domenica 19 marzo 2023

Lezioni da una mancata (si spera) crisi bancaria

 

Salvo sorprese, al momento pare che SVB non stia innescando una crisi bancaria sistemica. Sta insomma avvenendo quanto prevedevo una settimana fa. Le banche centrali e i governi stanno intervenendo con l’intensità adeguata, tamponando i rischi di contagio. Non solo la Federal Reserve negli USA, ma anche la banca centrale svizzera con Credit Suisse.

E per quanto folle sia l’assetto dell’eurosistema, credo che se necessario la BCE farà quanto serve per soccorrere istituzioni eurozoniche potenzialmente nei guai. Anche perché le principali indiziate sono francesi e tedesche, per cui figuriamoci.

Quindi tutto più o meno sotto controllo, grazie al fatto che il ricordo del 2008 è troppo fresco per ricascarci oggi. Però l’instabilità potenziale del sistema rimane un dato di fatto, e la possibilità che un intervento carente o tardivo di fronte a problemi simili, in un futuro non vicinissimo, lasci deflagrare una crisi, resta un elemento di preoccupazione.

Come evitare rischi del genere ? il dato di fatto è che un sistema dove la grande maggioranza dei mezzi di pagamento in circolazione, altrimenti detto di quella che comunemente chiamiamo moneta, sono in effetti passività di istituti privati, non può funzionare senza una garanzia pubblica su queste passività, cioè sui depositi bancari.

Ma se ci deve essere garanzia pubblica, si pone il problema che gli istituti privati emettono passività a condizioni di favore grazie alla garanzia e investono in attività rischiose. Se va bene gli utili sono degli azionisti ma ancora di più del management degli istituti, se va male le perdite sono spalmate sulla collettività.

Quando succede, invariabilmente in molti pongono la domanda “perché devo pagare io per i danni fatti da altri ?” la risposta di prima battuta è “perché quando un incendio rischia di espandersi prima lo spegni, poi indaghi sulle responsabilità. Non lasci bruciare una città per “dare una lezione” a chi ha appiccato il fuoco”.

Giusto, però quello che dovrebbe andare di pari passo con la garanzia pubblica sui depositi è un rigoroso controllo sulle attività svolte dagli istituti. Che non si riesce mai ad introdurre perché troppe persone influenti profittano, almeno finché il rischio non si concretizza. Come dicevo nell’altro post, il settore pubblico ripulisce i cocci, mentre i trader i bonus milionari incassati nel frattempo se li tengono.

In effetti c’è da pensare seriamente a nazionalizzare la funzione di deposito bancario. Permettendo a cittadini e aziende di depositare presso l’istituto di emissione, e vietando invece la raccolta di depositi da parte delle istituzioni private.

Il che non implica la fine della finanza privata. Vuole dire che le istituzioni finanziarie non devono più emettere passività a vista o a breve termine. Devono investire soldi raccolti con vincolo di scadenza omogeneo alle attività di investimento o di finanziamento che pongono in atto.

Voglio fare credito ? raccolgo un fondo di durata per esempio decennale, erogo finanziamenti e a fine periodo ripartisco gli utili che ho prodotto, compresi i premi al management. E se gli utili non ci sono anzi ci sono perdite, questo è il normale rischio che si assume l’investitore del fondo. Senza però che abbia la possibilità di forzare il fondo a liquidare di colpo gli attivi perché una crisi reale o immaginaria innesca una fuga di depositi.

Si farà mai qualcosa di simile ? difficile, perché gli interessi che andrebbe a ledere sono potenti. Ma finché non si fa, si può solo sperare che i pompieri arrivino in tempo a spegnere l’incendio quando scoppia. Perché di tanto in tanto scoppia, questo è sicuro.

 

domenica 12 marzo 2023

Silicon Valley Bank: Lehman 2, la vendetta ?

 

Il mio amico Giovanni Piva mi ha posto la domanda che in questi giorni è sulle labbra un po’ di tutti: il crac della Silicon Valley Bank (e i problemi di altri istituti bancari USA) sono fenomeni tutto sommato abbastanza contenuti e isolati, o provocheranno un effetto domino analogo alla crisi finanziaria del 2008 ?

In sintesi: SVB è la nuova Lehman Brothers ?

La mia risposta è: non è impossibile ma è molto improbabile.

Nessuna crisi finanziaria sistemica è inevitabile. Le autorità pubbliche hanno sempre la possibilità di bloccarle sul nascere, ricapitalizzando e/o garantendo il passivo delle istituzioni coinvolte, o comunque a rischio.

La deflagrazione di una crisi del genere quindi avviene, se avviene, perché non si concretizza la volontà politica di intervenire in modo adeguato.

Perché non è successo nel 2008 ? perché, dopo che in effetti parecchi salvataggi erano stati effettuati – Washington Mutual, Freddie Mac, Fannie Mae, eccetera – la Federal Reserve e il governo USA sono stati investiti da violente critiche in merito all’utilizzo di soldi pubblici per tamponare i dissesti.

Quando i problemi sono esplosi in Lehman, le autorità hanno deciso che un’ulteriore intervento non era “politicamente accettabile”. Il risultato è stato un’insolvenza disordinata che ha rischiato di portare al collasso l’intero sistema finanziario mondiale.

A quel punto gli interventi ci sono stati, e per dimensioni molto maggiori di quanto sarebbe stato sufficiente per Lehman. Si è dovuti intervenire su Citigroup, su Bank of America, e su parecchie altre situazioni.

I ritardi negli interventi sono stati influenzati anche dal contesto politico. Bush jr era a fine mandato e non controllava più le voci dissenzienti dei congressisti del suo stesso partito. E dopo le elezioni dei primi di novembre 2008 (il fallimento Lehman era avvenuto a metà settembre) sono passati i canonici due mesi prima dell’insediamento di Obama. Ciò ha causato un ritardo nel varo dei necessari pacchetti fiscali e ha prolungato la crisi di altri mesi.

Oggi queste complicazioni politiche non ci sono. E soprattutto, il ricordo del 2008 è troppo fresco. Certo, sono passati quindici anni (il tempo vola) ma quindici anni fa i decisori di oggi era già adulti, vaccinati e in posizioni di responsabilità. Non stiamo parlando della Grande Depressione, di cui tutti hanno letto ma che nessuno ha vissuto.

Quindi a uno stallo politico che lasci deflagrare la situazione, quand’anche (cosa che al momento non so) fosse potenzialmente grave quanto quella del 2008, non credo. Fermo restando che un minimo di rischio c’è sempre, perché la follia dei comportamenti umani (specialmente di quelli collettivi) è imprevedibile.

Mi pongo piuttosto un’altra domanda. Ma se è vero che una grossa parte del problema SVB è nato dalla perdita di valore non di attivi di bilancio arcani e astrusi, ma di banalissimi titoli di Stato USA…

…titoli che hanno perso di valore perché comprati quando i tassi erano vicini a zero, mentre oggi sono al 4-5%...

