sabato 28 novembre 2020

Appunti su diseguaglianza e globalizzazione

 

La buona notizia è che la diseguaglianza nel mondo è in diminuzione. Un risultato conseguito soprattutto grazie allo sviluppo impetuoso dei grandi paesi asiatici che fino a un paio di decenni fa erano terzo mondo. La Cina soprattutto, in misura minore l’India.

La cattiva notizia è che la diseguaglianza è in aumento nei paesi economicamente più avanzati, in particolare Nordamerica ed Europa Occidentale.

Le ragioni della cattiva notizia hanno parecchio a che vedere con le modalità con cui il processo di globalizzazione è stato condotto.

L’innesco della crescita asiatica è stato la loro possibilità di competere sui mercati internazionali grazie al basso livello del costo del lavoro e delle tutele sociali.

Le grandi aziende, e i grandi interessi finanziari ad esse legati, hanno sfruttato questo processo mettendo il lavoratore occidentale in diretta concorrenza con il lavoratore dell’Est.

Era possibile mettere in atto meccanismi compensativi per attenuare, anzi azzerare, l’impatto di questo fenomeno sulle classi subordinate dell’Occidente ? certo, era possibile e neanche difficile.

Come ? spingendo su spesa sociale e investimenti, soprattutto in aree quali sanità, ambiente, istruzione, infrastrutture, protezione del territorio. Aree che per loro natura tendono a utilizzare manodopera locale (e spesso richiedono alti livelli di qualificazione).

E, inoltre, mantenendo alti livello di capacità di spesa e di domanda interna. Questo avrebbe tutelata la redditività delle imprese locali e generato incentivi, e capacità finanziaria, a investire e a fare ricerca.

Non si è voluto. Si è detto alle classi subordinate dell’Occidente che dovevano accettare una compressione del loro tenore di vita per “recuperare competitività”, in pratica incrociando la loro curva dei redditi e delle tutele sociali (in discesa) con quella dell’Oriente (in salita).

Non ce n’era alcuna necessità, non era inevitabile, ma così si è deciso di fare.

Le bugie sulla “imprescindibile necessità di ridurre i deficit e i debiti pubblici”, limitando di conseguenza il perimetro di intervento dello Stato, hanno potentemente agevolato questa tendenza. In Europa, anche e soprattutto facendo leva sulle regole di funzionamento dell’Eurosistema.

La reazione “identitaria” e “nazionalista”, l’opposizione alla globalizzazione e alla mondializzazione, sono una diretta conseguenza di tutto questo.

Le risposte dell’establishment non possono continuare a essere repressive se si vuole risolvere il problema. Vanno riconosciute le ragioni degli oppositori della globalizzazione, per definire un nuovo patto sociale e invertire le cause degli effetti distorsivi e socialmente deleteri.

giovedì 26 novembre 2020

Su Micromega - il debito pubblico da cancellare

Uno degli ultimi post pubblicati su questo blog è apparso di recente su Micromega. Le critiche di un lettore, Luigi Massa, e le mie risposte sono utili (credo) per chiarire ulteriormente il tema.

lunedì 23 novembre 2020

Gli sfondoni tecnici degli economisti euristi


Gli economisti di affiliazione pro-euro riescono sempre a stupirmi per la sicumera con cui formulano argomentazioni prive di senso. E questo vale anche (anzi forse soprattutto) per quelli di “chiara fama”. 

Vediamo qui, ad esempio, Marcello Messori della LUISS (intervista a “Repubblica”, 19.11.2020):

D. A proposito di debito, monta la questione della cancellazione dei debiti pubblici. Lei che ne pensa ?

R. Vi è un eccesso di titoli pubblici nei bilanci delle banche centrali, a cominciare dalla BCE. Tra uno strumento e l’altro, dallo scorso febbraio la BCE ha assorbito più del 70% delle emissioni di titoli pubblici ed è arrivata a possedere quasi il 30% dello stock di debito dei paesi più fragili.

