Si è discusso
parecchio, ieri, dell’intervento del nuovo ministro dell’Economia – Giovanni Tria
– durante il dibattito sul DEF (Documento Economico Finanziario) alla Camera.
Parecchi equivoci
sono nati perché molti hanno interpretato il documento come un piano d’azione
del governo. E’, invece, solo il quadro “tendenziale” (quindi in assenza di
interventi) predisposto dal governo uscente.
Il DEF 2019-2021
che rifletterà le intenzioni del nuovo governo sarà invece predisposto a
settembre. Tria ha delineato verbalmente alcuni principi, che sono ancora ben
lontani, evidentemente, da costituire proposte specifiche.
Diversi commentatori
non esattamente favorevoli alla nuova compagine governativa hanno parlato di “marcia
indietro” rispetto all’accordo di coalizione M5S – Lega, ma dopo una lettura
attenta delle parole di Tria, mi sono formato un’altra opinione.
Due cose non mi
sono piaciute: l’insistenza sul fantomatico beneficio che ci si attende (prima
o poi…) dalle fantomatiche e sempiterne “riforme strutturali” (Tria dovrebbe
dare un'occhiata a questo…) e il riferimento “al debito contratto negli anni Ottanta che grava sulle nostre spalle” (anche qui, ho un paio di letture da suggerire
al ministro: per esempio questa, e questa).
Ma nella sostanza,
le intenzioni di Tria si possono riassumere come segue: (1) sostegno alle fasce
sociali disagiate (2) abbassamento delle tasse e (3) rilancio degli
investimenti pubblici.
Tutto questo è in
effetti coerente con l’accordo di coalizione, e se l’Italia portasse il deficit
/ PIL al 3% adottando la golden rule
(pareggio del saldo entrate-uscite correnti e deficit realizzato con
investimenti) gli effetti in termini di ripartenza della crescita economica nel
paese sarebbero tutt’altro che disprezzabili.
Ovviamente l’applicazione
della golden rule, cioè dello
scorporo degli investimenti dal deficit, bisogna ottenerla dalla UE, o meglio
imporla.
Premesso che la
partita è politica, a livello strettamente tecnico mi pare il caso di
commentare un’osservazione di Maurizio Gustinicchi, secondo cui la
dimostrazione che gli investimenti a deficit non impoveriscono il paese richiede
una previsione plausibile che le entrate future associate agli investimenti
stessi siano almeno di pari valore.
E’ vero, ma
bisogna anche, come spesso succede, non trattare le stime macroeconomiche come
se si avesse a che fare con valutazioni di tipo aziendale (microeconomico).
La differenza è
importantissima ma tende spesso a sfuggire. Un investimento aziendale produce
ricavi e costi, e i costi sono quelli relativi all’acquisizione delle risorse
necessarie ad attuarlo. In primo luogo, costi di lavoro.
Ma a livello
macroeconomico, se le risorse produttive sono sottoutilizzate e l’investimento
mette quindi all’opera persone e mezzi che altrimenti resterebbero inattivi, i
costi relativi non sono costi. Sono una distribuzione di valore aggiunto,
quindi di reddito supplementare, a
favore (per esempio, e in primo luogo) di manodopera e fornitori.
Il reddito
operativo generato da un’azienda su un nuovo investimento è già molto
soddisfacente quando si colloca tra il 20% e il 30%. Ma il valore aggiunto,
quindi il contributo al PIL, a livello macroeconomico si avvicina al 100%
quando l’investimento mette al lavoro persone e aziende che altrimenti
resterebbero inattive. E quasi la metà di questo valore aggiunto rientra nel
settore pubblico sotto forma di maggiori tasse.
Gli intendimenti
di Tria in definitiva non mi sembrano male, senz’altro meglio (avendo esaminato
il testo dell’intervento) rispetto a parecchi commenti che si sono letti.
Naturalmente, bisogna che seguano i fatti.
E fin da subito bisogna
sminare, invece, il tentativo franco-tedesco di una “fuga in avanti” per un’ulteriore
integrazione dell’Eurozona (che si tradurrebbe, tanto per cambiare, in nuovi
vincoli in cambio sostanzialmente di nulla). Speriamo (è abbastanza probabile)
che si tratti di molto fumo dietro il quale non c’è nessuna possibilità di
concretizzare, in sostanza, nulla (le resistenze arrivano da molti fronti e da
molti paesi, e questo aiuta).