…ma perché il tesoro USA (ma anche quello degli altri paesi) non si finanzia con titoli a tasso variabile, tipo i buoni vecchi CCT che ai bei tempi della lira erano molto popolari tra i risparmiatori italiani, e che sterilizzano automaticamente il rischio tassi d’interesse ?

Risposta triste, ma è la realtà: perché i titoli a tasso fisso si prestano molto di più alla speculazione. E piacciono quindi alle istituzioni finanziarie, che sui ministeri e sulle banche centrali non dovrebbero avere, ma nella realtà hanno, molta influenza.

Al trader che specula, i titoli a tasso fisso piacciono. Se poi qualcosa va storto ci penserà lo Stato a ripulire i cocci. Loro, un po’ di anni a colpi di bonus milionari se li saranno comunque fatti.

 

venerdì 10 marzo 2023

Superbonus e buoni carburante

 

Nelle ultime settimane ho letto e/o ascoltato parecchie argomentazioni orientate a sminuire gli effetti positivi del Superbonus 110% e in generale dei crediti fiscali immobiliari. Una in particolare merita qualche commento perché, come spesso succede, appare superficialmente sensata - ma non lo è.

L’argomentazione è che una buona parte, indicata non si sa bene perché nel 50%, degli interventi edilizi sarebbe stata effettuata comunque, anche senza incentivo. Quindi gli impatti positivi su PIL e gettito fiscale vanno dimezzati rispetto alle stime dei proponenti.

Riuscite a vedere la falla logica ? forse sui due piedi no, ma c’è ed è semplice da spiegare.

Immaginate che vi regalino mille euro di buoni carburante. Vi mettete, per questo, a usare di più l’auto, consumando mille euro in più di benzina o gasolio ?

Non credo proprio. Le vostre esigenze di utilizzo dell’automobile sono le stesse di prima. Lavoro, weekend, uscite serali. Non le incrementate certo per l’equivalente di mille euro di carburante. Non vi svegliate alle tre del mattino per fare il giro della tangenziale perché la benzina ve l’hanno regalata.

I vostri consumi di carburante restano gli stessi di prima. Però vi rimangono in tasca mille euro in più. E quei mille euro con ogni probabilità incrementano i vostri consumi. Non di carburante (se non in minima parte) ma di tutto il resto.

Trasferito ai crediti fiscali immobiliari questo cosa significa ? che una parte degli interventi di ristrutturazione si sarebbero fatti anche senza incentivo, certo: ma a chi li ha effettuati sono comunque rimasti in tasca più euro.

L’impatto espansivo sull’economia quindi è stato prodotto dall’intero importo degli incentivi, non solo da quelli erogati per interventi che “altrimenti non si sarebbero fatti”.

Quelli che sono stati fatti grazie all’incentivo sono un effetto espansivo ovvio. Ma anche per quelli che si sarebbero fatti comunque, gli incentivi hanno immesso potere d’acquisto nell’economia, e di conseguenza alimentato, anch’essi, capacità di spesa.

Dimezzare arbitrariamente la stima degli effetti espansivi non ha senso. Eppure parecchi critici del superbonus, parecchi euroausterici, cercano di far passare questa tesi strampalata. Tutto fa brodo quando si tratta di negare i benefici delle politiche economiche espansive.

mercoledì 8 marzo 2023

Crediti d’imposta cedibili e riportabili per espandere l’economia senza debito

 

Il dibattito sul Superbonus 110% e sui crediti fiscali immobiliari, alla luce dei recenti provvedimenti del governo, ha raggiunto vette di concitazione che non contribuiscono certo a capire i termini della questione. Il tema va chiarito perché è di estrema importanza per il rilancio dell’economia italiana e per la soluzione delle disfunzioni dell’Eurozona. Questo, per ragioni che vanno in effetti molto al di là del – pur importante – argomento Superbonus. Il vero fulcro della questione è la circolazione dei crediti d’imposta utilizzabili in compensazione: la cosiddetta Moneta Fiscale.

UNO, Eurostat NON ha affatto “bocciato la Moneta Fiscale” né l’ha “messa fuori corso”. Queste affermazioni si sono spesso lette e sentite nelle ultime settimane, ma sono totalmente sbagliate. Eurostat al contrario ha pienamente riconosciuto che i crediti fiscali trasferibili, utilizzabili per compensare tributi, esistono e sono assolutamente legittimi. L’unica modifica, rispetto alla situazione precedente, è che Eurostat afferma ora che questi crediti vanno considerati spese dello Stato all’atto dell’emissione e non minor gettito fiscale negli anni in cui verranno utilizzati come compensazione di pagamenti all’Erario. La conseguenza è che entrano nel deficit pubblico nell’anno di emissione medesimo, non successivamente.

Che cosa significa ? che cambia solo il profilo temporale del deficit, non l’impatto complessivo sul deficit medesimo. L’impatto totale rimane lo stesso ed è pari all’ammontare dei crediti emessi AL NETTO dei benefici che si producono, negli anni, in termini di crescita del PIL e quindi del gettito tributario.

DUE, ISTAT ed Eurostat hanno confermato che i crediti fiscali, trasferibili o meno, NON vanno computati nel “debito pubblico di Maastricht”, quello rilevante ai fini dei trattati. La ragione è semplice: lo Stato non deve approvvigionarsi di fondi per emettere crediti fiscali. Li crea dal nulla, come se si trattasse di una moneta fiat.

TRE, per lo stesso motivo, all’atto dell’emissione i crediti fiscali non producono nessun impatto sul fabbisogno di cassa dello Stato. Appunto in quanto i crediti fiscali vengono emessi fiat, lo Stato non ha bisogno di reperire soldi sul mercato: non c’è nessun titolo che debba essere collocato presso investitori e risparmiatori, non devono essere chiesti prestiti a nessuno.

QUATTRO, è una bugia sfacciata, che purtroppo viene costantemente ripetuta, che il Superbonus 110% abbia prodotto un’enorme quantità di frodi. Già il 10 febbraio 2022 il direttore generale dell’agenzia delle entrate, in audizione presso la commissione bilancio del Senato, aveva chiarito che solo il 3% delle frodi accertate erano riconducibili al Superbonus. I principali “colpevoli” erano state altre categorie di bonus, in particolare il bonus facciate (46% del totale) e l’ecobonus (34%). Il Superbonus è nato con un sistema di controlli ed asseverazioni (successivamente anche rafforzati) che hanno limitato al minimo le frodi. Il che significa che le frodi non si eliminano bloccando la circolazione dei crediti (come hanno affermato Draghi tempo addietro, e Giorgetti ancora nelle ultime settimane) ma introducendo un appropriato sistema di controlli – sull’emissione, non sulla circolazione. Ed è proprio il Superbonus a dimostrarlo! il credito fiscale che aveva i migliori controlli alla fonte ha generato il minor livello di frodi, nonostante circolasse liberamente.

