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domenica 9 dicembre 2018

Ancora sulle pensioni, in sintesi


Riprendo qui e metto in evidenza il commento di un lettore al precedente articolo, per inquadrare il nocciolo della questione: gli effetti espansivi degli interventi sulle pensioni (e sui trasferimenti in genere).

“Credo derivi dalla solita confusione tra PIL effettivo e PIL potenziale, per cui se paghi la pensione al pensionato o il reddito di cittadinanza a uno che sta a casa non produci niente. Non si rendono conto che il PIL effettivo è ben al di sotto del PIL potenziale e che l’importante è che girino più soldi, detto brutalmente”.

La chiave è proprio questa. Ed è un’assurdità sostenere che non esista un fortissimo sottoutilizzo di risorse produttive nell’ambito del sistema economico. Sono del tutto cervellotici i tentativi di UE, FMI, OCSE di negare o minimizzare il fenomeno: basta ragionare brevissimamente sui dati.

Altrettanto assurdo è affermare che i trasferimenti (non solo le pensioni ma appunto anche, per esempio, il reddito di cittadinanza) verrebbe “risparmiato e non speso” nel momento in cui la propensione al consumo della popolazione italiana è vicina al 100%, com’è tipico delle fasi di depressione economica.

Esiste naturalmente una gerarchia di efficacia degli interventi di politica economica, ed è possibile e anche plausibile sostenere che il mix di azioni sarebbe ancora più proficuo se maggiormente rivolto a investimenti, spesa diretta o riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle imprese. Se ne era parlato qui.

Ma questo è un tema che riguarda la composizione degli interventi, non il principio generale che il miglioramento dell’economia italiana richiede un’azione espansiva su domanda e capacità di spesa.


domenica 13 marzo 2016

Il mito degli sprechi

Questo breve articolo di Gustavo Piga parte con una considerazione interessante, che condivido, e scivola però, successivamente, nei luoghi comuni.

L’affermazione condivisibile è che tutti i dibattiti tra governo italiano e commissione europea in merito alla flessibilità e alla concessione dei richiesti (dall’Italia) decimali in più di deficit pubblico / PIL sono in realtà nient’altro che uno stucchevole balletto. La UE non può assolutamente permettersi di forzare l’Italia – nell’attuale situazione di congiuntura mondiale incerta e, soprattutto, di crisi cronica dell’Eurozona – ad attuare una manovra restrittiva. Né tantomeno può accettarlo Renzi.

Al di là, quindi, di qualche discussione più formale che sostanziale, e di qualche intervento semicosmetico, non ci saranno manovre o correzioni di rotta rilevanti.

Di conseguenza si proseguirà galleggiando sulla tendenza attuale, che è di asfittica crescita del PIL. Forse lo zero virgola del 2015 diventerà (già ci vuole fortuna) un uno virgola, ma cambia poco o niente. Nessuna ripresa dell’occupazione, né tantomeno uscita dalla trappola della liquidità.

La soluzione passa tramite l’adozione di politiche fiscali espansive, tramite sostegno della domanda e incremento del potere d’acquisto in circolazione. Questo però i decimali di flessibilità chiesti da Renzi non lo ottengono: siamo, appunto, su livelli di semplice galleggiamento.

Quest'ultimo concetto Piga – economista con etichetta keynesiana - lo condivide, ma poi salta a conclusioni alquanto dubbie. Invoca “massicci tagli negli sprechi (quelli veri) per finanziare un altrettanto massiccio piano di investimenti pubblici”. Il che crea nel lettore diverse confusioni.

Intanto lascia intendere che i problemi dell’economia italiana potrebbero essere risolti con un intervento di riallocazione – spesa totale invariata, ma diversamente distribuita. Peggio ancora, alimenta il mito (uno dei luoghi comuni smentiti dal pensiero keynesiano) che gli “sprechi” siano sempre, di per sé, una negatività economica.