Superata la pandemia, questa situazione andrà affrontata e superata: una banca centrale, che ha il suo bilancio così tanto appesantito dai titoli di Stato, non può mantenere l’indipendenza. Infatti, in futuro, una BCE indipendente dovrebbe vendere titoli di Stato per fronteggiare un surriscaldamento ciclico dell’economia: ma se facesse una mossa del genere a fronte di una detenzione abnorme di titoli accumulati, rischierebbe di scatenare un panico finanziario.

Dunque, una soluzione si dovrà trovare; ma non si tratta di una scelta risolvibile con una cancellazione.

Messori non entra nel merito del perché la soluzione non potrebbe essere la cancellazione, ma non è su questo che mi voglio soffermare.

Il punto insensato della risposta di Messori è l’affermazione che sia necessario vendere una “quantità abnorme di titoli accumulati” per fronteggiare un “surriscaldamento ciclico” dell’economia (scenario lontanissimo dalla condizione attuale, ma speriamo prima o poi che il problema sia questo, rispetto alla condizione odierna di congelamento a zero gradi Kelvin…).

Una banca centrale, in presenza di un “surriscaldamento ciclico”, agisce tipicamente aumentando i tassi d’interesse. E vendere titoli di Stato (abbassandone il prezzo e di conseguenza aumentandone il rendimento) è effettivamente una modalità per ottenere questo risultato.

Ma non è affatto l’unica. Anche perché la banche centrali storicamente NON si sono trovate, in genere, nella situazione di detenere titoli di Stato. Gli acquisti di titoli sono partiti con l’avvio dei programmi di Quantitative Easing: in Giappone dagli anni Novanta, nel resto del mondo dopo la crisi finanziaria globale del 2008 (la BCE è arrivata buona ultima nel 2015).

La variazione dei tassi d’interesse viene ottenuta dalle Banche Centrali anche per un’altra via, che non richiede la compravendita di titoli. Parlo ovviamente della variazione del tasso offerto alle banche commerciali per depositare presso, o per prendere a prestito dalla, Banca Centrale.

Oggi diminuirlo (rispetto a livelli che già sono andati a zero, o addirittura diventati negativi) non risolve nulla. Ma Messori si preoccupa dello scenario di “surriscaldamento”, in cui l’economia non va stimolata ma al contrario frenata. E questo richiede di aumentare i tassi offerti dalla Banca Centrale alle banche commerciali: il che è sempre possibile.

Ma inoltre – altra cosa di cui Messori sembra non rendersi conto – se anche si preferisce per qualche motivo agire mediante la vendita sul mercato di titoli di Stato, e la BCE ne possiede una “quantità abnorme”, questo non implica che debbano essere venduti tutti, o venduti in blocco, scatenando un “panico finanziario”.

Ne possono / devono essere venduti quanto basta (NON una “quantità abnorme”) per ottenere la desiderata variazione dei tassi d’interesse.

In sintesi: se sei un economista eurista, meno capisci, meno sei tecnicamente competente (o comunque meno dai segno di esserlo) e più consolidi la tua immagine di luminare, a quanto pare…

 


sabato 21 novembre 2020

Gualtieri, o del come ridurre il debito

 

Hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del Presidente dell’Europarlamento David Sassoli in merito all’opportunità di cancellare il debito pubblico acquistato dalla BCE.

Tra i vari commenti, il Ministro Roberto Gualtieri ha dichiarato che “il miglior modo per cancellare il debito è con la crescita economica… questo dibattito lascia il tempo che trova”.

Bene, l’affermazione di Gualtieri è uno dei tanti luoghi comuni che possono suonare saggi & avveduti a un uditorio (molto) disinformato.

La verità è invece che il miglior modo per cancellare il debito pubblico ricomprato dalla propria banca centrale è proprio… CANCELLARLO.

Certo, se esistesse un impegno illimitato e incondizionato a rifinanziarlo (da parte della BCE) la cancellazione non sarebbe necessaria, e neanche particolarmente utile.