Detto tutto ciò, il Superbonus ha dei difetti ? poteva o doveva essere costruito diversamente ? probabilmente sì, ma per motivi che non hanno nulla a che vedere né con le frodi né con la demonizzazione della Moneta Fiscale:

CINQUE, si sostiene che fosse eccessiva l’aliquota con cui è stato introdotto, il famoso 110%. Se si incentiva un importo addirittura superiore alla spesa effettiva, viene meno la spinta, da parte di chi commissiona i lavori, a negoziare al meglio con l’azienda a cui vengono affidati. Detto in parole povere, è inutile “sbattersi” per negoziare al meglio i costi se comunque a fronte dei costi stessi si riceve un incentivo addirittura superiore.

Va detto che il 110% è ripartito su cinque anni, quindi al momento della cessione del credito entra in gioco l’attualizzazione dei benefici futuri: per cui il valore riconosciuto dal compratore è sempre stato in realtà inferiore al 110%, e spesso anche al 100%. In ogni caso, questa obiezione ha un fondamento ma non mette in dubbio la validità dello strumento: casomai suggerisce (come del resto già è stato fatto) di abbassare l’aliquota di incentivo.

SEI, quello che è senz’altro un difetto del Superbonus è non aver previsto un limite dimensionale. Se non si fissa un limite, per esempio su base annua, si rischia che i lavori incentivati siano di ammontare superiore a quelli che il settore edilizio nazionale riesce a gestire. E questo sicuramente crea un collo di bottiglia e produce la lievitazione dei costi. Ma tutto ciò significa soltanto che qualsiasi applicazione della Moneta Fiscale, così come qualsiasi politica economica espansiva, deve essere ben calibrata nelle sue dimensioni e modalità.

Ma ancora più importante è sottolineare che

SETTE, il Superbonus, e i crediti fiscali immobiliari in genere, sono soltanto una forma di applicazione della Moneta Fiscale, dove per Moneta Fiscale si intendono crediti fiscali, non soggetti a rimborso cash da parte dello Stato, e indefinitamente riportabili al futuro (vale a dire, utilizzabili per un periodo illimitato di tempo).

La Moneta Fiscale in realtà si presta a un amplissimo ventaglio di applicazioni, di cui l’incentivazione di determinate forme di investimento privato è solo una. Le possibilità sono vastissime. Si possono:

Integrare i redditi da lavoro, assegnando Moneta Fiscale in aggiunta al saldo netto in busta paga, in particolare ai redditi bassi e medio bassi.

Diminuire il cuneo fiscale, assegnando Moneta Fiscale ai datori di lavoro in funzione dei costi lordi sostenuti.

Effettuare o potenziare azioni di spesa sociale: ad esempio, invece di ridurre il reddito di cittadinanza, si potrebbe lasciarlo invariato o anche incrementarlo, pagandolo in parte in Moneta Fiscale.

Finanziare investimenti pubblici: manutenzione del territorio, infrastrutture, diversificazione e sviluppo di fonti di energia, ecc.

Finanziare assunzioni di personale nel pubblico impiego: sanità, pubblica istruzione, ordine pubblico. Oggi formiamo brillanti medici e insegnanti e li costringiamo ad accettare stipendi inadeguati e precari – avendo come alternativa l’emigrazione.

Calmierare i prezzi dei beni di prima necessità e a domanda rigida: generi alimentari e bollette, in particolare. Per esempio, compensando in tutto o in parte gli incrementi di prezzo mediante un meccanismo di cashback pagato in Moneta Fiscale. Questo, soprattutto nelle fasi, come l’attuale, in cui l’inflazione si è portata al di sopra degli obiettivi BCE. Obiettivi ai quali la BCE sta cercando di ricondurla a colpi di aumento del costo del denaro, rischiando però di non riuscirci e/o di infliggere gravi danni all’economia, all’occupazione e al tessuto produttivo.

In pratica, l’emissione di Moneta Fiscale consente di mettere in atto qualsiasi manovra di politica economica. E consente di farlo senza che l’emissione incrementi né il fabbisogno finanziario del settore pubblico né il debito di Maastricht.

Altro che “metterla fuori corso”. La Moneta Fiscale, vale a dire i crediti fiscali trasferibili, utilizzabili in compensazione, e riportabili, sono uno strumento di enorme efficacia, e sarebbe folle che lo Stato italiano rinunciasse a utilizzarlo.

La Moneta Fiscale è un progetto che va molto al di là del Superbonus. Il Superbonus e i crediti fiscali immobiliari in genere hanno dimostrato la potenza della strumento e l’alto grado di accettazione dei diritti di sconto fiscale emessi dallo Stato e liberi di circolare.

Il test quindi è stato significativo e importante. Ma la Moneta Fiscale è lo strumento che permette allo Stato italiano di fare molto di più: permette di recuperare un adeguato livello di autonomia e flessibilità nella conduzione della sua politica economica, senza incidere sui fabbisogni finanziari e riportando sotto controllo il debito pubblico di Maastricht. Che va ridotto, certo (in rapporto al PIL) perché è intrinsecamente pericoloso in quanto è da rimborsare in una moneta (l’euro) che l’Italia non emette. Ma questa riduzione non si ottiene tramite deleterie politiche di austerità. Si ottiene ripristinando e mantenendo alti livelli di crescita economica e di occupazione.

sabato 4 marzo 2023

“Illusioni” sul Superbonus ?

 

Un paio di giorni, in un'intervista a Federico Fubini sul Corriere della Sera, il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si è lasciato andare ad affermazioni diciamo così alquanto curiose in merito al Superbonus 110%.

Ce ne sarebbero parecchie da commentare, ma qui mi soffermo su una in particolare, la seguente:

il meccanismo “aveva generato un’illusione: certi cittadini e certe imprese hanno iniziato a dare per scontato che lo Stato avrebbe pagato subito a tutti l’intero costo dei lavori, non a rate in cinque anni”.

Come si possa formulare un’affermazione di questo genere, va al di là della mia comprensione. Per accedere al Superbonus va prodotta una grossa quantità di documenti e i passaggi tecnici sono complessi. È del tutto inverosimile che qualcuno possa aver percorso tutta questa trafila senza capire quali fossero i meccanismi di monetizzazione del credito, nonché le condizioni.

Meccanismi che poi erano due: lo sconto in fattura e la cessione del credito.

Non c’era nessuna aspettativa che “lo Stato avrebbe pagato subito a tutti”. C’era invece l’aspettativa che la monetizzazione sarebbe stata possibile perché quei meccanismi funzionavano – SENZA intervento statale.

