domenica 4 dicembre 2016

Lira-euro, non è stato il cambio di partenza

Il 1° gennaio 1999 l’Italia è entrata nella moneta unica in base a un rapporto di 1936,27 lire per un euro. Il problema all’origine dei guai successivi, si dice spesso, è che quel rapporto era sbagliato, in quanto troppo forte per l’economia italiana.

In realtà non c’è motivo di pensarlo. Il cambio era in linea con quello di mercato di quel periodo e degli anni immediatamente precedenti. E in quegli anni l'economia italiana registrava tassi di crescita del PIL e della produttività in linea con gli altri paesi dell’Eurozona, trovare lavoro non era particolarmente problematico, e non si registravano deficit negli scambi con l’estero.

L’errore non stava nel cambio di partenza, ma in una serie di caratteristiche del sistema-euro che lo rendono tremendamente rigido e inefficiente:

PRIMO, un cambio equilibrato nel 1999 ha buone probabilità di non esserlo più qualche anno dopo, perché i tassi d’inflazione e di crescita del costo del lavoro per unità di prodotto divergono da paese a paese.

SECONDO, il debito pubblico degli stati che hanno fatto il loro ingresso nell’euro è stato convertito ed è quindi diventato, a tutti gli effetti pratici, debito espresso in moneta straniera. La differenza è enorme: il debito in moneta estera non è garantito dalla potestà di emissione monetaria dello stato emittente (o della sua banca centrale, che rispetto allo stato può avere livelli d’indipendenza più o meno elevati, ma ben difficilmente potrà mai consentire il default sulle obbligazioni statali espresse in moneta nazionale). Questa garanzia la BCE NON la forniva agli stati dell’Eurozona, tanto è vero che la Grecia è andata in default sul suo debito pubblico. E l’assenza della garanzia BCE esponeva i titoli di stato dei vari paesi ad attacchi speculativi, che si sono manifestati soprattutto con la “crisi dello spread” del 2011.

TERZO, dal 2012 il “whatever it takes” di Draghi ha modificato questa situazione trasformando la BCE in “lender of last resort”, cioè in garante dei debiti pubblici degli stati: ma solo a prezzo di “condizionalità” non precisate a priori che comunque, di fatto, legano le mani alle politiche economiche degli stati e tolgono autonomia nell’effettuazione di azioni anticicliche e di stabilizzazione del proprio sistema economico, finanziario e bancario.

L’economia italiana può avviare una forte ripresa immettendo domanda nel sistema economico e dirigendola verso i consumi, gli investimenti e la competitività delle aziende: quindi azioni di spesa, di detassazione, di riduzione del cuneo fiscale. Ma l’architettura dell’attuale eurosistema lo impedisce.

La soluzione richiede l’uscita da questi vincoli. E poiché a livello politico non esiste alcun consenso per rinegoziare i trattati, come vie percorribili rimangono:

la spaccatura dell’euro, che presenta però due problemi: complessità di attuazione e - forse più ancora – difficoltà di formare il necessario consenso all’interno del paese

o

l’introduzione di un titolo fiscale che consenta le necessarie politiche anticicliche, di rilancio e di stabilizzazione, senza incrementare il debito pubblico (inteso come il debito che, essendo da ripagare in euro, genera rischi d’insolvenza e quindi di instabilità finanziaria).


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