Ma nell’Eurozona questo impegno non esiste.

Finché il debito c’è, lo spettro di sentirsi dire che l’impegno di rifinanziamento viene meno, o esiste solo condizionatamente a interventi di politica economica iniqui, antisociali e distruttivi per l’economia, ESISTE. E non è immaginario. E’, in effetti, tutt’altro che uno spettro. La crisi dei debiti sovrani del 2011-2012, le vicende greche, l’azzeramento della crescita economica che l’Italia ha subito dall’ingresso nell’euro in poi lo dimostrano.

E dato che questo spettro è MOLTO reale, rimangono sul tappeto, come e più di sempre, molti temi e molte possibilità.

La cancellazione del debito, certo, ma anche

la monetizzazione del deficit

l’impegno esplicito e incondizionato a mantenere i titoli di Stato all’attivo della BCE, per un periodo indeterminato / perpetuo

la TOTALE revisione delle regole di funzionamento dell’Eurosistema (incluso magari mediante il progetto CCF)

lo scioglimento dell’euro.

Se ne continuerà a parlare: rimangono sul tappeto, rimangono sotto i riflettori. Da dove non li toglieranno i luoghi comuni recitati da Gualtieri.

Non li toglieranno perché uno di questi interventi, o una combinazione di alcuni, è indispensabile per risolvere le spaventose disfunzioni dell’Eurosistema e le insensate sofferenze che l'euro ha inflitto a tanta parte della popolazione italiana ed europea.

 


mercoledì 18 novembre 2020

Il debito pubblico da cancellare

 

Hanno fatto scalpore, pochi giorni fa, le dichiarazioni del presidente del Parlamento Europeo. David Sassoli ha ipotizzato di cancellare il debito pubblico acquistato dalla BCE ed emesso dai vari paesi dell’Eurozona per fronteggiare la crisi Covid.

Un’operazione come questa sarebbe perfettamente possibile dal punto di vista tecnico-economico. Le cose sono più complesse sul piano politico e legale, ma questi ultimi sono temi che si risolvono – basta che ne esista la volontà.

Concentriamoci invece sui temi di sostanza economica. A volte si legge che l’operazione di cancellazione è, appunto, tecnicamente possibile, ma comporta costi e benefici, da valutare e soppesare.

Bene. Quale sarebbe il “costo” di cancellare titoli del debito pubblico detenuti dall’istituto di emissione ? chi lo pagherebbe ? su chi graverebbe ?

Sento dire che pagheremmo questo “costo” sotto forma di maggiore inflazione futura. Ma è un’affermazione che lascia (a dir poco) perplessi, per varie ragioni.

UNO, in quale senso l’inflazione è un “costo” ? in quale senso impoverisce un paese ? oltre certi livelli, e nella misura in cui avviene in modo improvviso e inatteso, è sicuramente un fattore di instabilità e ha effetti redistributivi. Ma ha un costo economico oggettivamente identificabile e quantificabile ? decisamente no.

DUE, anche ammettendo che il “costo” prodotto dall’inflazione esista, la cancellazione di debito pubblico detenuto dall’istituto di emissione non immette moneta nell’economia. La moneta è stata creata dalla BCE nel momento in cui ha attivato programmi di acquisto di titoli di Stato. Era in circolazione prima della cancellazione del debito; ci rimane in misura invariata dopo. Il write-off contabile del debito non cambia in nessun modo la quantità di potere d’acquisto in circolazione nell’economia.

TRE, se anche la cancellazione del debito pubblico aumentasse (per ragioni che non si vedono, perché non esistono) la quantità di potere d’acquisto in circolazione, non si produrrebbero effetti indesiderati sull’inflazione fino al momento in cui il maggior potere d’acquisto non spingesse la domanda di beni e servizi oltre la capacità produttiva del sistema economico. Ma oggi

QUATTRO, proprio a causa della cronica carenza di domanda, l’inflazione, nell’Eurozona e in particolare in Italia (non solo oggi: in effetti, da molti anni) è al di sotto degli obiettivi perseguiti dalla BCE. E in effetti la BCE si preoccupa costantemente per il livello troppo basso d’inflazione.