E così è stato. Finché il governo Draghi non ha iniziato a insabbiarli (i meccanismi) e il governo Meloni li ha poi completamente bloccati.

L’affermazione di Giorgetti è un pesante travisamento della realtà. E non è certo il primo: ricordate i “duemila euro di costo per ogni cittadino italiano”, calcolati dividendo l’importo dei crediti fiscali per la popolazione, come se non ci fosse NESSUN impatto compensativo di aumento del PIL e del gettito fiscale ?

Non l’avrei mai pensato, ma sto rimpiangendo Gualtieri.

giovedì 2 marzo 2023

Crediti fiscali “pagabili” che non si pagano

 

Come spiegato in alcuni degli ultimi post, in particolare qui, Eurostat ha quindi stabilito che i crediti fiscali cedibili (per esempio, ma non solo, quelli per il Superbonus) vanno a incrementare il deficit pubblico nell’anno in cui vengono emessi. Ciò in quanto sono da classificarsi come “pagabili” anche se non danno diritto a rimborso. Sono da classificare “pagabili” perché possono essere ceduti dall’assegnatario originale a un altro soggetto.

La (discutibilissima) ragione addotta è che se possono essere ceduti, prima o poi finiranno in mano a qualcuno che li userà per ridurre pagamenti di tributi, mentre se non fossero cedibili l’assegnatario potrebbe non avere “capienza fiscale”, cioè non avere imponibile sufficiente per generare tributi di dimensione pari ai crediti.

A questo punto in parecchi sono arrivati alla conclusione che lo Stato dovrà rimborsarli cash, anche se il rimborso non era contemplato all’atto dell’emissione. Il che risolverebbe il problema dei tanti titolari di crediti che non riescono a venderli perché il mercato, a causa di tutte le limitazioni e di tutte le incertezze che si sono accumulate nell’ultimo anno e mezzo, è bloccato.

Mi dispiace dar loro una cattiva notizia. NON verranno rimborsati cash. Il motivo (?) è che secondo la nuova versione del manuale Eurostat, i crediti sono “pagabili” perché possono circolare, ma questo NON introduce nessun impegno di pagamento da parte della pubblica amministrazione.

Insomma sono crediti “pagabili” (tra virgolette) ma non sono da pagarsi (senza virgolette).

Potremmo chiamarli “crediti pagabili si fa per dire”.

Se tutto questo vi sembra assurdo, vi capisco. Che vi devo dire, non ho memoria di quando mai a Bruxelles si sia partorito qualcosa che abbia un senso logico.

martedì 28 febbraio 2023

La circolazione della Moneta Fiscale

 

Mi riaggancio a un’affermazione formulata nel mio ultimo post: “più il credito [fiscale] circola, e più è probabile che parte rilevante dei crediti emessi non vengano utilizzati per compensare tributi”. Il motivo è che il credito fiscale trasferibile è una Moneta Fiscale ad ampia accettazione, e chi la detiene quindi tende, in misura significativa, a scambiarla, senza necessariamente usarla per ridurre pagamenti di tributi.

Del resto, ai tempi del gold standard la moneta era convertibile in oro a un tasso prestabilito: ma in pratica chi si presentava effettivamente alla Banca Centrale per chiedere lingotti al posto delle banconote ? nessuno, a meno che non venisse emessa così tanta moneta da ingenerare il dubbio che la Banca Centrale NON sarebbe stata in grado di onorare le eventuali richieste di conversione.

In definitiva è sempre una questione di equilibrio. I pagamenti dovuti ogni anno alla Pubblica Amministrazione, a titolo di tasse, imposte, contributi eccetera, sono dell’ordine di circa 900 miliardi. Finché la circolazione di crediti fiscali rimane nettamente al di sotto di tale importo, il dubbio che si crei un “sovraffollamento”, cioè che le richieste di utilizzo superino il prelievo fiscale lordo, non ha ragione di esistere.

Tra l’altro la proposta Minibot di Claudio Borghi era impostata sull’idea di emetterli in forma cartacea, il che secondo il proponente avrebbe avuto il risultato di stimolare la circolazione e ridurre l’utilizzo (per compensazioni fiscali). Questa affermazione però mi lascia perplesso. Se l’utilizzo è semplice e certo, il valore del titolo è garantito. Il motivo per cui il Minibot cartaceo non sarebbe in pratica massicciamente utilizzato in compensazione è che raccogliere pezzi di carta e presentarli al fisco è scomodo. Ma se è scomodo al punto da far preferire la circolazione alla compensazione, significa che la compensazione è così macchinosa da svilire il valore del titolo.

Mi convince molto di più l’idea di favorire la circolazione, e quindi di differire la compensazione, creando degli appositi conti fiscali, gestiti dal MEF, presso cui la Moneta Fiscale verrebbe depositata, offrendo un tasso d’interesse superiore ai normali conti correnti bancari. Che attualmente (in effetti da parecchi anni) rendono zero. Quindi basterebbe un rendimento dell’1% o del 2%.

La circolazione avverrebbe addebitando il conto fiscale del pagatore e accreditando quello del percettore, esattamente come si verifica per i conti bancari. Il differimento dell’utilizzo in compensazione non avverrebbe perché la compensazione “è scomoda”, ma perché è conveniente che la Moneta Fiscale rimanga sui conti fiscali (anche passando da un conto all’altro) e renda interessi.

Ancora una volta, comunque, si conferma l’infondatezza della pretesa di Eurostat. Che vuole considerare “pagabili” i crediti fiscali NON soggetti a rimborso cash ma che possono circolare, in quanto “la circolazione rende certo che verranno utilizzati per compensare pagamenti all’erario, perché prima o poi finiranno in mano a qualcuno che li userà a quello scopo”. Al contrario: la libera circolazione DIMINUISCE, non aumenta, le probabilità di utilizzo in compensazione.

domenica 26 febbraio 2023

Moneta Fiscale e gettoni telefonici

 

Nell’ultimo post ho chiarito che le recenti modifiche alle regole contabili di Eurostat non impediscono affatto l’emissione di Moneta Fiscale e non minano la sua efficacia. Eurostat ha solo affermato che i crediti fiscali utilizzabili in compensazione, se possono circolare liberamente, devono essere computati nel deficit pubblico dell’anno di emissione, non dell’anno di utilizzo.

Cambia quindi il profilo temporale del deficit, ma non l’impatto totale sul deficit. E non cambiano minimamente (neanche sotto il profilo temporale) né il fabbisogno finanziario dello Stato (non serve trovare fondi sul mercato per emettere crediti fiscali) né il debito pubblico di Maastricht (quello rilevante ai sensi dei trattati).

Ciò premesso, la modifica introdotta da Eurostat è a dir poco discutibile, e un’ulteriore argomentazione che mette in luce la sua incoerenza l’ha fornita Massimo Costa.

