domenica 5 novembre 2023

Il Giappone e l’inflazione

 

Non è mai una cattiva idea dare un’occhiata ai dati dell’economia giapponese, per rendersi conto di quanto siano fuori strada le tesi euroausteriche.

Un economista mainstream è di regola convinto che un alto livello di debito pubblico, soprattutto se finanziato da acquisti della banca centrale (quindi da emissione di moneta) non può che avere terribili impatti sull’inflazione. Specialmente nel periodo in cui fattori esogeni (il dissesto delle catene di fornitura post Covid, la guerra in Ucraina) la spingono (l’inflazione) verso l’alto.

E’ la storia del triennio 2021-3, che forse sta volgendo al termine ora.

Vediamo cosa ci dice l’ultima edizione (ottobre 2023) del World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale.

Confrontando tre grandi blocchi economici, gli USA a fine 2023 hanno un debito pubblico pari al 123,3% del PIL, di cui il 26,6% detenuto dalla Federal Reserve.

L’Eurozona, l’89,6% del PIL, di cui il 15% posseduto dalla BCE.

Il Giappone, il 255,2% del PIL, di cui il 96,7% posseduto dalla Bank of Japan.

Quindi – penserà il nostro baldo euroausterico – il Giappone non può che affogare nell’inflazione incontrollata, anzi nell’iperinflazione, giusto ?

La realtà dei fatti è che la variazione media annua dell’indice dei prezzi al consumo, tra 2021 e 2023, negli USA è stata pari al 5,1%.

Nell’Eurozona, al 5,5%.

E in Giappone ? all’1.8%.

A quanto pare, un alto debito pubblico largamente finanziato da emissione di moneta TIENE L’INFLAZIONE BASSA…

4 commenti:

  1. Giovanni Albin: ma allora in Giappone il risparmio privato è tutto indirizzato verso le banche private ? Allora come fa la finanza privata a sopravvivere ? Investono tutto in obbligazioni e azioni ?

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    1. Il risparmio privato è molto alto appunto perché è alto il debito pubblico…

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  2. Luca Pieroni: Avrei da dire anche 2 paroline su come si calcola l'inflazione oggi, mondo molto diverso da quello di 20 anni fa. Misurare l'inflazione sulla "variazione dei prezzi" oggi è assolutamente fuorviante in quanto andrebbe misurata sui prezzi effettivamente pagati che è cosa diversa. Se il miele d'acacia ha raggiunto un prezzo tale che il consumo è crollato l'aumento non può essere indicatore di nulla... il prezzo è aumentato ma fuori della soglia accettabile per il consumo... in altre parole è lo scontrino reale che fornisce l'inflazione non la presentazione di prezzi a fronte dei quali il consumatore applica sostituzioni oggi possibili e non anni fa.

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    1. Forse il problema è risolvibile usando il deflatore della componente consumi del PIL, che dovrebbe "gestire" gli effetti di sostituzione.

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