mercoledì 27 dicembre 2023

UE e democrazia

 

Conversando con alcuni interlocutori, li ho sentiti argomentare che è sbagliato imputare alla UE una carenza di democrazia. Motivo ? tutti gli Stati appartenenti all’unione sono democratici, e hanno assunto con metodi democratici le decisioni relative alle cessioni di sovranità.

Questa linea di pensiero contrasta però con l’osservazione che Mussolini e Hitler sono diventati capi dei rispettivi governi a seguito di elezioni, e anzi, all’inizio, formando coalizioni con altri partiti. Poi in pochi anni (Mussolini) o mesi (Hitler) hanno creato regimi dittatoriali, con leggi e modifiche costituzionali approvate dai rispettivi parlamenti.

Con questo non voglio mettere la UE, Mussolini e Hitler sullo stesso piano. Ma voglio far notare che l’assenza di democraticità non si valuta sul processo che l’ha causata, ma sul risultato finale.

Se, riguardo in particolare alla sfera economica, uno Stato è forzato ad adottare politiche disallineate con le opinioni e con le richieste della maggioranza degli elettori, senza che ne esista una necessità oggettiva, la democrazia diventa un simulacro privo di contenuto.

E le regole di governance della UE e soprattutto dell’Eurozona generano questo rischio, che spesso e volentieri si è trasformato in un accadimento concreto.

Gli Stati membri della UE sono democratici. Il processo di formazione della UE e dell’Eurozona si è sviluppato rispettando la democrazia.

Ma il risultato finale è stata la generazione di un pesantissimo deficit di democrazia.

 

sabato 23 dicembre 2023

Calenda incoraggiante suo malgrado

 

Se le opinioni di Carlo Calenda hanno una qualche plausibilità (il dubbio è lecito) questa sua affermazione (dell'altroieri) in merito al patto di stabilità lascia ben sperare:

"Sul patto di stabilità è chiara è netta la vittoria della Germania: avremo più vincoli e più automatismi nelle procedure di infrazione e nelle multe. L'Italia si accontenta di ottenere "la grazia" per tre anni. E' la differenza tra noi e i tedeschi. Chi pensa per i prossimi vent'anni e chi pensa alle prossime elezioni".

Lascia ben sperare perché confermerebbe l’ipotesi che il patto di stabilità sia destinato a dare luogo a effetti modesti nel breve-medio termine.

Dopodiché – questo non lo dice Calenda ma lo penso io - dopo tre anni, cioè nel 2027, si prenderà atto che far scattare le misure restrittive previste dopo il periodo di “grazia” risulterà impossibile.

Si ripartirà quindi da capo ad architettare qualcosa di diverso. Probabilmente con un patto ancora insensato ma con altri tre anni, o giù di lì, di grazia. E di grazia in grazia chissà che l’Eurozona non finisca per avviarsi su un percorso minimamente sensato.

Non è il massimo, ma che fare se da un lato abbiamo un governo che chissà perché non percorre le vie realmente risolutive, quali l'emissione di Moneta Fiscale; e dall’altro interlocutori convinti che il Sole giri intorno alla Terra ?

E’ quasi superfluo sottolineare che i tedeschi non pensano “ai prossimi vent’anni” (come crede Calenda). O se lo pensano sono degli autoillusi. Perché insistono a promuovere schemi di azione che hanno dimostrato di essere inapplicabili e/o fallimentari.

O ancora, forse sono proprio i tedeschi che pensano alle prossime elezioni, convinti (magari a ragione) che in Germania i voti si prendano ringhiando contro gli “spendaccioni del Sud”.

Sempre volendo proseguire sulla strada del cautissimo ottimismo, qualcosa di simile a Calenda lo afferma Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

"Almost surely, after a few years (some countries get a temporary break) the rules will prove unworkable. They can and probably will be adjusted, but it would have been better to get them right from the start".

Anche lui, come si vede, è convinto che dopo il temporary break, altrimenti detto dopo il periodo di grazia, le regole si dimostreranno inapplicabili.

Certo, sarebbe stato meglio partire subito con il piede giusto, dice Blanchard. Ma questo è veramente pretendere troppo dalla UE.




 

giovedì 21 dicembre 2023

Patto di stabilità: che cosa sperare

 

Inaspettatamente, il nuovo patto di instabilità e stagnazione è stato approvato dall’Ecofin di ieri. Per valutarne i contenuti bisogna aspettare i dettagli, ma metto le mani avanti: non mi aspetto nulla di positivo per la semplice ragione che questi patti sono impostati sul concetto che deficit e debito pubblico siano di per sé una cosa cattiva e che qualsiasi sforzo di riduzione debba sempre e comunque essere considerato positivo.

Quindi è come pretendere di mandare un razzo su Marte partendo dal presupposto che il sistema tolemaico sia corretto, che i pianeti girino intorno alla Terra.

Una cosa che mi sembra di capire, con riserva di verifica, è che l’assenso è stato dato, in particolare dall’Italia, facendo affidamento su una serie di eccezioni, esclusioni, limitazioni e rinvii che dovrebbero rendere marginale o comunque non sostanziale l’impatto dei nuovi accordi fino al 2027.

E siccome tre o quattro anni in politica sono l’eternità, avanti così e poi si vede.

Ovviamente non è l’ideale. E non è neanche niente di cui rallegrarsi. Diciamo che c’è una speranza, forse flebile ma chissà, che il nuovo patto risulti inutile, nel senso di inapplicabile o comunque senza effetti sensibili. Che è meglio dell’alternativa: che sia deleterio.

Poi si può sempre sperare che da qui al 2027 a Bruxelles si rendano conto che avevano ragione Copernico, Galileo e Keplero.

O magari che da qui al 2027 cessi di esistere la UE.

 

martedì 19 dicembre 2023

Ma quanti economisti cascano sulla partita doppia ?

 

Sul sito Eurointelligence, promosso e coordinato da Wolfgang Munchau, leggo oggi un pezzo di analisi economica che inizia con il seguente paragrafo:

Per essere (stando all’articolo) un “grande economista monetario”, Charles Goodhart dimostra di avere qualche “piccola” lacuna in materia di ragioneria, partita doppia e contabilità nazionale. La prima ragione da lui citata per temere che l’occidente sia destinato a una crisi fiscale è infatti il livello troppo basso dei tassi di risparmio.

Per cui non si riuscirebbe a finanziare i deficit pubblici salvo monetizzarli, creando inflazione incontrollata.