Per ragioni (a quanto ne so) mai ben chiarite, durante gli anni Settanta del secolo (anzi del millennio…) scorso, scarseggiavano le monete metalliche, e quindi erano spesso utilizzati succedanei per gestire le piccole transazioni. I miniassegni, le caramelle date come resto. E i gettoni telefonici.

Il gettone costava 200 lire, e veniva scambiato per quel valore. Ci pagavi il caffè oppure lo ricevevi in cambio delle mille lire quando effettuavi un acquisto che costava 800.

Il valore di 200 lire non veniva messo in discussione perché quello era il prezzo a cui la Telecom (allora ancora SIP) lo vendeva.

Se il gettone non avesse potuto circolare liberamente, è chiaro che pressoché tutti i gettoni sarebbero stati usati per telefonare (ai tempi c’erano le cabine telefoniche, e non i cellulari né tantomeno gli smartphone…). Chiaramente qualcuno sarebbe stato perso, qualcun altro dimenticato in qualche tasca di vestiti dismessi. Ma la grande maggioranza sarebbe stata usata nelle cabine telefoniche.

Poiché invece circolavano, tantissimi gettoni NON venivano, al contrario, usati per le telefonate: continuavano a passare di mano in mano.

Ecco: Eurostat pretende di considerare il credito fiscale a libera circolazione parte del deficit pubblico già all’atto dell’emissione perché afferma che la libera circolazione implica che prima o poi qualcuno (non necessariamente l’assegnatario originale, ma qualcuno a cui è stato ceduto successivamente) lo userà per ridurre i pagamenti di tributi.

È vero proprio il contrario: più il credito circola, e più è probabile che parte rilevante dei crediti emessi non vengano usati per compensare tributi, e in ogni caso è assolutamente incerto il momento futuro in cui avverrà la compensazione.

Così come cinquant’anni fa, o poco meno, i gettoni circolavano, e finché circolavano non venivano usati per telefonare…

 

venerdì 24 febbraio 2023

Superbonus, crediti fiscali, Moneta Fiscale: fare chiarezza

 

Il dibattito sul Superbonus 110% e sui crediti fiscali immobiliari, alla luce dei recenti provvedimenti del governo, ha raggiunto vette di concitazione che non contribuiscono certo a capire che cosa sta succedendo. Cerco qui di seguito di chiarire il tema.

UNO, Eurostat NON ha affatto “bocciato la Moneta Fiscale” né l’ha “messa fuori corso”. Eurostat al contrario ha pienamente riconosciuto che i crediti fiscali trasferibili, utilizzabili per compensare tributi, esistono e sono pienamente legittimi. Ha solo affermato che vanno considerati spese dello Stato all’atto dell’emissione e non minor gettito fiscale negli anni in cui verranno utilizzati; e che di conseguenza entrano nel deficit pubblico nell’anno di emissione medesimo, non successivamente.

Che cosa significa ? che cambia solo il profilo temporale del deficit, non l’impatto sul deficit complessivo. L’impatto totale rimane lo stesso ed è pari all’ammontare dei crediti emessi AL NETTO dei benefici in termini di crescita del PIL e quindi del gettito tributario.

DUE, ISTAT ed Eurostat hanno confermato che i crediti fiscali, trasferibili o meno, NON vanno computati nel “debito pubblico di Maastricht”, quello rilevante ai fini dei trattati. La ragione è semplice: lo Stato non deve approvvigionarsi di fondi per emettere crediti fiscali. Li crea dal nulla, come se si trattasse di una moneta fiat.

TRE, per lo stesso motivo, all’atto dell’emissione i crediti fiscali non producono nessun impatto sul fabbisogno di cassa dello Stato.

QUATTRO, è una bugia sfacciata, che purtroppo viene costantemente ripetuta, che il Superbonus 110% abbia prodotto un’enorme quantità di frodi. Già il 10 febbraio 2022 il direttore generale dell’agenzia delle entrate, in audizione presso la commissione bilancio del Senato, aveva chiarito che solo il 3% delle frodi accertate erano riconducibili al Superbonus. I principali “colpevoli” erano state altre categorie di bonus, in particolare il bonus facciate (46%) e l’ecobonus (34%). Il Superbonus 110% è nato con un sistema di controlli ed asseverazioni (successivamente anche rafforzati) che hanno limitato al minimo le frodi. Il che significa che le frodi non si eliminano bloccando la circolazione dei crediti (come hanno affermato Draghi tempo addietro, e Giorgetti ancora pochi giorni fa) ma introducendo un appropriato sistema di controlli – sull’emissione, non sulla circolazione. Ed è proprio il Superbonus a dimostrarlo !

Detto tutto ciò, il Superbonus ha dei difetti ? doveva essere costruito diversamente ? probabilmente sì, ma per motivi che non hanno nulla a che vedere né con le frodi né con la demonizzazione della Moneta Fiscale:

CINQUE, si sostiene che fosse eccessiva l’aliquota con cui è stato introdotto, il famoso 110%. Se si incentiva un importo addirittura superiore alla spesa effettiva viene meno la spinta, da parte di chi commissiona i lavori, a negoziare al meglio con l’azienda a cui vengono affidati. Va detto che il 110% è ripartito su cinque anni, quindi al momento della cessione del credito entra in gioco l’attualizzazione dei benefici futuri: per cui il valore riconosciuto dal compratore è sempre stato inferiore a 110%, e spesso anche a 100%. In ogni caso, questa obiezione ha un fondamento ma non mette in dubbio la validità dello strumento: casomai suggerisce (come del resto già è stato fatto) di abbassare l’aliquota di incentivo.

SEI, quello che è senz’altro un difetto del Superbonus è non aver previsto un limite dimensionale. Se non si fissa un limite totale di lavori incentivabili, per esempio su base annua, si rischia che le opere incentivate siano di ammontare superiore a quelle che il settore edilizio nazionale riesce a gestire. E questo sicuramente crea un collo di bottiglia e produce la lievitazione dei costi. Ma questo significa semplicemente che qualsiasi applicazione della Moneta Fiscale, così come qualsiasi politica economica espansiva, deve essere ben calibrata nelle sue dimensioni e modalità.

Altro che “metterla fuori corso”. La Moneta Fiscale, vale a dire i crediti fiscali trasferibili e utilizzabili in compensazione, sono uno strumento di enorme efficacia, e sarebbe folle che lo Stato italiano rinunciasse a utilizzarlo.

venerdì 17 febbraio 2023

Inflazione e tassi d’interesse

 

Parecchi economisti, soprattutto di scuola MMT, esprimono perplessità sul fatto che incrementare i tassi d’interesse produca il calo dell’inflazione. Cosa, questa, che sorprende molti commentatori. Il fatto che l’inflazione salga o scenda in funzione della disponibilità di credito a tassi, rispettivamente, più bassi o più alti, in genere è considerato un’ovvietà. Di sicuro, è quanto hanno in mente le principali banche centrali, Fed e BCE prime tra tutte.