La preoccupazione per gli impatti inflattivi della cancellazione è quindi del tutto fuori luogo. Non esistono impatti inflattivi – e se mai esistessero sarebbe peraltro solo un bene.

Altro “problema” di cui si legge, connesso alla cancellazione del debito, sarebbe la contrazione del patrimonio netto contabile dell’istituto di emissione: se la BCE azzerasse una parte significativa del suo attivo (i titoli di Stato acquistati) il suo patrimonio si ridurrebbe e potrebbe diventare addirittura negativo. E quindi ?

E quindi niente. Anche questo è un problema inventato. Un istituto di emissione può benissimo operare con patrimonio contabile negativo, perché la voce principale del suo (cosiddetto) passivo è la moneta in circolazione. Che è un “passivo” assolutamente sui generis: non deve essere rimborsato a nessuno e quindi non può dar luogo a fenomeni di insolvenza o di dissesto o comunque di instabilità finanziaria.

In realtà considerare la moneta emessa una passività della Banca Centrale è una (discutibile) convenzione contabile. Sarebbe più sensato affermare che quando una Banca Centrale emette moneta fiat, il suo patrimonio netto si accresce.

Altrimenti detto: se la BCE il 1° gennaio 2021 emette 1.000 miliardi di euro e li tiene in cassa, chiaramente le sue disponibilità aumentano. A tutti gli effetti pratici e secondo qualsiasi logica, si tratta di un incremento patrimoniale.

Se emette 1.000 miliardi, compra un pari importo di titoli di Stato e li annulla, il risultato è che si trova esattamente nella situazione di partenza. Emette 1.000 di moneta e se ne spossessa; in cambio di cosa ? dell’acquisto di 1.000 miliardi di titoli, che però vengono annullati.

Per un istante avevo (io BCE) 1.000 miliardi di moneta, ma poi non li ho più. E per un istante ho avuto 1.000 di titoli, ma immediatamente li annullo. La sostanza è che non si è creato nessun effetto patrimoniale. Non si è “dissestato” niente.

Che senso ha preoccuparsi di una convenzione contabile priva di contenuto ? lo stesso che favoleggiare di un rischio d’inflazione inesistente. Esattamente nessuno.

domenica 15 novembre 2020

La benzina è solo un liquido ?

 

“Come fai a pensare che l’economia funzioni meglio immettendo più moneta ? la moneta non può creare ricchezza ! la moneta non produce ! la moneta non si mangia”.

“Come fai a pensare che senza benzina non si possa muovere un veicolo ? la benzina è solo un liquido ! non tira e non spinge ! non è un tiro a quattro di cavalli !!!”.

“Come fai a pensare che per vivere sia necessario respirare ? l’aria è solo un gas ! l’aria non si mangia !!”.

“Come fai a pensare che senza lubrificante un motore possa grippare ? l’olio non è un carburante. Non è l’olio che fa funzionare un’auto.”.

“Come fai a pensare che senza acqua non si possa sopravvivere ? l’acqua è solo un liquido ! non ha colore, non ha sapore, non nutre !!!”.

Se vi sfugge il nesso tra queste affermazioni, siete probabilmente un euroausterico. Mandate il vostro CV alla Commissione UE, potrebbero aprirsi interessanti prospettive di carriera.

 

giovedì 12 novembre 2020

L’ultima difesa degli euroausterici

 

Uno Stato può, utilizzando la propria moneta, immettere potere d’acquisto nell’economia spendendo più di quanto preleva in tasse (il cosiddetto “deficit pubblico”, che in realtà è surplus del settore privato).

C’è naturalmente un vincolo da rispettare: non spingere l’immissione di potere d’acquisto nell’economia a livelli tali da portare la domanda al di là della capacità produttiva del sistema economico. L’eccesso di potere d’acquisto, infatti, innesca livelli eccessivi d’inflazione.