Caro Goodhart, ma è così difficile capire che, essendo il deficit del settore pubblico pari all’eccesso della spesa governativa rispetto alle tasse raccolte, il deficit medesimo si traduce, centesimo per centesimo, in FORMAZIONE DI RISPARMIO PRIVATO ?

I soldi immessi nell’economia tramite il deficit pubblico NON SI BRUCIANO. Rimangono all’interno del settore privato. Certo, circolano perché chi li riceve a un certo punto li spende. Ma spendendoli, li passa a un altro esponente del settore privato stesso – azienda o individuo che sia. Sempre risparmio privato di qualcuno è.

Le economie occidentali potrebbero non riuscire a raggiungere i loro obiettivi perché cercano di produrre beni e servizi eccedenti la loro capacità produttiva. Questo potrebbe creare problemi dal lato dei deficit COMMERCIALI esteri, oppure generare eccessi di inflazione.

Ma la supposta “carenza di risparmio privato” non c’entra veramente, MA VERAMENTE, NULLA.

 


sabato 16 dicembre 2023

I negazionisti dell’austerità

 

C’è da riflettere su questo scambio di tweet.

C’è ancora in circolazione qualche mohicano che nega l’attuazione di politiche di austerità da parte dell’Italia, e i danni conseguenti.

Il punto è che secondo questi commentatori, inclusi quelli che vantano titoli accademici, non c’è austerità se il bilancio pubblico rimane in deficit, e non c’è austerità se il debito pubblico comunque continua a crescere in rapporto al PIL.

La verità è che l’Italia è stata letteralmente massacrata da IMU, riforma Fornero, aumento dell’IVA, tagli di spesa e investimenti pubblici, soprattutto per effetto delle “ricette” UE adottate tra il 2011 e il 2013, e ha proseguito a ricercare ossessivamente il contenimento del deficit pubblico fino al 2019, prima che il Covid sparigliasse le carte.

Certo, il bilancio pubblico non ha mai raggiunto il pareggio. Certo, il debito in rapporto al PIL non è diminuito. Ma questo dimostra soltanto che l’austerità, che c’è stata, è stata catastrofica, fallimentare. A partire da metà 2011, abbiamo subito piacevolezze quali tredici trimestri consecutivi di contrazione del PIL, decine di migliaia di fallimenti, il raddoppio della popolazione in condizione di povertà assoluta.

E la caduta del PIL e di conseguenza del gettito fiscale ha azzerato i presunti benefici dell’austerità su debito e deficit.

L’austerità non si misura sulla base di uno specifico livello, o di una specifica variazione, di deficit e debito.

C’è austerità quando il deficit pubblico è insufficiente a garantire il pieno impiego delle forze produttive del paese, nonostante non sussistano problemi di inflazione né di deficit estero da finanziare in valuta. Problemi di cui l’Italia non soffriva.

Sì, l’austerità c’è stata. E sì, è stata un disastro.

 


mercoledì 13 dicembre 2023

Warren Buffett non è un macroeconomista

 

Per chi fa il mio mestiere, cioè per chi si occupa di finanza e di investimenti, Warren Buffett è assolutamente un mito. Un uomo che ha accumulato, investendo in borsa e in acquisti di aziende, un patrimonio dell’ordine di un centinaio di miliardi. Un caso unico nella storia.

Verrebbe da pensare che competenze come le sue gli consentano di formulare idee di grande interesse anche nel campo della macroeconomia. Ma non è così.

Alcuni anni fa, Buffett propose un’innovazione legislativa per eliminare il deficit commerciale USA. Non ricordo i dettagli, ma se non sbaglio aveva a che fare con l’assegnazione di “diritti negoziabili a importare” alle aziende che esportano. In tal modo l’importatore potrebbe importare solo nella misura in cui esporta, OPPURE nella misura in cui acquista diritti da un esportatore che non li usa.

Il meccanismo potrebbe anche funzionare. Il punto però è che risolverebbe un non problema. Il deficit commerciale USA è finanziato emettendo dollari, gli USA emettono dollari, e quindi pareggiare la bilancia commerciale per gli USA non è affatto una necessità e neanche qualcosa di particolarmente utile.

A distanza di anni, Warren non lascia ma raddoppia: propone l’introduzione di una normativa tale per cui i deputati in carica negli anni in cui il deficit pubblico supera il 3% diventino automaticamente non rieleggibili. Se hai contribuito a “sfondare i conti pubblici”, finito il mandato vai a casa.

Buffett conferma così di non aver capito la natura del deficit e del debito pubblico. Non sono “oneri sulle future generazioni”. Il deficit pubblico è uno strumento di regolazione della domanda di beni e servizi, nonché un meccanismo di immissione nell’economia di strumenti finanziari che DEVONO crescere di pari passo con lo sviluppo del sistema produttivo. E il debito pubblico è uno strumento di impiego del risparmio privato che viene AUTOMATICAMENTE generato dal deficit pubblico.

L’applicazione della proposta sarebbe disastrosa perché non esiste un livello massimo di deficit pubblico che necessariamente non debba essere superato. In certi anni può essere appropriato un deficit più basso del 3% (lo stesso 3% del trattato di Maastricht, vedi la combinazione). In altri, un livello decisamente più alto.

Prevedo comunque che la proposta incontrerà parecchi consensi nella pubblica opinione (al grido di “a casa gli spreconi”). Poi per fortuna non se ne farà nulla.

Fa riflettere però che un uomo del calibro di Buffett cada, insieme a tante persone comuni, in questi equivoci.

domenica 10 dicembre 2023

La non riforma del patto di stabilità

 

Siamo arrivati al 10 dicembre, e l’accordo per riformare il patto di stabilità UE non è alle viste. Si sente esprimere molta preoccupazione da parte di parecchi commentatori che prevedono sciagure se l’accordo non si troverà entro fine anno. Di frequente, sono gli stessi che propagandavano la mirabile efficacia del vecchio patto e la necessità imprescindibile di rispettarlo ossequiosamente.

Ma oggi ci dicono che il vecchio patto “non è più adeguato ai tempi” e quindi le sciagure potrebbero arrivare se non lo modifichiamo.

La verità è che il vecchio patto era un disastro mentre le proposte di riforma invece pure. Questo molti dei ministri che lo stanno negoziando lo comprendono, anche se non lo dicono ad alta voce, ed è la ragione per cui l’accordo non si trova.

Hanno ragione quelli che affermano che è meglio non riformare niente e tenersi il vecchio patto: il quale ha quantomeno il “merito” di restare in larga misura lettera morta perché è impossibile da rispettare. E quindi ha fatto danni, ma c’è il rischio che la riforma produca effetti peggiori perché partorirebbe qualcosa di altrettanto negativo, con l’aggravante che si tenterebbe – almeno in una fase iniziale – di farlo mettere in atto.

