mercoledì 21 giugno 2017

I debiti in valuta delle società italiane


Sono molto attivi, sui vari social network, alcuni commentatori di fatti e temi economici che si caratterizzano per quanto segue.

Leggono molto, o quantomeno più della media degli interlocutori che si incontrano su Facebook e su Twitter. E fin qui tutto bene.

Capiscono grosso modo il 50% di quanto leggono, e ci può stare perché gli argomenti sui quali s’informano non sono banali.

Costruiscono teorizzazioni su quanto credono di aver capito, e siccome appunto hanno compreso il 50% e non il 100%, il rischio di grosse topiche è in agguato.

Quando le topiche si verificano, rifiutano di riconoscere che tali sono, a dispetto di ogni evidenza contraria: e qui proprio non ci siamo.

I nostri baldi SocialNetworkCommentators (SNC for short) sono, spesso, convinti assertori della Teoria della Pizza di Fango, secondo la quale l’Italia, se uscisse dall’euro, non sarebbe !!!giammai!!! in grado di emettere una propria moneta dotata di un qualche valore, o comunque accettabile da parte di qualcuno.

Forse sono troppo giovani (alcuni di loro, quantomeno) per essersi trovati nella condizione di lavorare, guadagnare, e risparmiare in lire. Però, suvvia, dovrebbero pur rendersi conto di vivere in un paese che è diventato una delle principali economie mondiali lavorando, guadagnando e risparmiando in lire. E che essere pagati in lire non dispiaceva a nessuno. E che nessuno le usava come carta da tappezzeria. E che tutti, ma proprio tutti i paesi di una qualche rilevanza economica, esclusa la sola Eurozona, emettono e usano la propria moneta nazionale.

Qualche giorno fa, ad ogni modo, uno di questi SNC ne ha sparata una più comica del solito. Ha constatato che ai tempi della lira una parte significativa del debito delle società italiane era in valuta estera. E ha affermato che questo costituisce una prova della “limitata accettazione della lira”. Le aziende, in altri termini, avevano bisogno di approvvigionarsi di dollari, marchi, yen eccetera perché altrimenti avrebbero avuto difficoltà a operare…

E’ una fregnaccia di dimensioni considerevoli.

Una società ha almeno due possibili ragioni per indebitarsi in valuta estera.

La prima, che è quella più sensata, è coprirsi dal rischio di cambio. Immaginiamo che il business si svolga in parte all’estero, e che il 30% dei risultati operativi vengano generati negli USA, o comunque in paesi di “area dollaro”. E che magari la società abbia anche investito per creare uno stabilimento negli USA.

E’ senz'altro giustificato che questa società contragga in dollari una parte del proprio indebitamento, in modo che un’eventuale svalutazione del dollaro comporti un calo di valore degli oneri finanziari e dei debiti da pagare (una volta convertiti nella propria moneta). Compensando così il calo dei redditi prodotti all’estero, nonché del valore delle attività detenute al di fuori del proprio paese.

La seconda possibile ragione è un comportamento speculativo dell’azienda che si indebita in valuta. Nel 1994, ho conosciuto piuttosto bene i soci di un importante gruppo industriale italiano (a proprietà familiare), che si stavano leccando le ferite perché avevano assunto debito in franchi svizzeri per beneficiare dei minori tassi d’interesse.

La svalutazione della lira in seguito alla rottura dello SME (nel 1992) creò parecchi danni a questo gruppo (nel tempo li hanno poi recuperati, grazie ai positivi risultati della gestione industriale). Ma si era trattato di una speculazione mal riuscita, non diversamente da quanto accaduto a tante famiglie che avevano comprato casa indebitandosi in ECU. Una linea d’azione deliberata (e con il senno di poi perdente) che nessuno li costringeva a percorrere.

Comunque, e per fortuna, delle due cause che possono indurre le aziende private ad indebitarsi in valuta, prevale di gran lunga la prima. Ed è un motivo sano e rispettabile: si tratta, se correttamente gestita, di un’efficiente politica di gestione del rischio di cambio.

Qualunque cosa ne pensi SNC, ad ogni modo, ai tempi della lira nessuno si indebitava in valuta perché altrimenti non avrebbe potuto sviluppare la sua attività. L’alternativa di vendere lire e comprare valuta per finanziare lo sviluppo estero era assolutamente percorribile. Il finanziamento in valuta era utilizzabile, e veniva spesso utilizzato, come corretta tecnica di hedging, ma si trattava di un’opportunità, non di un obbligo. Per inciso, i finanziamenti in valuta erano in genere reperibili, senza problemi, presso le banche italiane stesse.

In sintesi: non c’era nessun bisogno, ma proprio nessuno, di entrare in un’unione monetaria (leggi nell’euro…) per sviluppare l’attività delle aziende italiane, né all’estero né sul mercato domestico, a causa di una presunta “scarsa accettazione” della lira. Né c’era alcuna necessità, per l’Italia e per le sue aziende, di entrare nell’euro per “meglio internazionalizzare” la propria economia.


3 commenti:

  1. Verissimo Dott. Cattaneo!!

    Basta guardare l'Argentina.. si è ripresa a dispetto della sua valuta debole. Nessuno l'ha ripudiata o affondata anzi.

    Addirittura ha emesso bond a 100 anni!

    Andrea

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    1. Tra l'altro è importante notare che l'Argentina a fine 2001 si era venuta a trovare in una situazione molto più debole e logorata dell'Italia di oggi. Dinamiche simili (aggancio valutario insostenibile in combinazione con politiche deflattive) ma lì erano ben più esasperate.

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  2. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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