Gli ultimi mohicani che sostengono ancora l’utilità dell’attuale eurosistema – quelli che io chiamo euroausterici – e in generale i critici della MMT, nel cercare di contestare queste affermazioni si appigliano ancora a un’estrema linea di difesa. Ovvero: quanto detto sopra vale “se si emette una valuta di riserva internazionale”. Quindi lo possono fare gli USA, il Giappone, il Regno Unito (ma la sterlina è ancora una valuta di riserva ?), la Svizzera, ma non lo potrebbe fare l’Italia con la lira.

Sul perché questo debba essere vero, non ho letto nessuna spiegazione sensata. Magari c’è e quindi ringrazio in anticipo se qualcuno me la segnala.

Ma al momento, a me pare che lo status di valuta di riserva (concetto non del tutto ben definito, per la verità) c’entri poco o niente. Casomai si può affermare che se il tuo paese è di grande dimensione e rappresenta quindi un importante mercato di sbocco per i tuoi partner commerciali, puoi essere in grado di imporre il pagamento nella tua moneta per i beni e servizi che importi.

Questo evita il problema di generare debito (privato) in moneta estera per finanziare deficit commerciali, e li rende quindi maggiormente sostenibili nel tempo (non necessariamente, però, opportuni: alla lunga c’è il rischio di erodere la propria struttura produttiva).

Anche per un paese che paga le importazioni in moneta estera, comunque, mi pare proprio che le affermazioni di cui sopra siano perfettamente applicabili – con un’aggiunta.

Uno Stato può, utilizzando la propria moneta, immettere potere d’acquisto nell’economia spendendo più di quanto preleva in tasse (il cosiddetto “deficit pubblico”, che in realtà è surplus del settore privato).

I vincoli sono: non spingere l’immissione di potere d’acquisto a livelli tali da portare la domanda al di là della capacità produttiva del sistema economico, innescando eccessivi livelli d’inflazione; e non generare eccessi di domanda che causino alti e persistenti deficit commerciali da finanziare con indebitamento in moneta estera.

L’Italia oggi – con inflazione a zero e 60 miliardi all’anno di surplus commerciale – ha spazi ENORMI per immettere potere d’acquisto nel sistema economico.

Più esattamente: LI AVREBBE. Se emettesse la SUA moneta. O un appropriato succedaneo, quale i Certificati di Compensazione Fiscale.

 

domenica 8 novembre 2020

“Sacrifici da suddividere” ? basta con le menzogne

 

Leggo sempre con grande interesse gli interventi di Mauro Ammirati su temi economici e sociali. Ci tengo a citare parola per parola, e a commentare, questo suo post, che spiega con chiarezza cristallina quale mistificazione si celi dietro alla retorica dei “sacrifici da suddividere tra la popolazione” per affrontare le conseguenze della crisi economica. Crisi aggravata (perché ovviamente c’era già prima, da molti anni) dal Covid.

