Visualizzazione post con etichetta Maurizio Gustinicchi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Maurizio Gustinicchi. Mostra tutti i post

mercoledì 20 giugno 2018

La redditività macroeconomica degli investimenti


Si è discusso parecchio, ieri, dell’intervento del nuovo ministro dell’Economia – Giovanni Tria – durante il dibattito sul DEF (Documento Economico Finanziario) alla Camera.

Parecchi equivoci sono nati perché molti hanno interpretato il documento come un piano d’azione del governo. E’, invece, solo il quadro “tendenziale” (quindi in assenza di interventi) predisposto dal governo uscente.

Il DEF 2019-2021 che rifletterà le intenzioni del nuovo governo sarà invece predisposto a settembre. Tria ha delineato verbalmente alcuni principi, che sono ancora ben lontani, evidentemente, da costituire proposte specifiche.

Diversi commentatori non esattamente favorevoli alla nuova compagine governativa hanno parlato di “marcia indietro” rispetto all’accordo di coalizione M5S – Lega, ma dopo una lettura attenta delle parole di Tria, mi sono formato un’altra opinione.

Due cose non mi sono piaciute: l’insistenza sul fantomatico beneficio che ci si attende (prima o poi…) dalle fantomatiche e sempiterne “riforme strutturali” (Tria dovrebbe dare un'occhiata a questo…) e il riferimento “al debito contratto negli anni Ottanta che grava sulle nostre spalle” (anche qui, ho un paio di letture da suggerire al ministro: per esempio questa, e questa).

Ma nella sostanza, le intenzioni di Tria si possono riassumere come segue: (1) sostegno alle fasce sociali disagiate (2) abbassamento delle tasse e (3) rilancio degli investimenti pubblici.

Tutto questo è in effetti coerente con l’accordo di coalizione, e se l’Italia portasse il deficit / PIL al 3% adottando la golden rule (pareggio del saldo entrate-uscite correnti e deficit realizzato con investimenti) gli effetti in termini di ripartenza della crescita economica nel paese sarebbero tutt’altro che disprezzabili.

Ovviamente l’applicazione della golden rule, cioè dello scorporo degli investimenti dal deficit, bisogna ottenerla dalla UE, o meglio imporla.

Premesso che la partita è politica, a livello strettamente tecnico mi pare il caso di commentare un’osservazione di Maurizio Gustinicchi, secondo cui la dimostrazione che gli investimenti a deficit non impoveriscono il paese richiede una previsione plausibile che le entrate future associate agli investimenti stessi siano almeno di pari valore.

E’ vero, ma bisogna anche, come spesso succede, non trattare le stime macroeconomiche come se si avesse a che fare con valutazioni di tipo aziendale (microeconomico).

La differenza è importantissima ma tende spesso a sfuggire. Un investimento aziendale produce ricavi e costi, e i costi sono quelli relativi all’acquisizione delle risorse necessarie ad attuarlo. In primo luogo, costi di lavoro.

Ma a livello macroeconomico, se le risorse produttive sono sottoutilizzate e l’investimento mette quindi all’opera persone e mezzi che altrimenti resterebbero inattivi, i costi relativi non sono costi. Sono una distribuzione di valore aggiunto, quindi di reddito supplementare, a favore (per esempio, e in primo luogo) di manodopera e fornitori.

Il reddito operativo generato da un’azienda su un nuovo investimento è già molto soddisfacente quando si colloca tra il 20% e il 30%. Ma il valore aggiunto, quindi il contributo al PIL, a livello macroeconomico si avvicina al 100% quando l’investimento mette al lavoro persone e aziende che altrimenti resterebbero inattive. E quasi la metà di questo valore aggiunto rientra nel settore pubblico sotto forma di maggiori tasse.

Gli intendimenti di Tria in definitiva non mi sembrano male, senz’altro meglio (avendo esaminato il testo dell’intervento) rispetto a parecchi commenti che si sono letti. Naturalmente, bisogna che seguano i fatti.

E fin da subito bisogna sminare, invece, il tentativo franco-tedesco di una “fuga in avanti” per un’ulteriore integrazione dell’Eurozona (che si tradurrebbe, tanto per cambiare, in nuovi vincoli in cambio sostanzialmente di nulla). Speriamo (è abbastanza probabile) che si tratti di molto fumo dietro il quale non c’è nessuna possibilità di concretizzare, in sostanza, nulla (le resistenze arrivano da molti fronti e da molti paesi, e questo aiuta).


domenica 29 dicembre 2013

Spagna, Italia, e il (solito) equivoco sul debito pubblico


Maurizio Gustinicchi illustra qui benissimo che la presunta ripresa dell’economia spagnola (presunta in quanto i dati macroeconomici 2013 sono di forte calo del PIL reale, un po’ meno disastroso di quello italiano, ma forte calo comunque) è in realtà tutta dovuta al fatto che la UE ha consentito un grosso sforamento del vincolo del 3% (relativo al rapporto deficit pubblico / PIL).