Ora, è controintuitivo, ma appunto per questo è importante ribadirlo: gli “sprechi” sono comunque un modo di mettere in circolazione potere d’acquisto. Se le risorse produttive sono già adeguatamente impiegate, questo è un grave errore (alimenta inflazione e non espansione economica). Ma in un contesto di domanda depressa, al contrario, la espande, e avvia una catena di effetti positivi su produzione e occupazione.

Quanto sopra ovviamente NON implica che la qualità e l’efficienza della spesa non abbiano importanza. Ce l’hanno: ma affermare che l’azione debba consistere in investimenti pubblici a fronte di tagli di spesa, significa dare per scontato che la riallocazione produrrà notevoli vantaggi.

E qui veniamo al luogo comune implicito in quanto sopra: che la spesa pubblica italiana sia disastrosamente inefficiente, e che quindi grandi benefici possano essere ottenuti dalla riallocazione verso gli investimenti.

E’ vero – banalmente vero, in effetti – che si può sempre spendere meglio. Ma se il settore pubblico italiano spende male, bisognerebbe intanto capire quale miracoloso meccanismo dovrebbe creare fantastici vantaggi tramite una riallocazione, visto che le strutture burocratiche che gestiscono la spesa in definitiva sempre quelle sono.

Inoltre, quanto è supportato dai fatti (non dalle chiacchiere da bar) il concetto che la spesa corrente italiana sia un disastro di inefficienza ? Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, quasi 300 sono trasferimenti (principalmente pensioni e interessi sul debito pubblico), che non costituiscono una componente del PIL (altro fatto che si tende a dimenticare).

Gli altri 500 circa sono la quota di spesa pubblica che invece concorre direttamente alla formazione del PIL. Per prendere due esempi significativi, oltre 100 sono costi del sistema sanitario, e 50 del sistema della pubblica istruzione. Fa già più del 30% del totale.

Bene: il sistema sanitario italiano è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità uno dei cinque migliori al mondo, sulla base di indicatori oggettivi di risultato (mortalità infantile, durata della vita, incidenza e trattamento delle malattie croniche ecc.) raffrontati alla spesa.

E in base ai test Invalsi, la qualità degli studenti italiani provenienti da scuole pubbliche è in linea con le medie OCSE (non meglio ma neanche peggio), a fronte peraltro di una minore incidenza della spesa rispetto al PIL.

Può darsi che l’altro 70% della spesa pubblica italiana sia una tale cloaca di inefficienza da mandare a fondo il sistema. Io però crederò a un’affermazione di questo tipo se e quando leggerò analisi complete e oggettive (non aneddoti) che lo provino e lo quantifichino.

E poi crederò che con la riallocazione di spesa si può ottenere qualcosa d’importante in tempi ragionevoli quando vedrò un piano d’intervento plausibile. Ricordando però che i miglioramenti di efficienza, soprattutto nelle organizzazioni complesse, nascono pressoché sempre da azioni ad effetto graduale.

Detto altrimenti: se sono l’azionista di una società e un candidato manager viene a dirmi che può ottenere miracoli di efficienza, e poi dati oggettivi, da fonti indipendenti e plausibili, mostrano che dove la vado a misurare la mia organizzazione (in termini per esempio di produttività, o di vendite per addetto) non è affatto peggio rispetto agli operatori comparabili… beh, quel candidato manager mi lascia molto, ma molto scettico.

giovedì 10 dicembre 2015

L’”Output Gap” dell’Eurozona



Alcuni giorni fa Paul Krugman esaminava alcuni dati riguardanti inflazione e disoccupazione nell’Eurozona. E si stupiva che questi dati portassero a stimare nell’8% circa l’Output Gap, cioè il minor livello del PIL attuale rispetto a quanto si dovrebbe rilevare in condizioni economiche normali: un ammanco enorme.

Lo stupore è probabilmente dovuto al fatto che le stime fornite da OCSE, FMI e Commissione Europea sono molto più basse, tendenzialmente intorno al 2-3%.