L’accordo su un patto di stabilità sensato è impossibile da trovare per una ragione molto semplice. L’esigenza di averne uno nasce da un presupposto completamente falso: che il deficit e il debito pubblico siano un male necessario e che occorrano il migliore impegno e i migliori sforzi per contenerli.

Il deficit pubblico è invece un necessario strumento di regolazione della domanda interna e il debito pubblico è un servizio di impiego del risparmio privato offerto ai cittadini.

Non è affatto vero che meno deficit e meno debito siano necessariamente meglio di più deficit e di più debito. Sono strumenti di gestione macroeconomica che vanno utilizzati nelle giuste proporzioni e con la giusta composizione, per ottenere i migliori livelli di crescita e di occupazione compatibili con la stabilità dei prezzi e del sistema finanziario.

Le giuste proporzioni e la giusta composizione non si ottengono con un algoritmo, e soprattutto non si ottengono avendo in mente che l’unico deficit e l’unico debito buono siano quelli morti.

A Bruxelles e a Francoforte questo non viene capito, o comunque non viene riconosciuto. Per cui meglio nessuna riforma e tenersi il patto vecchio, continuando a non rispettarlo e a considerarlo quello che è: un pezzo di carta partorito da un delirio burocratico, da mettere in un cassetto e da ignorare.

 

giovedì 7 dicembre 2023

“Emergenza climatica” e “crisi del capitalismo”

 

Merita qualche riflessione e qualche commento questo sintetico tweet di Lidia Undiemi.

Io non credo alla “crisi inevitabile del capitalismo”, se per capitalismo intendiamo un sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo sviluppo economico mondiale sta proseguendo, e la crescita è trainata da paesi fino a pochi decenni o a pochi anni fa sottosviluppati, ma oggi sempre più vicini agli standard di efficienza produttiva e di reddito procapite del mondo occidentale.

E l’economia di questi paesi è imperniata, su aziende a proprietà privata, o quanto meno lascia loro ampi spazi di azione. In questo senso, quindi, il capitalismo non è in crisi. Casomai, il caso della Cina non prova che il capitalismo è in crisi. Prova che può svilupparsi anche in assenza di democrazia. Non una buona notizia: ma non è un indicatore di crisi.

Mi pare corretta però la prima parte del tweet: sì, l’emergenza climatica è un tentativo di riconversione industriale a consumo forzato. Ma neanche questo è un sintomo di crisi del capitalismo. E’ un sintomo della tendenza, dell’avidità umana ancora prima che del capitalismo, a creare situazioni di tensione per aumentare la concentrazione di ricchezza, ma più ancora di potere, nelle mani dell’establishment.

Le tensioni economiche e sociali sono il presupposto per attivare grandi processi di cambiamento. E se il presupposto non esiste lo si crea. Non è più un presupposto ma un pretesto. Ma va bene lo stesso se i processi si attivano. Perché qualcuno li governa, e dal governo del cambiamento nascono opportunità di ricchezza e di potere. Enormi.

Non c’è una “crisi inevitabile del capitalismo”. C’è la necessità, come c’è sempre stata, di creare un sistema di contrappesi e controlli che eviti la tendenza dell’establishment ad accentrare smodatamente, senza limitazioni, senza rispettare principi etici e diritti collettivi, potere e ricchezza.

martedì 5 dicembre 2023

Draghi sopravvalutato ?

 

Vedo porre questa domanda. Mario Draghi è sopravvalutato ? al di là dell’opinione che se ne può avere, positiva o negativa, al di là di considerarlo un agente del bene o del male, forse si è costruita un’immagine troppo enfatica in merito alle sue capacità, alla sua influenza, alla portata della sua azione ?

La risposta a mio parere è affermativa, ma non perché lo ritenga un incompetente.

Draghi è senz’altro un uomo molto abile, senz’altro parecchio superiore alla grande maggioranza dei burocrati che stanno ai vertici delle grandi istituzioni sovranazionali, dei ministeri economici, delle banche centrali.

Questa abilità l’ha utilizzata soprattutto per accreditarsi di fronte ai potentati economici e finanziari, e su questo ha costruito una formidabile carriera.

Se poi la sua azione sia da giudicare positivamente o negativamente, dipende dall’opinione che si ha in merito alle finalità di questi potentati. La mia la conoscete.

Draghi però non ha dimostrata quella superiore comprensione dei fenomeni economici, e men che meno di quelli geopolitici, che i media allineati all’establishment gli attribuiscono.

Dicendo che non l’ha dimostrata non intendo affermare che non la possieda. Non lo escludo. Ma neanche ne ho le prove.

Forse, ad esempio, Draghi saprebbe come riformare la governance economica dell’Eurozona in senso progressivo, inclusivo, rispettoso del benessere collettivo, in grado di ridurre le diseguaglianze.

Forse lo saprebbe e forse no.

Ma quando si è seduto su prestigiosissime poltrone, chiaramente non era lì per fare quello, non era lì per conseguire quelle finalità.

E’ stato posto ai vertici di importantissime istituzioni per fare qualcos’altro, e deve la sua carriera al fatto di essere stato ritenuto la persona migliore per ottenere questo qualcos’altro.

Credo e spero che questo “altro”, a medio e lungo termine, si rivelerà un progetto inattuabile. Che il pendolo oscillerà in un’altra direzione.

E di conseguenza Mario Draghi non sarà ricordato come un grande statista, né come un grande economista, né tantomeno come un grande personaggio storico.

 

venerdì 1 dicembre 2023

L’euro: creare un rischio gravissimo senza ragione

 

Essere indebitati è un fattore di rischio. Questo credo che non lo possa contestare nessuno. Non che prendere soldi a prestito sia necessariamente un errore. Dipende dalle dimensioni del finanziamento, e dipende dalle sue finalità. Però è fuori discussione che a parità di ogni altra condizione, un’azienda o un individuo sono meno a rischio se non hanno debiti.

Quando si parla di un paese nella sua interezza, tuttavia, è necessario distinguere. Un debito pubblico denominato nella moneta sovrana del paese stesso non crea rischi d’insolvenza. Lo Stato potrà sempre emettere la moneta necessaria per rimborsare il debito pubblico via via che arriva a scadenza. Inoltre, potrà sempre sostenere settori economici o aziende in difficoltà, se l’eccesso di indebitamento rischia di creare dissesti che abbiano ripercussioni gravi sull’economia nazionale.