Certo, tassi d’interesse più alti significa credito più caro, quindi rallentamento degli investimenti (soprattutto immobiliari, ma non solo) e dei consumi (in Italia il consumatore compra a credito meno che altrove, ma comunque molto più che in passato).

C’è anche un effetto ricchezza: maggiori tassi d’interesse deprimono il valore di mercato delle obbligazioni a tasso fisso e delle azioni. Il risparmiatore / investitore si sente quindi meno ricco e questo dovrebbe spingerlo a limitare le spese (anche se non è chiaro in che misura).

Tuttavia ci sono almeno due fenomeni rilevanti che puntano nella direzione opposta.

Il primo: la maggior parte dell’aziende hanno debiti finanziari e gli interessi che pagano su questi debiti sono un costo di gestione. Se il maggior costo del lavoro e delle materie prime le spinge a chiedere maggiori prezzi per i loro prodotti (quantomeno a provarci) non vale lo stesso per il costo del denaro ?

Il secondo: chi ha soldi da investire in titoli a reddito fisso ottiene una maggiore remunerazione. Più interessi attivi, in altri termini. Questo è a tutti gli effetti maggior reddito, e a parità di altre condizioni spinge consumi e prezzi al rialzo, non al ribasso.

Si può argomentare che il saldo netto di tutti questi effetti vada, in ogni caso, nella direzione di maggiori tassi => minore inflazione. Però non sono a conoscenza di nessuno studio che abbia cercato di quantificarli voce per voce, e di arrivare a una conclusione solida e ben fondata che ne dia evidenza. Magari esiste, e ringrazio chi nel caso me lo segnalerà.

Tuttavia tanto per cambiare il mantra delle banche centrali, alzare i tassi per ridurre l’inflazione, mi sembra alquanto dogmatico, e di efficacia quantomeno dubbia.

martedì 14 febbraio 2023

Rassegna stampa 10.2.2023 9MQ

Sul canale degli amici di 9MQ, venerdì scorso Fabio Conditi e io abbiamo prima commentato la rassegna stampa, poi (dal minuto 28'50") parlato di Moneta Fiscale, anche alla luce degli ultimi sviluppi su temi quali Superbonus ed Eurostat.

Qui sotto il video.




sabato 11 febbraio 2023

Dice Mike Norman…

 

…ben noto attivista MMT:

“There is no national “debt”. Period. Debt to whom ? What is owed ? This is the most ridicolous, idiotic argument that ever esisted. It is a reflection of complete and utter ignorance and the total indoctrination (gaslightning) of a citizenry about a non-issue.”

“Non esiste un “debito” nazionale. Punto. Debito verso chi ? Cosa è dovuto ? Questa è la discussione più ridicola e idiota che sia mai esistita. È un riflesso della completa e totale ignoranza e del totale indottrinamento di una cittadinanza su un non problema”.

Un problema in effetti, quello del debito pubblico, completamente inventato. Che diventa reale solo se qualcuno commette il tragico errore di convertirlo in moneta straniera, per esempio aderendo all'euro

martedì 7 febbraio 2023

Ancora sull’impatto della Brexit

 

Sempre sul tema Brexit, e sul confronto tra realtà e narrazione, riporto qui di seguito i dati aggiornati, forniti dal Fondo Monetario Internazionale a fine gennaio.

Per il 2022, siamo ormai a livello di consuntivi, sia pure preliminari (potrà esserci qualche aggiustamento, ma a livello di decimali).

Fatto pari a 100 il PIL 2019 (ultimo anno prima della Brexit), il livello 2022 del Regno Unito è addirittura il migliore tra i principali paesi europei: 101,4 contro 100,9 per Francia e Italia, 100,7 per la Germania, e 98,6 per la Spagna.

Obiettano gli euroausterici: il Regno Unito è l’unico per cui è prevista una variazione negativa del PIL nel 2023. Ma, a parte il fatto che qui siamo sulle previsioni, e le previsioni sono spessissimo disattese dalla realtà; a parte che il dato 2023 previsionale UK è ritenuto, da parecchi commentatori, dovuto a fenomeni diversi dalla Brexit (es. il conflitto tra il governo Truss, ormai dimissionato, e la Bank of England sul finanziamento del deficit pubblico, e le conseguenti turbolenze finanziarie)…


…a parte tutto questo, la posizione UK per il 2023 sarebbe comunque all’interno del campione: 100,8 come la Germania, sotto il 101,6 francese e il 101,5 italiano, ma meglio del 99,7 spagnolo.

Il disastro economico della Brexit è una fantasia degli euroausterici, o per meglio dire una delle solite operazioni propagandistiche di Bruxelles: cercare di convincere l’opinione pubblica che fuori dalla UE c’è solo pianto e stridor di denti.

Senza che i dati lo confermino, neanche lontanamente.


sabato 4 febbraio 2023

La Moneta Fiscale è più viva che mai

 

Lo scorso 1° febbraio, Eurostat ha pubblicato l’edizione aggiornata del Manual on Government Deficit and Debt (MGDD), e molti commentatori l’hanno interpretata come una campana a morto per la Moneta Fiscale.

Le edizioni precedenti del MGDD contenevano un concetto molto semplice e chiaro: concorrevano alla determinazione del deficit e del debito pubblico i  crediti verso l’erario che, se non utilizzati dal titolare per compensare (quindi per ridurre, o azzerare) il pagamento di tributi, dovevano comunque essere rimborsati cash dalla pubblica amministrazione. Si parla dei cosiddetti payable tax credits, e il concetto appare evidente dalla denominazione stessa.

I crediti utilizzabili in compensazione ma senza diritto al rimborso cash erano invece non payable tax credits, e non concorrevano al deficit e al debito pubblico.

Il nuovo MGDD invece introduce un nuovo concetto. Con una capriola semantica e logica degna di miglior causa, afferma che vanno considerati payable tax credits quelli che hanno elevata probabilità di essere effettivamente utilizzati, anche se non danno diritto a rimborso, mentre i non payable tax credits sono solo quelli che, oltre a non essere rimborsabili, hanno significative possibilità di scadere senza che nessuno li utilizzi.

Per comprendere se un credito fiscale sia payable o meno, occorre a questo punto tenere in considerazione vari fattori. Se un credito può essere ceduto a terzi, le probabilità di utilizzo aumentano, perché il compratore non effettuerebbe l’acquisto se non prevedesse ragionevolmente di utilizzarli. Ma ci sono altre cose da tenere in considerazione: la probabilità di utilizzo aumenta se il credito (anche quando non è trasferibile) ha durata temporale lunga, o addirittura indefinita; se può essere utilizzato per compensare una varietà di tributi, e non una sola categoria; se viene attribuito a soggetti tendenzialmente “capienti”; eccetera.

