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mercoledì 1 gennaio 2020

Il default giamaicano


In questo post, avevo affermato che uno stato non può mai essere forzato al default su debito in moneta propria. Nei casi in cui questo si è verificato, si è quindi trattato di una decisione volontaria.

Avevo anche accennato a due casi che possono motivare questa decisione. Riporto qui (scusate l’autocitazione) quanto avevo detto in quella sede:

“In primo luogo, lo stato emittente potrebbe ritenere necessario ridurre il potere d’acquisto in circolazione nella propria economia, per frenare eccessi di domanda e di inflazione. Il default in questo senso è assimilabile a un’imposizione fiscale (a una tassazione patrimoniale, per la precisione). Posso preferire far subire la perdita di potere d’acquisto ai titolari del debito pubblico invece che tagliare spese o aumentare le tasse su redditi, consumi, immobili o quant’altro.

In secondo luogo, posso cercare di mantenere un determinato rapporto di cambio tra la mia moneta e le valute estere. Se non ho abbastanza riserve valutarie per convertire la moneta in circolazione, devo adottare politiche deflattive. E una forma di politica deflattiva è ridurre la moneta propria, o i titoli da rimborsare in moneta propria, per abbassare le probabilità di ricevere richieste di conversione a cui non riesco a far fronte sulla base di un rapporto di cambio che, per qualche motivo, ho deciso di mantenere fisso a un determinato livello.

Come si vede, all’origine della decisione in entrambi i casi c’è la volontà di deflazionare l’economia: nel primo caso per ridurre la domanda e l’inflazione, nel secondo per sostenere il cambio”.

Antonio Ripa ha sottoposto all’attenzione mia (e di chi lo segue su twitter) un caso differente. Si tratta di due operazioni attuate dalla Giamaica, nel 2010 e nel 2013, che hanno riguardato debito denominato, in buona parte, in moneta locale.

Si è trattato di due swaps: il debito è stato convertito in titoli con valore di rimborso invariato ma con tassi d’interesse più bassi. Le motivazioni di queste operazioni non rientrano in uno dei due casi sopra descritti.

Negli anni di effettuazione degli swaps, la Giamaica non aveva un problema di inflazione sul punto di andare fuori controllo. La variazione dei prezzi al consumo su base annua, dopo aver raggiunto picchi oltre il 20% nel 2008-2009, stava rallentando e da fine 2010 in poi si è attestata sotto il 10% (NB i dati citati in questo post sono di fonte tradingeconomics.com).

A loro volta, i tassi di rifinanziamento della Banca Centrale giamaicana (presumibilmente, il riferimento per le emissioni di titoli di debito pubblico) dopo aver oscillato intorno al 15% tra il 2001 e il 2009, sono scesi al 10% nel 2010 e al 6% nel 2012.

Da dove è nato il problema giamaicano ? il debito emesso nella decade ’00 aveva tassi nominali alti, ma tassi reali (al momento dell’emissione) prossimi allo zero se non addirittura negativi, a causa dell’elevata inflazione.

La discesa di quest’ultima ha portato invece, dal 2010 in poi, i tassi reali in territorio fortemente positivo. Pagare i tassi nominali ai livelli fissati originariamente avrebbe quindi comportato un grosso trasferimento di ricchezza, a vantaggio dei detentori di titoli di debito e a danno della grande maggioranza della popolazione.

Va notato che lo swap non era l’unico modo per intervenire sul problema. Concettualmente, un’altra possibilità sarebbe stata, ad esempio, una superimposizione fiscale sugli interessi pagati ai titolari del debito pubblico. Immagino tuttavia che, a causa di vincoli normativi o contrattuali, la soluzione swap fosse preferibile, se non magari addirittura l’unica attuabile.

Per inciso, anche l’Italia ha emesso debito con alti tassi nominali – corrispondenti però a tassi reali spesso negativi, a causa dell’alta inflazione di quel periodo – per tutti gli anni Settanta. E negli anni Ottanta, la disinflazione e l’ingresso nello SME hanno poi portato i tassi reali in territorio positivo: una dinamica “giamaicana”, quindi.

In Italia, però non sono sorti particolari problemi dovuti al debito pregresso. La ragione è che lo stock di debito esistente era in larghissima misura a breve scadenza (BOT) o a tasso variabile (CCT): non ci sono quindi state esplosioni di oneri reali su grandi masse di debito emesso a tasso fisso negli anni precedenti.

Il caso Giamaica è interessante, in quanto identifica un’ulteriore motivazione che può spingere uno Stato al default (volontario) su debito in moneta propria. Non l’inflazione o la svalutazione che stanno andando fuori controllo, ma i tassi reali che diventano insostenibili in seguito alla discesa dell’inflazione (in presenza di tassi nominali che non si adeguano abbastanza rapidamente).

Al contrario di quanto ho sentito affermare da alcuni “euroausterici”, però, tutto questo non dimostra affatto che “anche sul debito in moneta propria ci sono dei casi di default, quindi che lo Stato s’indebiti in moneta nazionale o in moneta estera è la stessa cosa”.