Inoltre, un debito denominato in moneta straniera non crea rischi di insolvenza SE la moneta è più debole di quella che il paese stesso è in grado di emettere (anche nel caso in cui al momento non lo stia facendo). Il debito per la Germania non è un problema perché nessun creditore teme un’insolvenza sistemica. Il debito è in euro e se la Germania tornasse a emettere marchi, il marco sarebbe una moneta più forte dell’euro. Il creditore della Germania quindi non ha timore che la Germania possa essere forzata al default.

Un debito denominato in moneta straniera è invece rischiosissimo se è denominato in moneta PIU’ FORTE della propria. Il debito pubblico italiano è un problema perché (e solo perché) la lira, se tornassimo a emetterla, sarebbe una moneta più debole dell’euro. La forza dell’euro è a un livello intermedio tra quella storicamente constatata per le valute forti dell’eurozona, quali il marco, e le valute deboli, quali la lira.

L’euro ha reso rischioso il debito italiano, ma non quello tedesco.

Questo rischio è la vera palla al piede dell’economia italiana. L’abbiamo creato senza alcuna ragione, entrando nell’euro. Abbiamo generato le condizioni per produrre alla nostra economia, al nostro sistema produttivo, al benessere dei nostri cittadini, un quarto di secolo (per ora) di guai.

Entrando nell’euro, il debito italiano in lire, pubblico e privato, è diventato debito in moneta straniera forte.

Una decisione scellerata.

martedì 28 novembre 2023

I problemi che la sovranità monetaria risolve

 

“Ma sei proprio convinto che eliminando l’euro / introducendo una moneta nazionale / ripristinando la sovranità monetaria l’Italia risolva tutti i problemi della sua economia ?”

No. E quando mai l’ho detto ?

Ho detto che ripristinare la sovranità monetaria risolve i problemi creati dalla sua ASSENZA.

Problemi che non sono di poco conto:

Essere forzati a politiche procicliche quando il contesto economico è già di suo debole.

Utilizzare una moneta che toglie competitività alle produzioni italiane, perché troppo forte per i fondamentali della nostra economia.

Delegare le decisioni di politica economica a entità esterne su cui l’elettorato italiano non ha influenza, e che non sono state create per, né hanno interesse a, operare per il benessere del nostro paese.

Tutti questi GRAVISSIMI problemi derivano dalla rinuncia a esercitare la sovranità monetaria del paese.

Se ti caricano sulle spalle uno zaino di cinquanta chili avrai problemi a camminare ? sì.

Se te lo togli correrai veloce come Marcell Jacobs ? no.

Ma camminerai meglio, più agevolmente, più rapidamente ? senz’altro.

giovedì 23 novembre 2023

Le confusioni sui saldi commerciali esteri

 

Alcune recenti discussioni su twitter, pardon su X, mi hanno fatto capire come il tema che pensavo di avere adeguatamente sviscerato in questo post generi ancora, invece, parecchie incomprensioni e confusioni.

L’argomento è: i deficit commerciali esteri sono un potenziale problema, per un paese ?

E la mia risposta, in sintesi, è che non lo sono se sono finanziati, direttamente o indirettamente, in moneta nazionale, cioè se il settore estero nel suo complesso è disposto ad aumentare le attività finanziarie nella moneta sovrana dell’importatore. Il che in pratica equivale a dire che il deficit commerciale è finanziato con emissione di moneta propria.

Altrimenti il paese in deficit aumenta il suo debito netto in moneta estera. E’ vero che si tratta di debito privato e non di debito pubblico, ma i debitori possono subire, in circostanze economiche negative, un dissesto che oltre certe proporzioni può mettere in difficoltà l’intera economia nazionale. E questo dissesto è molto più facile da “tamponare” se il passivo dei debitori privati è in moneta nazionale; decisamente più difficile se è in valuta straniera.

A questa argomentazione, mi sento spesso replicare che in realtà il problema non sussiste, perché l’importatore che deve pagare (poniamo) dollari ed è residente (poniamo) in Messico deve semplicemente andare dalla sua banca centrale e vendere pesos contro dollari, con i quali paga l’esportatore.

Piccolo dettaglio che questa linea di pensiero trascura: la banca centrale messicana per ottenere i dollari o si indebita, o li compra vendendo a sua volta pesos.

Ma in regime di cambio flessibile (mi si obietta) il cambio si aggiusterà in modo da consentirlo, giusto ? sarà quindi sempre possibile vendere pesos ottenendo dollari in quantità sufficiente.

Beh la risposta è che no, oltre certi livelli non è possibile. Altrimenti il Burundi (per esempio) potrebbe importare tutti i beni che vuole. Basterebbe emettere franchi burundiani e convertirli.

Il punto è che il cambio flessibile aiuta a gestire e anche a riassorbire i deficit commerciali da finanziare con pagamenti esteri. Ma solo entro certi limiti. Passati i quali, la pressione al ribasso sul cambio rende impossibile ottenere la valuta straniera nelle quantità necessarie.

Certo, gli USA non hanno problemi a finanziare il loro deficit commerciale – perché pagano dollari.

Certo, l’Australia ha registrato deficit commerciali per quarant’anni consecutivi senza generare difficoltà – perché il settore estero ha accettato di aumentare la sua detenzione di attività finanziarie in dollari australiani.

Ma non tutti i paesi si trovano in questa situazione. E quindi il deficit commerciale in moneta estera, cioè l’eccesso di importazioni pagate in valuta rispetto alle esportazioni a fronte delle quali si riceve valuta, ha un limite, oltre il quale diventa un problema.

mercoledì 22 novembre 2023

Milei può dollarizzare l’Argentina ?

 

Un curioso personaggio, Javier Milei, è stato eletto presidente dell’Argentina. Curioso per l’aspetto (folti basettoni che a me hanno ricordato quelli del suo predecessore di qualche decennio fa, Carlos Menem: a quanto pare i basettoni fanno colpo sull’elettorato locale), ma ancora di più per il suo programma di politica economica.

In comizi infuocati e ad alto contenuto di decibel, Milei ha promesso di tagliare sprechi “con la motosega”, di chiudere una decina di ministeri, di privatizzare di tutto di più, nonché di dollarizzare l’economia del paese.

In pratica quest’ultimo punto equivale ad abolire la banca centrale e la moneta nazionale, e a trasformare il dollaro USA nella moneta legale utilizzata all’interno del paese.

Proprio Menem, in collaborazione con il ministro dell’economia Domingo Cavallo, aveva messo in atto qualcosa di simile negli anni Novanta. Non abolendo il peso, ma fissando un tasso di conversione “irrevocabile” di uno a uno con il dollaro.

