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mercoledì 12 settembre 2018

Deficit spending, crescita e il ministro Tria


Un giudizio più compiuto sul Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sarò in grado di fornirlo tra poche settimane, dopo la presentazione della proposta di legge di bilancio 2019.

Nel frattempo comunque mi sento di dire che ne ammiro molto la sottigliezza delle dichiarazioni e delle argomentazioni: eccellenti esercizi di equilibrismo dialettico.

Una dote certamente utile in questa fase, in cui Tria si propone di contenere i fenomeni speculativi sul mercato del debito pubblico italiano (e quindi il famigerato spread: con ottimi risultati, in questi ultimi giorni).

Ma senza, nello stesso tempo, smentire che il programma economico del governo M5S – Lega (meno tasse, sostegno alle fase sociali disagiate, rilancio della domanda e della crescita) sia realizzabile. Sia pure – ma questo personalmente lo ritenevo evidente fin dall’inizio – diluendo gli interventi nell’arco di alcuni anni, in un orizzonte di legislatura quindi.

Un esempio è una frase pronunciata in pubblico pochi giorni fa: “la carenza di crescita non si risolve con il deficit spending”.

Frase interpretata da qualcuno come indicativa del fatto che Tria non creda alla valenza di immettere nell’economia più potere d’acquisto, tramite più spesa pubblica, più trasferimenti, o minori tasse.

E dagli operatori di mercato finanziario come un’indicazione che non ci si lancerà in programmi di spesa “folli e incontrollati” (cosa che ovviamente, in realtà, non aveva mai proposto nessuno: ma non guasta chiarire il fraintendimento una volta di più piuttosto che una di meno).

Chiarire l'equivoco è semplice. Il deficit spending, o più esattamente, appunto, l'incremento del potere d'acquisto immesso nell'economia, non incrementa, di per sé e direttamente, il tasso di crescita potenziale dell'economia.

Ma svolge un’altra, fondamentale, funzione: riduce l’output gap, cioè il minor livello di produzione rispetto alle capacità del sistema economico, nel momento in cui questa minore produzione è dovuta a una pesantissima e conclamata carenza di domanda.

Detto in soldoni: se l’automobile sta viaggiando a 80 kmh mentre ha una velocità di crociera ottimale di 130, il deficit spending (nel senso sopra definito) non la porta (la velocità di crociera) a 150. Ma equivale a schiacciare l’acceleratore, salendo appunto da 80 a 130.

E per l’automobile / sistema economico, raggiungere la velocità di crociera significa sfruttare al meglio le risorse produttive e abbattere la disoccupazione.

Sul potenziale di crescita, peraltro, raggiungere e mantenere la velocità di crociera ha tutta una serie di benefici indiretti, non istantanei ma evidenti già a breve-medio termine. Tornare a un livello ottimale di occupazione migliora enormemente anche la redditività e la produttività delle aziende e dà loro le risorse, nonché l’incentivo, a innovare, a fare ricerca, e a investire.

Quindi la carenza di crescita non si risolve – direttamente – con il deficit spending. Ma la disoccupazione e il sottoutilizzo di capacità delle aziende sì.

E l’innalzamento del potenziale produttivo del paese viene di conseguenza.


lunedì 3 settembre 2018

Una legge di bilancio "tre volte tre"


La prima proposta di legge di bilancio del 2019 sarà presentata entro poche settimane. Secondo alcuni commentatori, il rischio da evitare è quello dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della commissione UE, se la previsione di rapporto deficit / PIL non sarà in calo rispetto al 2018 (anno per il quale l’obiettivo era l’1,6%, ma probabilmente a consuntivo sarà un po’ più alto).

Il problema è veramente quello ? la commissione UE, la procedura d’infrazione ? non ne sono convinto. Spagna e Francia sono stati in procedura d’infrazione per quasi dieci anni, ma su spread e tassi del loro debito pubblico la cosa è risultata del tutto irrilevante.