E’ un argomento che ho già affrontato diverse volte, questa spero che sia l’ultima, ma, detto tra noi, non sono così fiducioso. Continuo a leggere che i costi dell’attuale crisi devono essere equamente ripartiti, che ognuno sostenga la sua parte di sacrifici, che ci vuole la “solidarietà nazionale”, perciò ognuno rinunci a qualcosa affinché si possa venire incontro alle necessità di tutti. Scoraggiante, davvero. Ciò che avvenne negli anni Settanta non l’ho letto sui libri di storia o di macroeconomia: io c’ero, quei tempi li ho vissuti e ne ricordo i fatti e gli aspetti più importanti. Fu il periodo dell’austerità, delle domeniche a piedi, delle targhe automobilistiche pari e dispari, del riscaldamento razionato e dell’inflazione a due cifre. Mai nessuno, però, che spieghi come si arrivò a quella situazione. Cos’era accaduto ? Che i paesi arabi, diversi dei quali erano (e sono tuttora) produttori di petrolio, avevano perso la guerra del Kippur contro Israele, nel 1973. E pensarono di vendicare quella sconfitta, la quarta in 25 anni, tagliando l’estrazione e la produzione del greggio, provocando l’aumento del prezzo del barile d’oro nero del 400% (non è un errore di battitura, avete letto bene: il 400%). Inevitabilmente, in tutti i paesi industrializzati ci fu un’impennata inflazionistica, c’era il terrore che la produzione e l’offerta di beni reali crollasse e che restassimo senza neppure i beni di prima necessità, così molte famiglie fecero provviste come nei tempi di guerra. Quella crisi c’era davvero, perché il petrolio mancava davvero. Metteteci pure che eravamo nella preistoria dello sfruttamento delle fonti rinnovabili, la capacità produttiva e la tecnologia avevano fatto passi da gigante nei decenni precedenti, ma non c’è paragone con i giorni nostri. Poche famiglie avevano un televisore a colori, molte non avevano manco il telefono fisso, altro che posta certificata e social network. Si fece una politica di austerità perché non si poteva fare altro, dato che nessuna politica espansiva può darti una risorsa naturale, una materia prima che non hai. Allora aveva un senso ripartire equamente e fare i sacrifici. E sebbene non avessimo la capacità produttiva di cui disponiamo oggi, nessuno morì di fame, i beni di prima necessità non mancarono a nessuno, perché l’”economia della scarsità” l’avevamo già superata da un cinquantennio. Lo ripeto: quella crisi c’era davvero, esisteva e mordeva. Questa crisi, invece, in realtà, esiste solo nei computer del ministero dell’Economia e nei modelli degli economisti. Non c’è il minimo rischio che crolli la produzione di beni essenziali, si è solo accentuata una tendenza preesistente alla pandemia, ossia la carenza di domanda. E’ una situazione che si affronta e si supera sostenendo i consumi, il potere d’acquisto delle famiglie, particolarmente, quelle dei lavoratori autonomi la cui attività è danneggiata dalle norme anti Covid. Non troverete mai degli scaffali vuoti nei negozi del XXI secolo, non può succedere. Scusate, ma quali costi dovremmo ripartire ? quali sacrifici dovremmo fare ? Ma quelli che chiedono sacrifici anche per gli statali che rapporto hanno con le sostanze inebrianti e quelle stupefacenti ? Ma possibile che uno vada in televisione, dica una corbelleria e voi gli crediate ? Abbiamo tutti un cervello. Per favore, usiamolo.

Aggiungo da parte mia solo qualche ulteriore chiarimento.

Negli anni Settanta la crisi petrolifera non aveva, in realtà, ridotto la capacità produttiva del sistema economico. Persone e impianti erano sempre quelli. Era invece aumentato drammaticamente il costo di un importante input produttivo, il petrolio.

La conseguenza ? a parità di valore aggiunto prodotto, una parte maggiore andava ai fornitori esteri della materia prima, e una parte minore rimaneva disponibile per i redditi interni al paese – retribuzioni e utili.

Il problema quindi non era di produrre di meno, ma di beneficiare di una parte ridotta dei redditi che si generavano – perché la bolletta petrolifera era salita. In questo senso, per questo motivo, c’era un sacrifico da ripartire.

Durante la crisi petrolifera, nonostante molte oscillazioni a volte anche violente, la produzione e l’occupazione continuarono a crescere. Appunto perché non c’era ragione di produrre di meno: c’era la necessità di consumare di meno a parità di produzione, per pagare il maggior costo delle materie prime. Serviva un meccanismo di razionamento dei consumi, e l’inflazione fu appunto questo meccanismo.

L’inflazione in realtà poteva anche essere evitata, se il governo e la Banca d’Italia non avessero acconsentito a far aumentare la quantità nominale di potere d’acquisto in circolazione. Ci sarebbero state, in quel caso, minori retribuzioni e minori utili delle aziende, ma senza lievitazione dei prezzi dei beni di consumo.