In realtà la stima dell’8% è decisamente più vicina alla realtà, anzi è probabilmente errata per difetto. Rendersene conto non è difficile partendo dalla constatazione che il PIL italiano 2015 è inferiore del 9% a quello del 2007.

Prima dell’inizio della crisi, sarebbe stata considerata deludente una crescita di nove punti nel giro di otto anni (poco più dell’1% medio). L’ordine di grandezza dell’Output Gap italiano è quindi stimabile non nel 9%, ma nel 18% almeno. E tenuto conto che il PIL italiano è circa un sesto di quello dell’Eurozona, l’Italia contribuisce da sola per un 3% circa all’Output Gap totale di quest’ultima.

Un altro 3% circa è attribuibile a Francia + Spagna, che sono in condizioni meno depresse rispetto al nostro paese, ma il cui PIL combinato è il doppio di quello italiano.
Aggiungiamo gli altri paesi meridionali in pesante crisi (Portogallo, Grecia) e le altre economie dell’area euro in condizione tutt’altro che ottimale (Finlandia, Paesi Bassi) e una stima dell’8% appare, appunto, completamente verosimile.

Un’altra indicazione interessante proviene dal fatto che dal 1999 a oggi, l’Eurozona ha accumulato un ammanco di crescita, rispetto al Regno Unito (la più importante economia europea che non usa l’euro) del 12% circa (ammanco tra l’altro in costante incremento, trimestre dopo trimestre, perché la crescita del Regno Unito continua a essere più sostenuta di quella dell’Eurozona).

Una parte di questo vuoto di PIL si spiega con la minor crescita demografica, ma il grosso è dovuto ai vincoli dell’Eurosistema e alla conseguente catastrofica gestione degli eventi successivi alla crisi Lehman del 2008 e alla crisi dei debiti sovrani, soprattutto dal 2011 in poi.

E va ricordato che il Regno Unito non è stata in questi anni un’economia fortemente dinamica, e che la crisi finanziaria l’ha colpito in modo particolarmente accentuato (visto il peso del settore bancario – finanziario).

Pur essendo profondamente critico in merito alle modalità di conduzione macroeconomica dell’Eurozona, Krugman tende a prendere per buone, almeno in prima approssimazione, le stime delle organizzazioni sovranazionali. La verità è invece che FMI, OCSE e soprattutto Commissione Europea stanno arrampicandosi sugli specchi per occultare le disastrose conseguenze dell’Eurosistema e delle politiche di austerità: tra le altre cose, sottostimando pesantemente le potenzialità produttive e di crescita dell’Eurozona, e quindi lo scarto tra il PIL effettivo e quello potenziale.

Si sta parlando di molte centinaia di miliardi di PIL perso ogni anno, di svariati milioni di posti di lavoro in meno, di decine di migliaia di aziende fallite. E mese dopo mese i numeri crescono.

venerdì 5 luglio 2013

Riforme strutturali: facciamoci una cultura


Essì. Ne parla un sacco di gente. Cattedratici, opinionisti, alti burocrati internazionali. Lo dicono, tutti questi signori: dalla crisi si esce con le riforme strutturali.
 
Evidentemente a me sfugge qualcosa. A me sembra che l’economia stia sprofondando perché non c’è credito, la moneta non circola e ci ammazzano di tasse. Ma la realtà è moooooolto più complessa. Mi devo documentare, allora.
 
Da qualche parte bisogna cominciare, no ? e allora vediamo un po’ che cosa ha detto Angel Gurria, segretario generale OCSE, il 24 settembre 2012. E’ venuto a Roma e ha tenuto il discorso d’apertura alla Conferenza Internazionale Sulle Riforme Strutturali In Italia (tutto maiuscolo). Qui si parte bene, mi sono detto.
 