Il problema (visto che ci troviamo nella sciagurata situazione di aver convertito il nostro debito pubblico in un moneta che il nostro paese non emette) è l’atteggiamento dei mercati. La domanda da porsi è quindi un’altra: che cosa effettivamente si aspettano, o che cosa temono, i mercati finanziari.

Per i mercati i punti chiave non sono gli obiettivi di riduzione deficit previsti dal Fiscal Compact (che è da sempre ampiamente disatteso, e alla cui possibilità di realizzazione non ha mai creduto nessuno).

Per i mercati i punti chiave sono:

UNO, rispettare il limite originario del 3% per il rapporto deficit / PIL: limite che il Fiscal Compact sulla carta ha fatto decadere, ma tutti (data, appunto, l’irrealizzabilità del Fiscal Compact nell’ambito dell’attuale Eurosistema) hanno tuttora in mente. Anche perché le dichiarazioni degli esponenti dei partiti di maggioranza e del governo continuano a ruotare intorno a questo punto: rispettare o non rispettare il 3%.

DUE, vedere l’economia italiana che torna, finalmente, a crescere con vigore.

TRE, constatare che si riduce non il rapporto deficit / PIL, ma il rapporto debito / PIL.

Ora, come si argomentava qui, è assolutamente plausibile per l’Italia conseguire una crescita reale del 3% senza superare il rapporto del 3% per il deficit / PIL.

Anzi è possibile starne al di sotto se verranno almeno in parte attuate una o più delle seguenti proposte: sblocco di investimenti pubblici già conteggiati nei deficit degli anni scorsi ma non messi in atto, come propone il Ministro Tria; accelerazione degli investimenti da parte delle società partecipate dallo Stato (ENI, ENEL, Leonardo, Terna, Fincantieri ecc.) come propone il Ministro Savona; e attuazione anche solo parziale del progetto Moneta Fiscale.

Mantenendo comunque le ipotesi di crescita reale al 3%, crescita nominale al 4,5% (che richiede una modesta accelerazione dell’inflazione, più che plausibile se la crescita si incrementa) e deficit / PIL al 3%, che cosa accade al debito / PIL ?

A fine 2018 il rapporto sarà pari al 132% circa.

A fine 2019, il PIL passerebbe (fatto pari a 100 il dato 2018) a 104,5 (100 più 4,5), e il debito a 135 (132 più 3).

Il rapporto diventa quindi, in questa ipotesi, 135 / 104,5 = 129% circa.

Sarebbe una legge di bilancio “tre volte tre”: 3% di deficit, 3% di crescita reale, e tre punti in meno di rapporto debito / PIL.

Una legge di bilancio con queste (plausibili) previsioni non ci creerebbe nessun problema con i mercati. Anzi, applausi a scena aperta.


martedì 21 agosto 2018

Investimenti pubblici, ma non solo


Le più recenti dichiarazioni di vari esponenti del governo confermano l’intenzione di puntare su un rafforzamento degli investimenti pubblici per ottenere un rilevante effetto espansivo e portare la crescita economica 2019 almeno al 2%.

Lo si era già detto qui: è il livello minimo perché si possa affermare che è stata ottenuta una significativa discontinuità rispetto al recente passato. Per inciso, basterebbe un'applicazione anche solo parziale del progetto CCF per arrivare senza problemi al 3%.

Anche in assenza di CCF, ad ogni modo, alcune leve di azione possibili sono state indicate dal Ministro Tria, che ha citato 118 miliardi di investimenti già approvati in passato, che sono già stati computati nei deficit pubblici degli anni scorsi, ma che non sono stati attuati per problemi operativi e legali (ad esempio le normative – da rivedere – che costringono gli enti pubblici territoriali, quali comuni e regioni, a investire solo l’avanzo di cassa dell’anno, quando spesso hanno liquidità accumulata negli anni precedenti).

Basta sbloccare solo una parte minore di quegli importi per ottenere un effetto significativo sulla crescita reale del PIL.