Invece le autorità (non solo in Italia, in effetti in tutti i paesi industrializzati) decisero di immettere maggiore quantità di moneta nell’economia, evitando politiche di tagli e di tasse. Questo salvò il livello nominale di retribuzioni e utili, lasciando che gli effetti della crisi si scaricassero sull’inflazione.

Fu una scelta saggia. Se si fosse percorsa la via della deflazione, alla crisi dovuta alla scarsità di una risorsa reale si sarebbe aggiunto il dissesto del sistema finanziario. Gli effetti sarebbero stati molto più pesanti.

La situazione odierna è completamente diversa. Dalla crisi Lehman del 2008 in poi, soffriamo di una carenza di potere d’acquisto disponibile per far sì che la domanda di beni e servizi reali sia di livello pari alla capacità produttiva del sistema economico. Questo si è aggravato per le scellerate decisioni del 2011: imporre restrizioni fiscali per cercare (inutilmente) di ridurre il livello del debito pubblico in circolazione. Cosa che nessuno sarebbe mai stato in grado d’imporre, se il debito fosse rimasto in moneta nazionale, pienamente garantito dalla potestà di emissione delle istituzioni pubbliche italiane.

Il Covid ha aggiunto un’ulteriore dimensione ai problemi economici del paese. I lockdowns hanno (almeno temporaneamente) ridotto la possibilità di produrre beni e servizi, ma hanno anche ridotto i consumi (chiusi in casa, si spende di meno, specialmente per i prodotti non strettamente essenziali).

Non c’è quindi inflazione. E non ci sono ASSOLUTAMENTE “sacrifici” da imporre o da ripartire. C’è da immettere moneta per sostenere le categorie che subiscono impatti economici dal Covid, per non crear loro ulteriori difficoltà oggi, nonchè per permettergli di evitare insolvenze e chiusure, e di tornare alla piena operatività, quando prima o poi l’emergenza sarà passata.

Se questo non avviene, è solo perché i paesi dell’Eurozona, e in particolare l’Italia, non emettono e non controllano la moneta che utilizzano. Il che crea pesanti limitazioni, condizionamenti, e imposizioni dall’esterno, per tutti i paesi che se il sistema si rompesse (e un sistema disfunzionale è costantemente a rischio di rottura) si troverebbero a scegliere tra il default e la conversione in una moneta nazionale più debole. Non per i paesi dell’area ex marco, che in caso di rottura dell’euro tornerebbero, al contrario, a usare una moneta più forte.

I primi, infatti, in assenza di una garanzia piena e incondizionata della BCE, rischiano di non riuscire a rifinanziare il debito. I secondi no. Nessuno ha problemi a sottoscrivere un bund tedesco, perché se il sistema si rompe il “rischio” è di trovarsi in tasca marchi. Una moneta più forte, non più debole.

La sintesi ? Non c’è nessuna carenza di capacità produttiva. Non c’è la necessità di imporre nessun sacrificio a nessuno. Non ha senso parlare di tagli, tasse, patrimoniali, di che cosa far pagare a chi.

C’è da METTERE soldi in tasca a famiglie e aziende.

Se questo non avviene, o avviene in misura insufficiente, il motivo è sempre quello: la scellerata decisione, presa venti e più anni fa dall’Italia, di aderire (senza alcuna necessità o utilità economica) a un'insensata unione monetaria con paesi la cui moneta era più forte della nostra.

giovedì 5 novembre 2020

Le mezze ammissioni degli euristi semipentiti

 

E’ diventato impossibile negare il catastrofico fallimento dell’euro e delle regole di austerità dell’Eurozona senza, nello stesso tempo, rendere esplicita la propria totale incompetenza, o la propria totale malafede.

Anche gli euristi più incalliti sono quindi costretti a frequenti retromarce. Tuttavia, le loro ammissioni lasciano trasparire una comprensione del contesto che rimane comunque altamente deficitaria (per usare un eufemismo).