Il risultato fu che inizialmente affluirono in Argentina molti finanziamenti esteri, generando un boom economico. Finanziamenti attratti da alti tassi di interessi e dalla garanzia di pari valore dollaro / peso.

Dopo un po’ gli investitori esteri cominciarono a sospettare che il gioco non fosse destinato a reggere: i finanziamenti si ridussero a un rigagnolo, e la scarsità di moneta, dovuta all’insufficienza del sottostante con cui garantire la convertibilità, produsse una gravissima crisi deflattiva.

Effetto finale, negli ultimi giorni del 2001: default sul debito in valuta estera e revoca dell’”irrevocabile” impegno di conversione. Cioè svalutazione.

Se Milei riuscirà ad assicurarsi una sufficiente quantità di finanziamenti in dollari, potrà mettere in atto la sua proposta. Potrebbe anche in questo caso verificarsi un boom iniziale ma finirà come l’altra volta: con una tremenda crisi e con un default.

In effetti però c’è anche un’altra strada tramite la quale Milei potrebbe attuare il suo piano. Dare effettivamente valore legale al dollaro – che in ogni caso già oggi è ampiamente utilizzato all’interno del paese – ma nello stesso tempo utilizzare come strumento finanziario complementare un titolo emesso dallo Stato e accettato per pagare le tasse.

In altri termini, garantire un adeguato livello di circolazione monetaria affiancando al dollaro una Moneta Fiscale nazionale.

Sarebbe, certo, sorprendente se un presidente-economista di scuola austriaca finisse per implementare uno schema di finanza funzionale / MMT.

Chissà però, la vita è strana.

 

venerdì 17 novembre 2023

L’orgoglio della moneta forte

 

Tra le varie motivazioni (tutte sbagliate) che hanno condotto alla catastrofica decisione italiana di entrare nell’euro, una che può sembrare un po’ folkloristica, un po’ naif, ma che ha avuto un suo peso, è la seguente.

Il tipico funzionario della Banca d’Italia o del Ministero del Tesoro si sentiva un qualche modo sminuito, in qualche modo esponente di istituzioni “deboli”, o “problematiche”, quando le oscillazioni valutarie, quando i riallineamenti dei tassi di cambio, avvenivano con la lira che regolarmente si indeboliva nei confronti del marco tedesco.

Il tipico funzionario ma anche i vertici. Non è motivo di orgoglio utilizzare una moneta forte e stabile ? possibile che dobbiamo essere sempre dal lato debole dell’equazione ? Questi erano tra i pensieri dominanti, al MEF e in Bankitalia.

La domanda che si sarebbero dovuti porre ai tempi (ma a quanto pare non l’hanno fatto) è: ma perché una moneta di cui “andare orgogliosi”, o, semplicemente, una moneta che funziona ragionevolmente bene in Italia, deve essere forte tanto quanto quella tedesca ? o addirittura essere la stessa ?

Dagli anni Cinquanta del Ventesimo Secolo in poi, tutte le valute mondiali con pochissime eccezioni (il franco svizzero e non so chi altro) si sono gradualmente, costantemente, più o meno velocemente indebolite nei confronti della moneta tedesca. Il dollaro, la sterlina, la peseta, il franco francese, la corona svedese.

Perché proprio noi, e solo noi, avremmo dovuto percepire questa situazione come un problema, come una diminutio ?

Mai sentita una risposta minimamente razionale e ragionevole a questa domanda.

Eppure come un problema era percepita. E sulla tragica scelta dell’ingresso nella moneta unica anche questo ha avuto un peso.

martedì 14 novembre 2023

L’Unione Europea è una truffa

 

Nei fatti (qualunque cosa si pensi delle intenzioni) la UE è una truffa, esattamente per le ragioni indicate da Mario Draghi (vedi l'ultimo post: o la UE diventa un’unione politica, o tornerà a essere un semplice accordo di libero scambio, come in sostanza era la vecchia CEE).

La UE è una truffa perché tutti i processi di cessione di sovranità, primo tra tutti l’unione monetaria (a cui peraltro non tutti i paesi UE aderiscono) dovevano appunto essere passi che conducevano all’unione politica, e che anzi la rendevano inevitabile.

A trent’anni (abbondanti) dalla nascita della UE, l’unione politica non è nei fatti ma neanche nelle intenzioni degli stati membri: né delle classi politiche né delle popolazioni. E ci ritroviamo di conseguenza con una sovrastruttura burocratica inefficiente e pletorica, e con un’unione monetaria pesantemente disfunzionale, senza che si capisca come il processo che le ha generate possa condurre a un'evoluzione sensata.

Sono del tutto convinto che alla nascita della UE abbiano contribuito ANCHE parecchie persone dotate delle migliori intenzioni. E che non pochi di quelli che sostengono tuttora l’utilità, per non dire la necessità, dell’Unione Europea siano animati da una buona fede degna di miglior causa.

Purtroppo buone intenzioni e buona fede non bastano per generare buoni risultati. Quelli della UE sono pessimi.

domenica 12 novembre 2023

Mario Draghi: ma fare autocritica ?

 

Pochi giorni fa, parlando a un evento organizzato dal Financial Times, Mario Draghi ha dichiarato che “o l’Europa agisce insieme e diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa, oltre a tutte le politiche economiche… oppure temo che l’Unione Europea non sopravviverà se non come mercato unico”.

Parecchi dei giornaloni italiani si sono profusi in encomi, come del resto fanno d’abitudine quando Draghi parla, esterna, mormora, comunica o sospira. Che visione, che lungimiranza, un fuoriclasse davvero, mica come l’attuale premier. Quella sta alle prese con rotture in famiglia, telefonate con falsi presidenti africani, accordi più o meno plausibili per gestire l’immigrazione clandestina facendo sponda sull’Albania.

A me invece viene da dire qualcos’altro. Ma se è vero (e non sarò certo io a negarlo…) che dopo venticinque, trent’anni dalla firma del trattato di Maastricht, dalla nascita dell’eurozona, l’Unione Europea è a rischio di non sopravvivenza (se non come mercato unico, tornando cioè alla CEE, a quello che c’era prima), non è che l’architettura è stata mal concepita fin dall’inizio ? MOLTO mal concepita ?

E dato che tra gli architetti Mario Draghi ha giocato un ruolo di primissimo piano, non ci starebbe bene, non sarebbe appropriata una serena e solida autocritica ?