Il Ministro Savona ha da parte sua indicato che varie società partecipate dallo Stato – Terna, Leonardo, ENI, ENEL – hanno importanti programmi di investimenti, che daranno un ulteriore contributo se arriveranno a livelli superiori a quelli del 2018 – e, va ricordato, se verranno attuati utilizzando strutture organizzative e fornitori localizzati in Italia.

La terribile sciagura del Ponte Morandi di Genova rafforza senz’altro la sensibilità della pubblica opinione a favore dell’urgenza di investire su infrastrutture, manutenzione e sicurezza. Anche rivedendo e ripensando il sistema delle concessioni di pubblici servizi e imponendo (de minimis) ai concessionari vincoli molto più stringenti degli attuali.

Due annotazioni, però. Benissimo rilanciare gli investimenti pubblici (nel senso più ampio del termine, quindi incluse le partecipate statali e i concessionari). Ce n’è la necessità, anzi l’urgenza, e per incrementare lo sviluppo del PIL sono molto efficaci. Non dimentichiamo però che, presa la decisione politica, vanno anche valutati i vincoli operativi. Spesso non è banale, sul piano strettamente pratico ed esecutivo, avviare un investimento anche quando ce ne sono mezzi e volontà.

In secondo luogo: l’opinione pubblica si sta, un po’ alla volta, liberando da dicotomie errate – deficit brutto / pareggio di bilancio bello; pubblico brutto / privato bello. Ma attenzione a non ricadere in una nuova contrapposizione, altrettanto errata: spesa corrente brutta / investimento bello. Contrapposizione che sento menzionare (come fosse una verità evidente) un po’ troppo spesso negli ultimi tempi.

La spesa pubblica corrente non ha nulla che la debba far considerare negativa a priori. Anzi: spesa pubblica corrente è anche quella necessaria a dotare delle strutture adeguate (personale e organizzazione) la sanità, le scuole, la pubblica sicurezza, i vigili del fuoco, la tutela del territorio e molte altre cose.

Se oggi risulta più facile far ripartire la crescita facendo leva sugli investimenti, benissimo. Ma il più rapidamente possibile, vanno creati i presupposti per irrobustire, invertendo le demenziali politiche di tagli che ci affliggono da molti anni, anche la spesa pubblica corrente nei molti settori in cui il paese ne ha grandissimo bisogno.


mercoledì 8 agosto 2018

Come arrivare al 3% di crescita


L’ultimo aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, elaborato a cura dell’allora ministro Padoan nell’aprile scorso, riportava un’ipotesi 2019 “tendenziale” (cioè a legislazione invariata) di crescita del PIL reale dell’1,4%, e di deficit / PIL dello 0,8%.

Nel frattempo però la congiuntura europea si è raffreddata e tutte le principali economie del continente sono in rallentamento. Vedremo le nuove previsioni del Ministero dell’Economia a settembre-ottobre, ma proprio oggi alcune dichiarazioni del Ministro Tria citavano (sempre a legislazione invariata) una crescita 2019 all’1% e un deficit dell’1,2%.

Claudio Borghi pochi giorni fa scriveva su Twitter che, in assenza di vincoli dovuti alle interlocuzioni con la UE e alle turbolenze dei mercati finanziari, punterebbe a un deficit / PIL del 3%.

Supponiamo che si convenga, alla fine, di approvare una legge di bilancio 2019 che preveda un impulso fiscale (maggiori spese e/o minori tasse) positivo per un punto di PIL, corrispondente a circa 18 miliardi.

Stimando (prudenzialmente) un moltiplicatore fiscale di 1x, l’accelerazione della crescita sarebbe anch’essa dell’1%. Quasi metà dell'impulso fiscale verrebbe recuperato (ai fini del deficit pubblico) mediante maggiori incassi della pubblica amministrazione (visto che la pressione fiscale complessiva è, in Italia, di poco inferiore al 50%). Diciamo uno 0,4%. Il deficit / PIL aumenterebbe quindi dello 0,6%.

Avremmo quindi una crescita del 2% con un deficit dell’1,8%.