Riguardo alla “capienza”, prendiamo per esempio il caso dei super-ammortamenti / iper-ammortamenti, cioè dei vari provvedimenti che hanno consentito in passato di ammortizzare per un valore superiore al costo d’acquisto, a fini fiscali, cespiti acquistati da un’azienda.

I super- e iper-ammortamenti non sono mai stati trasferibili, ma è chiaro che un’azienda, prima di investire in un bene strumentale, valuta attentamente se sarà in grado di utilizzare il beneficio fiscale. Naturalmente si può sbagliare, ma è difficile che i risultati futuri siano così negativi da non permettere mai l’utilizzo totale del beneficio. A questo punto bisognerebbe affermare che i super-ammortamenti, gli iper-ammortamenti, ma a ben guardare anche gli ammortamenti ordinari (!), siano payable tax credits, da classificare nel deficit e nel debito pubblico.

Un’evidente assurdità, che nessuno si è mai sognato di sostenere. Ma diventa una possibilità concreta alla luce del nuovo MGDD.

Sorgono poi altre domande. Chi determina la probabilità che un beneficio fiscale verrà utilizzato o andrà perso ? con quali criteri ? a quale percentuale si pone la “significativa probabilità” che il beneficio fiscale non verrà utilizzato ?

E ancora: poniamo che la stima probabilistica (effettuata non si sa da chi e non si sa con quali criteri) dell’utilizzo sia il 90% per un provvedimento, e il 50% per un altro.

La conseguenza è che nel primo caso, il costo fiscale del provvedimento sarà sovrastimato del 10% (perché verrà considerato deficit e debito per 100 quando in realtà l’impatto sarà 90). Nel secondo caso il costo fiscale verrà invece stimato zero: quindi si ignorerà totalmente, ai fini del calcolo del deficit e del debito, un provvedimento che comunque genererà, a parità di condizioni, un impatto fiscale pari a metà dell’importo massimo.

Il nuovo MGDD, in altri termini, delinea un capolavoro di arbitrarietà, di ambiguità e di incoerenza.

Detto tutto ciò, la Moneta Fiscale, cioè la possibilità di emettere crediti fiscali non payable (secondo la precedente, chiara e logica, definizione) e di farli liberamente circolare, è morta ? E nello specifico, lasciamo nei guai i titolari di crediti fiscali attribuiti a seguito del Superbonus 110% e degli altri provvedimenti introdotti a beneficio del settore immobiliare ?

Ma neanche per idea.

Il nuovo MGDD è stato pubblicato lo scorso 1° febbraio 2023, ma i suoi contenuti si stavano delineando già da parecchio tempo. Erano in corso interlocuzioni tra MEF, ISTAT ed Eurostat, e si stava parlando di quanto poi ha trovato concretizzazione.

Stefano Sylos Labini già il 29 giugno 2021 aveva quindi pubblicato su Milano Finanza un articolo che esprimeva una serie di dubbi e di preoccupazioni.

Pochi giorni dopo, sempre su Milano Finanza è uscita una replica di Davide Colombo, Direttore Relazioni Esterne e Ufficio Stampa ISTAT. La parte finale della replica è illuminante e la riporto testualmente.

“La differenza tra la spesa [pubblica] di competenza del primo anno e i crediti d’imposta già usufruiti, dà luogo a una passività finanziaria per lo Stato.

Tale passività finanziaria è classificata come other accounts e non rientra tra quelle che concorrono alla definizione del debito di Maastricht, quindi è errato affermare che la contabilizzazione di crediti payable abbia un impatto sul debito. L’utilizzo negli anni successivi dei crediti d’imposta payable da parte dei contribuenti riduce progressivamente tali passività finanziarie fino ad azzerarle”.

Che cosa significa ?

Il debito di Maastricht è quello rilevante per i trattati. Quello che viene costantemente monitorato e riguardo al quale la Commissione Europea discute con gli Stati gli obbiettivi di contenimento e di riduzione.

Esistono passività che sono inequivocabilmente debiti e che vanno quindi pagati, ma che non concorrono alla determinazione del debito di Maastricht. Sono appunto quelle che vengono classificate negli other accounts.

Una fattispecie di queste passività finanziarie sono i debiti di fornitura della pubblica amministrazione.

Un’altra fattispecie sono… i payable tax credits ! L'avevo già constatato diversi anni fa. I payable tax credits sono semplicemente IGNORATI, NON RICOMPRESI, nella determinazione del debito di Maastricht.

Sono ignorati anche se esistono, e in alcuni casi sono anche trasferibili e attivamente scambiati. Io personalmente ho collaborato per diversi anni con un’organizzazione finanziaria che compra crediti fiscali a sconto (soprattutto crediti IVA) e poi aspetta tranquillamente di essere rimborsata, generando così i suoi utili. Esiste un mercato di dimensioni significative, e molto attivo, che opera in questo segmento di attività.

Per maggiore chiarezza, quello che il dottor Colombo dell’ISTAT ci sta dicendo è: i payable tax credit quando sono emessi costituiscono spesa pubblica. Entro fine anno in parte verranno utilizzati (o rimborsati), e la parte ancora in essere costituirà una passività finanziaria dello Stato. Passività finanziaria dello Stato che si estinguerà negli anni successivi via via che avranno luogo i rimborsi, o le compensazioni, o l’estinzione per scadenza dei termini. Ma questa passività finanziaria NON È MAI RICOMPRESA NEL DEBITO DI MAASTRICHT.

A questo punto la conclusione è…

MA CHI SE NE FREGA DEL MGDD ???

L’emissione di crediti fiscali liberamente trasferibili è perfettamente possibile e non incide sul debito di Maastricht. Questo, sia che li chiamiamo payable che non payable che Amilcare che Giovanni.

Liberalizziamo quindi completamente la circolazione dei crediti d’imposta immobiliari, Superbonus e altri.

E utilizziamo lo strumento dei crediti fiscali trasferibili per tutte le azioni di politica economica che il governo riterrà opportune.

Non avremo nessun impatto sul debito di Maastricht, mentre recupereremo un amplissimo margine di autonomia nella gestione della politica economica italiana.

 

mercoledì 1 febbraio 2023

L’alternanza scuola-lavoro

 

Ogni tanto si riparla dell’alternanza scuola-lavoro, cioè del provvedimento normativo in base al quale i ragazzi, agli ultimi anni delle scuole superiori, devono passare un paio di settimane a svolgere un qualche tipo di attività presso un’azienda.

Quello che però forse sfugge è l’origine di questa innovazione. Si tratta, in effetti, di un grosso (ma non certo unico) esempio di ipocrisia.

Le deliranti politiche di austerità “prescritte” dalla UE e attuate in Italia soprattutto dei governi Monti e Letta hanno prodotto, tra i loro vari effetti nocivi, un forte incremento della disoccupazione giovanile.