Vincolo al cui rispetto l’Italia è stata invece “millimetricamente” inchiodata.

Ritengo tuttavia utile commentare il cappello che il blog “Rischio Calcolato” mette in testa all’articolo, in particolare dove dice:

“La differenza tra Spagna e Italia è che loro il jolly dell’aumento debito / PIL se lo possono ancora giocare (sono sotto il 90%), noi ce lo siamo già giocato dai tempi di Craxi, Andreotti e Forlani”.

L’affermazione lascia intendere che lo sforamento è stato consentito alla Spagna (ma anche all’Irlanda, e in misura minore alla Francia) e non a noi perché il debito / PIL italiano è più alto (oltre il 130%, ormai).

Bene, può darsi che queste siano stata effettivamente le motivazioni di quanto stabilito dalle menti illuminate di Bruxelles. Ma se è così sono basate su analisi completamente sbagliate.

Se all’Italia fosse stato consentito un deficit / PIL più alto, per esempio di cinque punti percentuali (8% invece di 3%), il PIL italiano 2013 sarebbe stato nettamente più elevato.

Ipotizziamo che cinque punti di deficit in più (quindi di maggiore spesa pubblica al netto di minori tasse) si fossero tradotti in cinque punti di maggior PIL.

E’ un’ipotesi con ogni probabilità cautelativa, perché non tiene conto che, partendo da una situazione depressa, lo stimolo dato dal maggior deficit si traduce in una crescita di domanda e PIL in rapporto maggiore di 1:1. E nemmeno che il maggior PIL produce maggiori incassi fiscali, che a loro volta limitano l’incremento del deficit.

E’ anche vero, d’altra parte, che maggior domanda interna implica maggiori importazioni, che in parte riducono il beneficio sul PIL. Qui peraltro si sarebbe potuto senza difficoltà compensare l’effetto, destinando una parte delle risorse liberate dall’allentamento del vincolo deficit / PIL alla riduzione delle imposte sui costi di lavoro sostenuti dalle aziende (quindi del cuneo fiscale). Ottenendo così un almeno parziale riallineamento della competitività italiana rispetto a quella nordeuropea (tedesca in particolare).

Ma stiamo sul semplice. Diciamo maggior deficit = maggior PIL in rapporto 1:1.

Vediamo i risultati. Questi sono i dati 2013, ormai praticamente finali, per l’Italia.


PIL

 

1.557

Deficit pubblico

47

Deficit / PIL

3,0%

Debito pubblico

2.031

Debito / PIL

 

130,4%

 
E questa è la situazione, sulla base dell’ipotesi di maggior deficit che si converte 1:1 in maggior PIL, con un deficit pubblico dell’8%.
 


PIL

 

1.642

Deficit pubblico

131

Deficit / PIL

8,0%

Debito pubblico

2.116

Debito / PIL

 

128,9%

 
Sono 85 miliardi di maggior PIL. Vuol dire che invece di un calo di quasi il 2% il PIL italiano avrebbe avuto una crescita superiore al 3% (altro che il -1,3% spagnolo).

E il rapporto debito / PIL ? sarebbe stato più basso.

E’ difficile da capire tutto questo ? per il governo italiano pare di sì. Giusto l’altro ieri sentivo Emma Bonino (europeista di ferro, com’è noto) dire alla radio “d’altra parte il primo problema è il debito, il debito l’abbiamo fatto noi, non possiamo incolpare nessun altro”.

Ho cambiato canale.

Non senza ricordare che il 4 gennaio 1933 (non il 27 dicembre 2013) un signore di nome John Maynard Keynes (non Emma Bonino) pronunciava alla radio inglese (non italiana) queste parole:

“Non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il ministro delle finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda. La sola speranza di equilibrare il bilancio in modo stabile e permanente passa dall’evitare l’enorme aggravio dovuto alla disoccupazione. Per questo sostengo che, anche nel caso in cui si prenda il bilancio pubblico come unico metro di giudizio, il criterio principale per giudicare se le politiche siano state o no un successo, è lo stato dell’occupazione”.

Oh, nel 1933 il debito pubblico del Regno Unito era pari a circa il 180% del PIL.

Senza contare che in una situazione di domanda pesantemente depressa, il maggior deficit potrebbe essere finanziato non da debito, ma da maggiore emissione di moneta – senza rischi di inflazione.

E, ancora, senza contare che una politica monetaria espansiva può essere attuata selettivamente anche nell’eurozona, dove serve in misura diversa (molto in alcuni paesi, meno in altri e per nulla in altri ancora), se si identificano gli strumenti adeguati.

Ma naturalmente Olli Rehn, ex scadente calciatore convertitosi in catastrofico commissario UE, mesi fa ha utilizzato le sue capacità di medium per farci sapere che “oggi nemmeno Keynes sarebbe un keynesiano”.
 
Nella migliore delle ipotesi, siamo nelle mani di un branco di incompetenti.