“Ci siamo sbagliati, abbiamo venduto un progetto di integrazione che sul piano economico ha fatto danni enormi, sul piano politico non ha creato nessuna spinta verso legami più forti e più armonici, che va riformato in profondità - ma non c’è alcun consenso per una revisione sensata di schemi e regole”.

Se l’unione politica non nasce è anche e soprattutto perché l’unione economica non funziona.

E a chi imputare di essere andati, e di avere portato centinaia di milioni di europei, fuori strada ? a mia zia ? a vostra nonna ? alla mamma di Paperino ?

O (tra gli altri, ma in primissimo piano) al Dott. Prof. Cav. Pres. Sua Emin. Mario Draghi ?

giovedì 9 novembre 2023

La “moneta forte in tasca”

 

“Che vantaggi pensi che ti dia, come cittadino italiano, essere nell’euro ?”

Chi ancora ci crede, spesso risponde in modo sintetico e semplice “così ho in tasca una moneta forte, non quella schifezzuola della lira”.

Risposta di encomiabile sintesi e semplicità, certo. Ma priva di senso.

Avere in tasca una moneta forte era possibile, e molto facile, anche quando si usavano le lire. Bastava andare in banca e farsele cambiare in dollari, o meglio ancora in marchi, o in franchi svizzeri.

Il problema è che questa conversione ovviamente non ti rendeva più ricco. E non ha reso più ricco il paese. Ha solo costretto a utilizzare un’unità monetaria il cui controllo è in mano ad entità situate al di fuori dei confini nazionali.

L’euro è una moneta più forte di quanto era, e sarebbe se ci fosse ancora, la lira. Ma l’euro NON viene emesso dall’Italia. L’Italia si è solo vincolata a farne uso all’interno del paese.

E quali vie ha l’Italia per acquisire gli euro ? dato che non li emette, solo due: esportare beni e servizi (cosa che si faceva molto meglio con una moneta più debole), o prendere a prestito.

Usare l’euro non ti rende in nessun modo più ricco. Molto più facilmente, ti pone nella condizione di avere in tasca meno unità di una moneta forte, invece di più unità di una moneta debole.

In compenso ti genera vincoli e condizionamenti, nella gestione della tua politica economica, disegnati da soggetti che non hanno nessuna particolare volontà di lavorare per il tuo benessere, e sui quali comunque non hai controlli: non li puoi rimuovere se non fanno i tuoi interessi.

Che vantaggi dà “essere nell’euro” ?

Non se ne vedono proprio. Né in teoria né, purtroppo, nella pratica di questo quarto di secolo.

I danni invece si vedono, ahinoi, benissimo.

domenica 5 novembre 2023

Il Giappone e l’inflazione

 

Non è mai una cattiva idea dare un’occhiata ai dati dell’economia giapponese, per rendersi conto di quanto siano fuori strada le tesi euroausteriche.

Un economista mainstream è di regola convinto che un alto livello di debito pubblico, soprattutto se finanziato da acquisti della banca centrale (quindi da emissione di moneta) non può che avere terribili impatti sull’inflazione. Specialmente nel periodo in cui fattori esogeni (il dissesto delle catene di fornitura post Covid, la guerra in Ucraina) la spingono (l’inflazione) verso l’alto.

E’ la storia del triennio 2021-3, che forse sta volgendo al termine ora.

Vediamo cosa ci dice l’ultima edizione (ottobre 2023) del World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale.

Confrontando tre grandi blocchi economici, gli USA a fine 2023 hanno un debito pubblico pari al 123,3% del PIL, di cui il 26,6% detenuto dalla Federal Reserve.

L’Eurozona, l’89,6% del PIL, di cui il 15% posseduto dalla BCE.

Il Giappone, il 255,2% del PIL, di cui il 96,7% posseduto dalla Bank of Japan.

Quindi – penserà il nostro baldo euroausterico – il Giappone non può che affogare nell’inflazione incontrollata, anzi nell’iperinflazione, giusto ?

La realtà dei fatti è che la variazione media annua dell’indice dei prezzi al consumo, tra 2021 e 2023, negli USA è stata pari al 5,1%.

Nell’Eurozona, al 5,5%.

E in Giappone ? all’1.8%.

A quanto pare, un alto debito pubblico largamente finanziato da emissione di moneta TIENE L’INFLAZIONE BASSA…

mercoledì 1 novembre 2023

Chi ha creato il debito pubblico ?

 

Chi ha creato il debito pubblico negli anni, chiede Crudelia De Mon su twitter – cioè scusate, su X.

Il debito pubblico l’hanno creato i governi, tutti i governi, perché la normalità per uno Stato è avere conti pubblici in deficit. Ma NON perché i governi sono corrotti, inefficienti, spreconi, incompetenti.

La normalità per uno Stato è avere conti pubblici in deficit perché le economie crescono, e di pari passo con la crescita i mezzi finanziari in circolazione devono aumentare. E il deficit pubblico è uno dei due principali canali (l’altro è il credito privato) tramite il quale questa crescita ha luogo.

Non è affatto indispensabile che il deficit pubblico dia luogo a debito. Il deficit pubblico si attua emettendo moneta. Questa moneta rimane in circolazione, e il debito pubblico è un apprezzato strumento messo a disposizione della collettività per impiegare la moneta stessa (che costituisce risparmio privato di chi la detiene). E’ un’opportunità, non una necessità.

Non esiste nessun preciso livello dimensionale del deficit e del debito pubblico che DI PER SE’ costituisca un problema. Il deficit può formarsi tramite spese e tasse mal concepite. Il deficit di un particolare anno può essere eccessivo (o carente) per dimensione. E’ eccessivo se l’economia è surriscaldata, è carente se l’economia è depressa.

Ma non esiste alcun livello numerico che sia DI PER SE’, in qualsiasi circostanza, eccessivo.

Idem per il debito pubblico. Il debito pubblico può creare guai se (senza alcuna valida motivazione economica) viene emesso in moneta straniera forte. Cosa scelleratamente attuata dall’Italia a seguito dell’adesione all’euro.

Mentre il debito pubblico in moneta propria è SOLO un (utile, non indispensabile) strumento di impiego del risparmio privato.

domenica 29 ottobre 2023

Speranze per la Palestina

 

Quello che è avvenuto e sta avvenendo a Israele e a Gaza è orribile. Ma chissà che non sia l’evento che innescherà la soluzione dei problemi che affliggono quei luoghi e quelle popolazioni da tre quarti di secolo.

Certo, gli errori e i crimini commessi da tutte le parti in gioco sono tanti. I paesi arabi che si sono rifiutati di riconoscere Israele. L’orrendo trattamento della popolazione palestinese da parte dello stato ebraico. L’ipocrisia dei vicini musulmani. Gli iraniani che soffiano sul fuoco. La soluzione a due stati che non è stata sufficientemente appoggiata dagli USA.