Come ottenere un maggior impulso fiscale, come (giustamente) desidera Borghi, e di conseguenza una crescita significativamente superiore ?

Introducendo nell’economia Moneta Fiscale (CCF o Minibot – ma nella misura in cui si trattasse di Minibot, emessi fiat con valenza espansiva, non a compensazione di crediti già esistenti: altrimenti l’effetto sulla crescita del PIL è molto più basso dell’importo facciale, come si spiegava qui) per un ulteriore punto di PIL: altri 18 miliardi.

Una parte dell’azione espansiva può essere destinata a ridurre il cuneo fiscale a beneficio delle imprese. Questo ridurrebbe il costo del lavoro lordo (senza però penalizzare i redditi netti dei lavoratori) ed eviterebbe che l’accelerazione dell’economia peggiori i saldi commerciali esteri.

La Moneta Fiscale non è debito pubblico. Avremmo un punto di ulteriore maggior crescita del PIL e un calo dello 0,4% nel deficit / PIL, dovuto al maggior gettito prodotto dall’incremento del PIL.

La crescita del PIL reale 2019 sarebbe quindi pari al 3%, e il deficit / PIL si assesterebbe all’1,4%.

Un 2019 così sarebbe un vero punto di svolta per l’economia italiana.

Si potrebbe fare ancora meglio (dal punto di vista del deficit) utilizzando Moneta Fiscale per l’intero importo (e non solo per una parte) della manovra espansiva totale.

Questo risultato però, dal punto di vista politico, è probabilmente più difficile da ottenere, in quanto la Moneta Fiscale è uno strumento innovativo, il che potrebbe (per motivi più psicologici che razionali) indurre – almeno per il primo anno – a non utilizzarla nella misura massima possibile.

In ogni caso, a costo di ripetere cose ovvie, mi preme ribadire che la legge di bilancio 2019 è un passaggio assolutamente chiave per il successo del governo in carica. Occorre ottenere una decisa accelerazione della crescita economica, e quindi l’avvio di una vera ripresa occupazionale.

Una crescita del 3% del PIL reale per il 2019 può sembrare ambiziosa, ma è invece fattibilissima. Raggiungerla, o quantomeno arrivarci molto vicini, uscendo dal tunnel degli zero virgola e degli uno virgola, è, per il governo in carica, la linea di demarcazione tra il successo e l’insuccesso.


lunedì 16 luglio 2018

A che cosa puntano Tria e Savona


Come intende muoversi il governo italiano nei confronti della UE, in vista dell’importantissima legge di bilancio 2019, che sarà presentata tra settembre e ottobre ?

Leggendo le dichiarazioni di (in particolare) Giovanni Tria e Paolo Savona, emerge con chiarezza quanto segue.

Il contratto di governo M5S – Lega prevede un impulso fiscale espansivo (potere d’acquisto immesso nell’economia sotto forma di maggiori spese, maggiori trasferimenti, maggiori investimenti, minori tasse) di un ordine di grandezza pari a circa 100 miliardi.

L’idea è di realizzarlo frazionando gli interventi su un arco di tempo pluriennale – per esempio, tre anni.

E la priorità verrà data alla ripartenza degli investimenti pubblici, che sono tra l’altro una delle forme di impulso fiscale a più alto moltiplicatore (quindi con il maggiore effetto espansivo sul PIL).

Tutto funziona se ci si accorda con la UE in merito allo scorporo degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit.

Via via che gli investimenti daranno impulso alla crescita e di conseguenza al gettito fiscale, si creeranno gli spazi necessari per avviare e incrementare altre azioni – reddito di cittadinanza, riduzioni di tasse eccetera.

E se la UE non ci sta ? Bisogna fare altro


mercoledì 20 giugno 2018

La redditività macroeconomica degli investimenti


Si è discusso parecchio, ieri, dell’intervento del nuovo ministro dell’Economia – Giovanni Tria – durante il dibattito sul DEF (Documento Economico Finanziario) alla Camera.