Non solo di quella, in realtà. Trovare un lavoro, e trovarlo a condizioni stabili e dignitose, è diventato molto più difficile per i giovani, per i meno giovani e per i non più giovani. In sintesi, per tutti.

Ma la disoccupazione e la precarizzazione delle nuove leve hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica in modo particolarmente significativo.

Poteva, l’establishment, ammettere che questa era la conseguenza delle “politiche di risanamento” e delle “riforme strutturali”, nomi con i quali viene chiamata l’euroausterità ?

Certo che no, ovviamente non poteva. DOVEVA esserci un’altra ragione. Eccola presto identificata: i giovani non trovano lavoro non perché la domanda interna è massacrata da tagli e tasse. I giovani non trovano lavoro perché “la scuola trascura le competenze e la formazione necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro moderno”.

Soluzione ? prendere i diciottenni e far passare loro una decina di giorni in qualche organizzazione aziendale, a fare fotocopie (ma si fanno ancora le fotocopie ?) o a riordinare gli scatoloni negli scantinati.

Si capisce benissimo che ne nasce un contributo determinante a elevare gli skills necessari a muoversi nell’odierno mondo del lavoro infotelematicodigitalvirtuale.

Tutto questo è in perfetto stile euroausterico: creare un problema, rifiutare di riconoscerne le cause, e attivare interventi che non lo risolvono.

venerdì 27 gennaio 2023

Brexit, un disastro immaginario

 

Parecchie persone sembrano essere convinte che il Regno Unito sia nel bel mezzo di una catastrofe economica provocata dalla Brexit. Non li biasimo (non troppo, almeno): è facile essere fuorviati se ci si informa sugli organi allineati all’establishment, quelli che chissà perché sono da alcuni considerati “prestigiosi e affidabili”.

In Italia, mi riferisco in particolare al quartetto Stampa - Repubblica – Corsera – Sole 24 Ore, che su questi temi riciclano ossequiosamente le veline che arrivano da qualche scribacchino di Bruxelles (il Sole salvando un po’ di più le apparenze, Stampubblica segnalandosi invece come il più esagitato corifeo proUE).

C’è però anche qualcuno che va a controllare i dati. La Brexit è avvenuta il 31 gennaio 2020. Se fosse quel disastro di cui alcuni favoleggiano, a distanza di tre anni dovremmo constatare un andamento del PIL britannico molto peggiore di quello degli altri principali paesi europei, giusto ?

Beh, le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale ci fanno sapere che fatto pari a 100 il livello 2019, il Regno Unito nel 2022 era a 100,4. Un pelo sotto la Francia (100,7) ma meglio di Italia (100,2), Germania (99,3) e Spagna (97,8).

Al che qualcuno replica che “si vabbè ma nel 2023 il Regno Unito di questi paesi sarà l’unico in recessione”.

Sempre il FMI stima invece per il Regno Unito un PIL in crescita dello 0,3%, mentre prevede un calo per l’Italia (-0,2%) e per la Germania (-0,3%).

Sono differenze di decimali, e non significano un granché. Ma una cosa è evidente: il disastro economico prodotto dalla Brexit è pura immaginazione.

O per essere più precisi, pura propaganda, priva di fondamento e di riscontro nei dati.

martedì 24 gennaio 2023

Mercati azionari nel 2023

 

Prevedere l’andamento della borsa su un arco temporale di un anno è un esercizio rischioso, o forse semplicemente inutile. Le previsioni di borsa funzionano al contrario delle previsioni meteorologiche: sono affidabili nel lungo termine ma niente affatto nel breve (oddio, l’affidabilità del meteo a breve ultimamente mi dà l’idea di essere un po’ in declino. Ma questa è un’altra storia).

Tutto ciò premesso, provarci mi riesce comunque più divertente (anche se non necessariamente più utile, appunto) che leggere un oroscopo. Per cui, mi cimento.

Una volta tanto (e ne sono sorpreso) la mia previsione è in linea con quella delle principali banche d’affari. Vedo una borsa USA piatta da qui a fine anno. L’SP500 ha chiuso il 2022 a 3.840, e non sarei affatto stupito di rivedere lo stesso livello, o giù di lì, a fine 2023.

La ragione di questa “piattezza” è l’azione di due fenomeni contrapposti. Da un lato, i timori di una forte recessione sono francamente eccessivi. Se ci sarà, si tratterà di una contrazione blanda e breve. I danni prodotti dalle tensioni sul fronte degli approvvigionamenti energetici si stanno rivelando meno gravi e più gestibili di quanto si temesse, anche in Europa. Gli USA poi sono energeticamente autosufficienti, per cui il problema per loro è pressoché inesistente. Quindi l’economia reale andrà meglio di quanto si temesse uno o due mesi fa.

Dall’altro lato, c’è però l’effetto della salita dei tassi d’interesse. Che come azione di contenimento dell’inflazione in realtà è ben poco efficace, perché l’inflazione è causata molto più da problemi di forniture e approvvigionamenti (non solo di energia) che da eccessi di domanda (questo soprattutto in Europa, la situazione USA è più variegata). Ma le banche centrali non hanno altri strumenti di contrasto, e, come si diceva in altra sede, picchiano il chiodo con il martello, e pazienza se poi scopriranno che era una vite.

L’inflazione per la verità sembra aver intrapreso un percorso discendente rispetto ai picchi del terzo trimestre 2022. Per cui i mercati oscillano tra la speranza che gli incrementi dei tassi si fermino presto, e le smentite delle banche centrali: Fed e BCE insistono a ribadire che la stabilizzazione dei tassi non è vicina o comunque non ha una data prevedibile.

Combinando il tutto – economia meno debole del previsto ma comunque certo non smagliante, valutazioni che hanno corretto parecchio nel 2022 ma che non si possono definire “stracciate”, politica monetaria difficile da leggere ma in ogni caso tendente a diventare più restrittiva – c’è da aspettarsi una borsa che andrà avanti a docce scozzesi: brevi momenti di euforia seguiti da storni altrettanto rapidi.

Fino a quando ? probabilmente l’inflazione continuerà a scendere e si porterà vicino, se non proprio centrerà, l’obiettivo del 2% verso fine anno.

A quel punto, i casi sono due: o l’economia sarà rimasta sufficientemente solida – e allora le valutazioni di borsa avranno spazio per salire – oppure si sarà indebolita più del previsto – e allora la Fed (non giurerei la BCE) giudicherà che i tassi possono non solo stabilizzarsi, ma essere abbassati: anche in questo caso, giustificando un recupero del mercato azionario.

In definitiva, il 2023 non sarà un anno di grandi soddisfazioni per l’investitore borsistico. Al massimo si può pensare a qualche spunto positivo a novembre-dicembre. Giusto come “acconto” dell’anno buono, che sarà il prossimo, il 2024.