Però forse la situazione è a un punto di svolta. Dell’attacco di terra a Gaza, le uniche cose certe sono che farà danni enormi e che non risolverà nessun problema. Anzi radicalizzerà ulteriormente le posizioni.

La soluzione a due Stati – ma due Stati veri, realmente autonomi, realmente indipendenti – è possibile ? certo che sì. Hamas ha per statuto la distruzione d’Israele ? ha il sostegno della maggioranza dei palestinesi ? ma l’ha solo a causa delle vessazioni a cui è sottoposta la popolazione. Se finiscono quelle, finisce anche la ragione dell’esistenza di Hamas.

Quando ero un ragazzo il conflitto anglo-irlandese pareva irrisolvibile. E’ stato risolto. Prima ancora, pareva che i francesi non se ne sarebbero mai potuti andare dall’Algeria. Se ne sono andati.

Sono cambiamenti che spesso richiedono, per essere attuati, uno statista riconosciuto come leader indiscusso e indiscutibile dalla parte più intransigente. Per il ritiro dall’Algeria, c’è voluto De Gaulle. Forse la soluzione al conflitto israelo-palestinese stava per arrivare nel 2006, a opera del superfalco Ariel Sharon – superfalco ma anche cavallo pazzo che vinse la guerra del Kippur disobbedendo agli ordini. Un ictus ha spento quella speranza.

Tutto cambia nella vita e nella storia. E’ caduto il muro di Berlino, cosa che un solo anno prima ben pochi credevano possibile. E’ finito l’apartheid in Sudafrica. Una serie di problemi si sono risolti – e ovviamente qualcun altro se ne è creato.

Succederà anche in Palestina. Non so quando, spero a breve. Ma succederà.

venerdì 27 ottobre 2023

Chi comprerà il debito USA ?? Terrore !!

 

Leggo di tanto in tanto commenti più o meno terrorizzati in meno alle difficoltà che un determinato paese (non necessariamente l’Italia) potrebbe incontrare nel finanziare il suo deficit pubblico e nel rifinanziare le quote in scadenza del suo debito pubblico.

Per esempio, prendiamo gli USA. IL PIL si aggira intorno a 27.000 miliardi di dollari. Il deficit previsto dal Fondo Monetario Internazionale per il 2024 supera il 7% del PIL, quindi circa 2.000 miliardi. Il debito pubblico lordo a fine 2023 è il 123% del PIL, che corrisponde grosso modo a 33.000 miliardi. Non ho dati precisi sottomano ma se non sbaglio la scadenza residua media del debito è sette anni: se nel 2024 ne scadesse esattamente un settimo si parlerebbe di rifinanziare 4.700 miliardi. Ma le scadenze brevi sono un po’ più “affollate” delle scadenze lunghe: da cui, con ogni probabilità si superano i 5.000.

Quindi 2.000 + 5.000 = 7.000 miliardi di fabbisogno finanziario. Panico ! Paura ! da dove arriveranno tutti questi soldi ?

Partendo dal presupposto che in questo momento il debito non lo sta comprando la Federal Reserve, ed è ben difficile che cambi posizione avviando un nuovo programma di Quantitative Easing, si potrebbe presumere che si stia per andare incontro a qualcosa di molto brutto…

…salvo ragionare su un paio di dettagli.

I 2.000 miliardi di deficit pubblico sono soldi che gli USA spendono in eccesso rispetto alle tasse che incassano. Quindi sono 2.000 miliardi che vengono IMMESSI nell’economia.

I 5.000 miliardi di rifinanziamenti corrispondono a 5.000 miliardi di rimborsi che il Tesoro USA effettua a fronte di titoli in scadenza.

Per cui è vero che nel 2024 il settore pubblico USA ha 7.000 miliardi di esigenze finanziarie. Ma è anche vero che a fronte di ciò, finiscono in tasca agli investitori, statunitensi a non, esattamente… 7.000 miliardi.

A questo punto forse concorderete che farsi prendere dal panico di fronte alla domanda “da dove arriveranno tutti questi soldi” è una reazione, come dire… un filino esagerata.

mercoledì 25 ottobre 2023

L’Italia NON è un paese indebitato

 

Una delle affermazioni più irritanti che mi capita di leggere, purtroppo praticamente tutti i giorni, è quella secondo la quale l’Italia sarebbe un paese “fortemente indebitato”.

Penso che la stragrande maggioranza della popolazione italiana la ritenga un’ovvietà, un dato di fatto risaputo. Naturalmente, l’affermazione si basa sul livello del debito pubblico, che in rapporto al PIL si colloca intorno al 140%.

Un dato più alto della media, certo. Per la verità nettamente più basso del Giappone, che sta al 260%. Non molto più alto di USA, UK, Francia, tutti ben al di sopra del 100%. Però alto rispetto, per esempio, alla media dell’Eurozona, che è il 90% circa.

Il punto però è che il debito pubblico non è il debito DEL PAESE. E’ il debito DEL SETTORE PUBBLICO, delle pubbliche amministrazioni.

Buona parte di questo debito è costituito da titoli posseduti da istituzioni finanziarie, da aziende e da famiglie ITALIANE. E i residenti italiani, inoltre, possiedono un rilevante ammontare di attività finanziarie e patrimoniali estere.

Per stabilire se l’Italia è un paese creditore netto o debitore netto, il dato a cui riferirsi è la cosiddetta Net International Investment Position. La differenza tra le attività finanziarie e patrimoniali estere possedute da residenti italiani; e le attività finanziarie e patrimoniali italiane possedute da residenti esteri. Le prime sono ATTIVITA’ DEL PAESE; le seconde sono PASSIVITA’ DEL PAESE.

Bene, Bankitalia ci fa sapere che al 30.6.2023 il primo dei sopramenzionati fattori era pari a 3.481 miliardi di euro; il secondo, a 3.375 miliardi; e la differenza (la NIIP) era quindi POSITIVA per 106 miliardi.

L’Italia è un paese CREDITORE NETTO SULL’ESTERO.

Il debito pubblico è una forma di detenzione del risparmio offerta dal governo italiano alla collettività. Forma che i residenti italiani utilizzano più di altri. Ma che non creerebbe NESSUN problema, se non si fosse presa l’assurda e scellerata decisione di convertirlo in una moneta che l’Italia non emette e non gestisce – l’euro.