Parecchi equivoci sono nati perché molti hanno interpretato il documento come un piano d’azione del governo. E’, invece, solo il quadro “tendenziale” (quindi in assenza di interventi) predisposto dal governo uscente.

Il DEF 2019-2021 che rifletterà le intenzioni del nuovo governo sarà invece predisposto a settembre. Tria ha delineato verbalmente alcuni principi, che sono ancora ben lontani, evidentemente, da costituire proposte specifiche.

Diversi commentatori non esattamente favorevoli alla nuova compagine governativa hanno parlato di “marcia indietro” rispetto all’accordo di coalizione M5S – Lega, ma dopo una lettura attenta delle parole di Tria, mi sono formato un’altra opinione.

Due cose non mi sono piaciute: l’insistenza sul fantomatico beneficio che ci si attende (prima o poi…) dalle fantomatiche e sempiterne “riforme strutturali” (Tria dovrebbe dare un'occhiata a questo…) e il riferimento “al debito contratto negli anni Ottanta che grava sulle nostre spalle” (anche qui, ho un paio di letture da suggerire al ministro: per esempio questa, e questa).

Ma nella sostanza, le intenzioni di Tria si possono riassumere come segue: (1) sostegno alle fasce sociali disagiate (2) abbassamento delle tasse e (3) rilancio degli investimenti pubblici.

Tutto questo è in effetti coerente con l’accordo di coalizione, e se l’Italia portasse il deficit / PIL al 3% adottando la golden rule (pareggio del saldo entrate-uscite correnti e deficit realizzato con investimenti) gli effetti in termini di ripartenza della crescita economica nel paese sarebbero tutt’altro che disprezzabili.

Ovviamente l’applicazione della golden rule, cioè dello scorporo degli investimenti dal deficit, bisogna ottenerla dalla UE, o meglio imporla.

Premesso che la partita è politica, a livello strettamente tecnico mi pare il caso di commentare un’osservazione di Maurizio Gustinicchi, secondo cui la dimostrazione che gli investimenti a deficit non impoveriscono il paese richiede una previsione plausibile che le entrate future associate agli investimenti stessi siano almeno di pari valore.

E’ vero, ma bisogna anche, come spesso succede, non trattare le stime macroeconomiche come se si avesse a che fare con valutazioni di tipo aziendale (microeconomico).

La differenza è importantissima ma tende spesso a sfuggire. Un investimento aziendale produce ricavi e costi, e i costi sono quelli relativi all’acquisizione delle risorse necessarie ad attuarlo. In primo luogo, costi di lavoro.

Ma a livello macroeconomico, se le risorse produttive sono sottoutilizzate e l’investimento mette quindi all’opera persone e mezzi che altrimenti resterebbero inattivi, i costi relativi non sono costi. Sono una distribuzione di valore aggiunto, quindi di reddito supplementare, a favore (per esempio, e in primo luogo) di manodopera e fornitori.

Il reddito operativo generato da un’azienda su un nuovo investimento è già molto soddisfacente quando si colloca tra il 20% e il 30%. Ma il valore aggiunto, quindi il contributo al PIL, a livello macroeconomico si avvicina al 100% quando l’investimento mette al lavoro persone e aziende che altrimenti resterebbero inattive. E quasi la metà di questo valore aggiunto rientra nel settore pubblico sotto forma di maggiori tasse.

Gli intendimenti di Tria in definitiva non mi sembrano male, senz’altro meglio (avendo esaminato il testo dell’intervento) rispetto a parecchi commenti che si sono letti. Naturalmente, bisogna che seguano i fatti.

E fin da subito bisogna sminare, invece, il tentativo franco-tedesco di una “fuga in avanti” per un’ulteriore integrazione dell’Eurozona (che si tradurrebbe, tanto per cambiare, in nuovi vincoli in cambio sostanzialmente di nulla). Speriamo (è abbastanza probabile) che si tratti di molto fumo dietro il quale non c’è nessuna possibilità di concretizzare, in sostanza, nulla (le resistenze arrivano da molti fronti e da molti paesi, e questo aiuta).