Gurria nel suo discorso, per citarlo alla lettera, si limita a “sottolineare soltanto cinque piste che l’Italia deve seguire nel cavalcare quest’onda tumultuosa delle riforme”. Perché, dice, c’è un rapporto che ne elenca dodici o tredici (non se lo ricordava neanche lui). Vabbè, il rapporto lo leggerò. Cominciamo da queste cinque, se le sottolinea saranno le più importanti (credo).
 
Primo, migliorare la competitività – che significa “aumentare la produttività, mantenere moderate le dinamiche salariali in modo che siano in linea con la produttività, e ridurre la pressione fiscale sul reddito da lavoro, a condizione di farlo in modo fiscalmente neutro”.
 
Volevo chiamare uno dei tanti imprenditori che conosco per dirgli “lo sai che la prima riforma strutturale è aumentare la produttività ?” Però mi sono trattenuto. Non mi sembra una riforma strutturale. Questi signori pensano a aumentare la produttività tutti i giorni, e tutti i giorni trovano il modo di migliorare qualcosina. Certo, non è che per vent’anni non l’hanno fatto e adesso si svegliano perché hanno sentito Gurria, e migliorano del 20% in un mese.
 
Ridurre la pressione fiscale sul lavoro suona meglio ma “a condizione di farlo in modo fiscalmente neutro” ? cioè miglioriamo una cosa e ne tagliamo un’altra ? dà un grosso aiuto per uscire da una crisi così pesante, questo ? Boh. Vado avanti.
 
Secondo, consolidare le finanze pubbliche. “Questo richiede ulteriori sforzi per ridurre a livelli più sostenibili l’alto debito sovrano italiano”. Ah ecco. Non è che miglioro di 10 le tasse sul lavoro e taglio di 10 altre spese. No, le taglio di 20 perché “bisogna ridurre l’alto debito sovrano italiano”. Mmh. Proseguo.
 
Terzo, rafforzare le politiche sociali. “Attuare le riforme strutturali” ma nello stesso tempo “migliorare la coesione sociale”. Gurria è scandalizzato perché la disoccupazione ha superato l’11% e quella giovanile il 35%. Lo sanno tutti che questo si risolve “consolidando le finanze pubbliche”. Infatti nel frattempo le percentuali sono aumentate. Ma forse Gurria non è ripassato in Italia e non lo sa.
 
Quarto, “cambiamento strutturale, sociale, ma anche verde, questo lo chiamiamo eco-compatibilità”. Non si può più fare affidamento sulle “stesse energie altamente inquinanti che stanno distruggendo il nostro pianeta”. Bravo Gurria. Questa è sicuramente una riforma strutturale. Ma come risolve il problema della disoccupazione e della coesione sociale – come lo risolve OGGI, intendo ?
 
Quinto, “il ruolo fondamentale dell’attuazione. Implementation, implementation, implementation”, che “richiede istituzioni competenti ed efficaci per guidare e valutare i progressi” tra l’altro compiendo “ulteriori passi a favore dell’integrità e della trasparenza, e della lotta alla corruzione”. Cioè per attuare le riforme strutturali bisogna saper attuare le riforme strutturali. Lo diceva anche mio nonno: “ci vuole essere capaci”. Elementare Watson. Come mai non c’ero arrivato da solo.
 
A questo punto mi è venuto in mente Mario Missiroli, direttore del Messaggero e del Corriere della Sera negli anni Cinquanta. Quando il suo critico cinematografico gli portava un pezzo particolarmente incomprensibile, gli diceva più o meno: “perdoni, il torto è mio. Ho letto Voltaire, e l’ho capito. Ho letto Kant, e l’ho capito. Ho letto anche Hegel, e l’ho capito. La sua critica però, il torto è mio ma non l’ho capita. Me la riscrive per favore ?”.
 
Insomma Gurria non l’ho capito. E non gli posso chiedere neanche di riscrivere. Pazienza, ci sono altri sette (o otto ?) punti nel rapporto. Leggo, e se capisco qualcosa vi faccio sapere. Chissà perché sono scettico. Non fateci caso, sarà un cattivo umore di giornata.