Se il debito pubblico fosse rimasto in lire, in moneta emessa dal settore pubblico italiano, non sarebbe mai esistito alcun problema di rifinanziamento. Il debito pubblico sarebbe rimasto solo quello che è sempre stato – una forma di impiego del risparmio privato.

Ripetetelo a tutti quelli che se ne escono con il consueto luogo comune. A tutti quelli che dicono “dobbiamo soldi a mezzo mondo”, o varianti sul tema. L’ITALIA NON E’ UN PAESE INDEBITATO.

lunedì 23 ottobre 2023

Leggere i dati sull’inflazione

 

Preparatevi all’annuncio di una grossa “sorpresa” quando verranno comunicati i dati sull’inflazione di ottobre 2023. Perché a livello di stampa e di opinione pubblica, quasi tutti hanno in mente che l’inflazione viaggi intorno al 5%. In realtà è già scesa, e anche di parecchio.

Vi suona strano ? I dati vengono sempre comunicati facendo riferimento alla variazione mensile e alla variazione annuale. A settembre 2023, la variazione annuale rispetto al settembre 2022 è stata appunto del 5%: l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI) è salito da 113,5 a 119,2 (fatto pari a 100 il livello medio 2015).

Ma se prendiamo la variazione su un periodo solo di un mese più breve, da ottobre 2022 a settembre 2023, troviamo un incremento molto più basso – da 117,1 a 119,2. Quindi appena +1,8%.

La ragione è che nell’ottobre del 2022 si è scaricato sull’indice un grosso aumento del prezzo di gas ed elettricità. Il famoso caro bollette. Uno scalino che ha inciso per oltre il 3% sull’indice generale.

Questo scalino non è destinato a ripetersi. Se nel mese di ottobre 2023 registrassimo un incremento uguale a quello di settembre, +0,2%, la variazione annuale scenderebbe “magicamente” centrando il famoso obiettivo del 2%.

Magari poi avremo qualche decimale in più, ma non certo un 3% mensile (fenomeno del tutto anomalo).

Prepariamoci a titoli a molte colonne, e probabilmente a qualche comunicato giubilante da parte del governo, su un “effetto sorpresa” che di sorprendente non ha proprio nulla.

sabato 21 ottobre 2023

Tre presupposti sbagliati delle politiche di bilancio pubblico


Presupposto sbagliato numero uno: non è vero che il debito pubblico sia destinato a essere “ripagato”, nel senso di “estinto”. Il debito pubblico non si estingue ma si rifinanzia. Nessun paese ha mai estinto il suo debito pubblico, e (salvo in rari casi e per periodi brevi e transitori) nessun paese lo ha mai nemmeno diminuito in valore nominale.

Presupposto sbagliato numero due: non è vero che sia virtuoso avere conti pubblici in pareggio. Il deficit di bilancio è uno dei principali meccanismi tramite i quali vengono immessi mezzi finanziari nell’economia. Mezzi finanziari che devono crescere via via che l’economia medesima si sviluppa. La normalità, per qualsiasi Stato, è avere conti pubblici in deficit.

Presupposto sbagliato numero tre, conseguenza dei primi due: il principio che “per ogni spesa vada identificata la relativa copertura” è privo di senso. Una copertura per ogni spesa implica che la condizione ottimale sia il pareggio del bilancio pubblico. Il che non è vero.

mercoledì 18 ottobre 2023

L’origine della povertà italiana

 

Negli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, l’Italia si è fortemente impoverita. Gli individui in situazione di povertà assoluta erano stimati dall’ISTAT, nel 2007, in meno di due milioni; oggi si aggirano intorno ai sei.

Naturalmente abbiamo avuto una serie di eventi esogeni che hanno innescato peggioramenti del contesto economico internazionale e di conseguenza anche italiano. La crisi finanziaria mondiale del 2008, la crisi dei debiti sovrani europei del 2010-2012, il Covid nel 2019-2020. Ma il mondo è sempre stato un posto complicato e crisi paragonabili per complessità e intensità – gli oil shocks del 1973 e del 1979, la rottura dello SME nel 1992, gli attentati al  World Trade Center nel 2001 – non avevano avuto nessun impatto paragonabile sulla situazione economica di larghe fasce della nostra popolazione.

Gli eventi esterni interferiscono con lo sviluppo economico delle nazioni, ma in passato l’Italia aveva sempre dimostrato la capacità di superarli e di riprendere un percorso di crescita.

In questi ultimi lustri, no. Cos’è cambiato ?

E’ cambiato che dall’introduzione dell’euro in poi, la gestione dell’economia italiana è dominata dall’allucinazione collettiva di credere che il debito pubblico rappresenti un fattore di povertà del paese e che sia quindi necessario fare di tutto per ridurlo, in proporzione al PIL se non addirittura in valori assoluti.

Questa allucinazione non è, beninteso, diffusa solo in Italia, e in effetti non nasce con l’euro. Ma per un paese che emette e gestisce la propria moneta, non rappresenta un vincolo insuperabile quando si tratta di generare i deficit pubblici che sono necessari ad assicurare  uno sviluppo armonico dell’economia. Il divorzio Tesoro – Bankitalia del 1981, cioè il venir meno dell’impegno dell’istituto di emissione a sottoscrivere l’eventuale inoptato in sede di collocamento dei titoli di Stato, aveva in una certa misura creato un vincolo del genere, ma fino a un certo punto. Bankitalia non era formalmente impegnata, ma non era credibile, e infatti non è accaduto, che il rifinanziamento del debito pubblico in lire non trovasse una copertura, in caso di necessità, da parte dell’istituto di emissione.

La conversione del debito pubblico in moneta straniera, in euro, ha dato una sostanza molto ma molto più forte al vincolo esterno. Da qui sono nate le scellerate politiche di austerità imposte al paese durante la crisi dei debiti sovrani, nonostante l’economia fosse – qui come altrove – convalescente dopo la crisi mondiale del 2008. Da qui sono nati anni di compressione dei deficit pubblici sotto il 3% nonostante l’inflazione non fosse minimamente un problema, anzi lo fosse casomai (a giudizio della stessa BCE) per il suo livello troppo basso, non troppo alto.

Il vincolo esterno e la delirante idea che il debito pubblico sia un impoverimento del paese – mentre è un impiego della ricchezza finanziaria che i deficit pubblici mettono a disposizione del settore privato – hanno compresso redditi e risparmio. Hanno generato disoccupazione e sottoccupazione. Hanno prodotto la crisi della natalità e la fuga dal paese di centinaia di migliaia di giovani brillanti e preparati.

La mistificazione del ruolo di deficit e debito pubblico è all’origine della povertà del paese.