Vediamo qui Leonardo Becchetti affermare che il debito creato e detenuto dalla BCE a causa del Covid può essere cancellato in quanto “il momento è diverso dal 2008”. Perché diverso ? perché “l’inflazione non c’è”.

Il buon Becchetti dice una cosa vera, ma la motiva in modo decisamente erroneo.

Per cominciare: nel 2008, a seguito della crisi finanziaria mondiale, l’inflazione crollò repentinamente. Non c’era quindi nessuna ragione per non intervenire immettendo potere d’acquisto nel sistema economico. Cosa che in effetti avvenne.

Ma non c’era neanche nessun motivo economico per non effettuare l’intervento mediante immissione diretta di moneta, invece che passando per l’emissione di debito pubblico. O, se proprio si voleva effettuare questo passaggio (superfluo), non c’era motivo per non cancellare il debito pubblico acquistato dalle banche centrali a seguito dei vari programmi di Quantitative Easing.

Una volta in circolazione, la moneta ci rimane. Se il sostegno alla domanda è  impostato correttamente, non si crea inflazione indesiderata.

Se il sostegno alla domanda è eccessivo, invece, l’inflazione si crea. Ma questo prescinde totalmente dal fatto che i titoli di Stato acquistati dalla banca centrale vengano cancellati o meno. Cancellarli è una pura e semplice scrittura contabile. Il potere di acquisto in circolazione non cambia di una virgola a seguito della cancellazione. E l’impatto su domanda e prezzi, ovviamente, nemmeno.

In altri termini: la cancellazione del debito pubblico detenuto dalle banche centrali non ha nessun tipo di impatto sull’inflazione. Non l’avrebbe avuto nel 2008, non l’avrebbe avuto nel 2012, non l’avrebbe oggi.

Gli euristi, come di consueto, con enorme lentezza stanno arrivando a capire, molto frammentariamente e parzialmente, alcune cose. Ma molte altre ancora gliene sfuggono (o rifiutano di ammetterle).

Il che non sorprende. Proprio per niente. Non sarebbero euristi, altrimenti.

 

lunedì 2 novembre 2020

Regole dell’eurosistema: non inutili, deleterie

 

Wolfgang Munchau è un attento commentatore delle vicende di UE ed Eurozona che ha il pregio di dire spesso cose interessanti e il difetto di raccontare solo metà della storia.

Ne è un esempio questo tweet: “la conseguenza di un secondo lockdown sarà un massiccio incremento del debito pubblico. Per la sostenibilità dell’Eurozona è ora critico non applicare mai in modo serio le sue stupide regole fiscali”.

In effetti le regole non sono state mai, neanche in passato, applicate “in modo serio”. Le sanzioni per lo sforamento dei limiti di deficit pubblico (del cosiddetto deficit pubblico), per esempio, non hanno mai avuto attuazione. A partire dal primo rilevante sforamento, che come ormai pochi ricordano (e appunto per questo va ricordato) fu messo in atto dalla Germania nel 2003.

Ma Munchau racconta solo metà della storia perché anche non applicandole, ma minacciando di farlo in futuro, le regole fiscali dell’eurosistema esercitano un impatto catastrofico.

L’Italia ad esempio ha varato significativi scostamenti di bilancio nel 2020, ma gli importi sono stati una frazione (forse la metà) di quanto sarebbe realmente servito.

Il motivo ? il timore che le regole fiscali, “temporaneamente” sospese, possano essere ripristinate in un futuro prossimo. Per cui “non bisogna esagerare”, approccio che porta a fare, come al solito, il minimo per evitare la rottura del sistema, ma assolutamente non quanto necessario a risolverne le disfunzioni.

Non basta “non applicare le regole in modo serio”. Vanno proprio buttate a mare. O va buttato a mare l’eurosistema.

Perché le regole non sono inutili (magari), sono molto peggio. Sono catastroficamente dannose, per il semplice fatto di esistere.