Non sono a conoscenza di casi in cui un problema venutosi a creare in presenza di debito pubblico in moneta propria sarebbe stato evitato emettendolo in moneta estera.

Mentre è disgraziatamente vero il contrario, in primo luogo proprio per quanto riguarda l’Italia. La mancanza della garanzia fornita dalla potestà di emissione della moneta in cui è denominato il debito ha innescato la “crisi dello spread” nel 2011. Ed è stato il pretesto per imporre le scellerate politiche di contrazione della domanda interna che hanno spinto l’economia italiana nell’orribile situazione in cui ancora oggi ci troviamo.

Con l’economia ancora convalescente dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, la domanda depressa, l’inflazione bassa, l’Italia se dotata della propria moneta avrebbe potuto tranquillamente reflazionare la propria economia e ridurre fortemente e rapidamente la disoccupazione e la sottoccupazione.

Questo è il punto che mi preme ribadire una volta di più: la sovranità monetaria non risolve e non evita tutti i problemi dell’economia. Ma privarsi della propria moneta, o comunque indebitarsi in moneta straniera, può creare problemi estremamente gravi, che altrimenti non sorgerebbero, o che sarebbero molto più semplici da gestire.


giovedì 6 aprile 2017

Default su debito in moneta propria: alcuni chiarimenti


Qualche giorno fa mi sono trovato immerso in un animato dibattito (su twitter) in merito alla possibilità che un paese faccia default su debito denominato nella propria moneta nazionale. Le discussioni vertevano sul fatto che qualcosa del genere possa accadere al Giappone, o all’Italia in caso di ritorno alla lira.

Mi veniva, da alcuni, contestata un’affermazione che in effetti non ho mai formulato.

Non ho mai detto che nella storia non si siano mai verificati default su debito in moneta propria. E’ accaduto, e l’esempio recente più rilevante e più frequentemente citato è quello russo del 1998.

Ho invece affermato, e non vedo come si possa contestarlo, che uno stato non può mai essere forzato a fare default su debito in moneta propria. Se sono l’emittente della moneta, nessuno mi può costringere a non onorare un impegno espresso in quella moneta. Mi sembra che non ci sia nemmeno necessità di spiegarlo.

Se, quindi, in qualche rara occasione il default su debito in moneta propria è avvenuto, si è trattato di una consapevole scelta di politica economica: volontaria, non imposta.

E’ possibile immaginare almeno due giustificazioni per un’operazione di questo tipo (al di là delle valutazioni di merito sull’opportunità di effettuarla).

In primo luogo, lo stato emittente potrebbe ritenere necessario ridurre il potere d’acquisto in circolazione nella propria economia, per frenare eccessi di domanda e di inflazione. Il default in questo senso è assimilabile a un’imposizione fiscale (a una tassazione patrimoniale, per la precisione). Posso preferire far subire la perdita di potere d’acquisto ai titolari del debito pubblico invece che tagliare spese o aumentare le tasse su redditi, consumi, immobili o quant’altro.

In secondo luogo, posso cercare di mantenere un determinato rapporto di cambio tra la mia moneta e le valute estere. Se non ho abbastanza riserve valutarie per convertire la moneta in circolazione, devo adottare politiche deflattive. E una forma di politica deflattiva è ridurre la moneta propria, o i titoli da rimborsare in moneta propria, per abbassare le probabilità di ricevere richieste di conversione a cui non riesco a far fronte sulla base di un rapporto di cambio che, per qualche motivo, ho deciso di mantenere fisso a un determinato livello.

Come si vede, all’origine della decisione in entrambi i casi c’è la volontà di deflazionare l’economia: nel primo caso per ridurre la domanda e l’inflazione, nel secondo per sostenere il cambio.

Che lo strumento più opportuno per ottenere questi risultati sia il default su debito in moneta propria è discutibile, e in effetti si è verificato solo in circostanze estreme. Ma il punto è un altro: non ha senso preoccuparsi di un rischio di default sul debito pubblico giapponese “perché è il 230% del PIL”. Il rapporto al PIL non rileva: rileva il fatto che il Giappone non ha problemi di inflazione e non è in regime di cambio fisso con nessun’altra valuta.

Né avrebbe senso preoccuparsi per un default in moneta sovrana dell’Italia dopo il ritorno alla lira e l’adozione di un regime di cambio flessibile. Il rapporto debito pubblico / PIL anche qui non ha importanza. Importanti sono invece l’inflazione bassissima, e la domanda fortemente depressa rispetto alle capacità produttive del sistema economico: condizioni sotto le quali adottare politiche deflattive è privo di senso.

L’Italia, tornata alla lira e ai cambi flessibili, non potrebbe essere forzata al default e non avrebbe alcuna necessità, né teorica, né pratica, di prendere nemmeno lontanamente in considerazione un’eventualità del genere. Sarebbe, in altri termini, nella posizione odierna del Giappone, non in quella della Russia nel 1998.