11% e quella giovanile il 35%. Lo sanno tutti che questo si risolve “consolidando le finanze pubbliche”. Infatti nel frattempo le percentuali sono aumentate. Ma forse Gurria non è ripassato in Italia e non lo sa.
 
Quarto, “cambiamento strutturale, sociale, ma anche verde, questo lo chiamiamo eco-compatibilità”. Non si può più fare affidamento sulle “stesse energie altamente inquinanti che stanno distruggendo il nostro pianeta”. Bravo Gurria. Questa è sicuramente una riforma strutturale. Ma come risolve il problema della disoccupazione e della coesione sociale – come lo risolve OGGI, intendo ?
 
Quinto, “il ruolo fondamentale dell’attuazione. Implementation, implementation, implementation”, che “richiede istituzioni competenti ed efficaci per guidare e valutare i progressi” tra l’altro compiendo “ulteriori passi a favore dell’integrità e della trasparenza, e della lotta alla corruzione”. Cioè per attuare le riforme strutturali bisogna saper attuare le riforme strutturali. Lo diceva anche mio nonno: “ci vuole essere capaci”. Elementare Watson. Come mai non c’ero arrivato da solo.
 
A questo punto mi è venuto in mente Mario Missiroli, direttore del Messaggero e del Corriere della Sera negli anni Cinquanta. Quando il suo critico cinematografico gli portava un pezzo particolarmente incomprensibile, gli diceva più o meno: “perdoni, il torto è mio. Ho letto Voltaire, e l’ho capito. Ho letto Kant, e l’ho capito. Ho letto anche Hegel, e l’ho capito. La sua critica però, il torto è mio ma non l’ho capita. Me la riscrive per favore ?”.
 
Insomma Gurria non l’ho capito. E non gli posso chiedere neanche di riscrivere. Pazienza, ci sono altri sette (o otto ?) punti nel rapporto. Leggo, e se capisco qualcosa vi faccio sapere. Chissà perché sono scettico. Non fateci caso, sarà un cattivo umore di giornata.

martedì 2 luglio 2013

La finta assennatezza di Angelo Panebianco


Angelo Panebianco, noto editorialista del Corriere della Sera, espone in questo articolo una tesi formulata, da lui e da molti altri, in tantissime occasioni.
 
Se ci fossero le condizioni politiche per ridurre in modo significativo la spesa pubblica da un lato, e le tasse dall’altro, ne seguirebbe un grosso passo avanti verso la soluzione della crisi.
 
E’ una tesi che suona saggia, avveduta, assennata. Ed è completamente sbagliata.
 
La spesa pubblica - così come il gettito fiscale - in Italia ammontano a un ordine di grandezza di circa 800 miliardi annui. Immaginiamo che sia possibile fare ciò che Panebianco auspica (senza peraltro ritenerlo, sul piano politico, possibile o plausibile). Tagliare, per esempio, il 10% di questo importo, e utilizzare le risorse per ridurre la tassazione.
 
Avremmo a questo punto 80 miliardi di euro che potrebbero essere riallocati da una forma di spesa (si suppone) poco efficiente, a beneficio di consumi e investimenti privati che si ritengono essere meglio gestiti e più efficaci sul piano economico.
 
Panebianco (e chi sostiene questa linea di intervento) è apparentemente convinto che si avrebbe un vantaggio economico, traducibile in maggior PIL, pari all’importo della spesa riallocata, cioè a tutti gli 80 miliardi. E’ un ragionamento privo di senso.
 
Il beneficio economico va stimato sulla base delle differenze di efficienza. E anche la spesa pubblica più inefficiente e parassitaria mette in moto un volano di consumi che vanno a sostenere la domanda e la produzione di beni e di servizi, anche e soprattutto forniti da aziende e operatori economici efficienti e competitivi.
 
Nella spesa pubblica si annidano grandi aree di spreco, non c’è dubbio. In quanto vogliamo quantificare il vantaggio della riallocazione che ipotizzano i vari Panebianco: facciamo un’ipotesi ottimistica – il 20% ?
 
Sono 16 miliardi annui di maggior efficienza, competitività, PIL. Non dico che sia poco, né che sia un obiettivo che non si deve perseguire. Ma a quanto ammonta l’attuale “output gap” italiano, l’incremento di PIL che va ottenuto per assicurare un soddisfacente stato di occupazione, di utilizzo del potenziale produttivo dell’economia italiana ? 300.
 
Questo rende evidente l’errore logico di Panebianco. La crisi si risolve solo con una forte azione sulla domanda, che a sua volta richiede il ripristino dell'autonomia monetaria italiana, in modo da poter effettuare interventi di spesa e di riduzione della tassazione. Oggi il problema è al 90% INCREMENTARE la domanda, al 10% riallocare la spesa.
 
I Panebianco di questo mondo delineano invece percorsi tecnicamente difficilissimi, politicamente non fattibili, e per di più – soprattutto – fuori scala rispetto alle reali dimensioni del problema. E’ preoccupante che la loro “analisi” della situazione sia così sconnessa con la realtà.