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mercoledì 4 giugno 2025

Ebbene sì, le tasse servono

 

Non bisogna lasciarsi trascinare dalla vis dialettica nel dibattere con gli euroausterici. Non bisogna lasciarsi andare ad affermazioni scorrette.

A volte sento esprimere ad attivisti MMT il concetto che “uno Stato che emette moneta non ha bisogno delle tasse per spendere”. Il che è vero nel senso che se lo Stato è il monopolista dell’emissione monetaria, e la moneta emessa dallo Stato è quella che deve essere utilizzata per pagare le tasse, PRIMA lo Stato spende e POI lo Stato tassa.

Ma questo non deve indurre a credere che uno Stato, con le dimensioni che il settore pubblico tipicamente assume, possa evitare, su base continuativa, di imporre tasse (e la MMT, applicata e interpretata correttamente, su questo è in realtà molto chiara).

La ragione è che la spesa pubblica al netto delle tasse prelevate, cioè il deficit pubblico, immette moneta nell’economia. E la crescita della moneta in circolazione deve essere pari a qualche punto percentuale all’anno, perché il potenziale di crescita del PIL nominale è di qualche punto percentuale. Non di DECINE di punti percentuali: a meno di accettare decine di punti annui di inflazione, intesa come crescita media dei prezzi.

Se la spesa pubblica è pari al 20%, al 30%, al 50% del PIL, una parte preponderante di questi ammontari deve essere sistematicamente prelevata in forme varie di tassazione.

O limitiamo la dimensione del settore pubblico a una frazione dell’attuale…

…oppure… le tasse dovranno, già solo per questa ragione, continuare ad esistere.

domenica 3 novembre 2024

Quello che la MMT non dice

 

I critici della MMT (Modern Monetary Theory) hanno l’abitudine di attribuire a questa scuola di pensiero economico affermazioni che non le appartengono – proprio per nulla.

Una che si sente spesso è che secondo la MMT “solo la moneta produce ricchezza”.

Naturalmente la MMT non afferma niente del genere. La ricchezza nasce dal lavoro, dall’inventiva, dalla creatività, dallo sviluppo della tecnologia, dall’appropriato utilizzo delle risorse naturali.

Ma in un’economia di mercato, in cui si verificano interscambi di beni e di servizi, la moneta svolge un ruolo importantissimo per agevolare l’intermediazione.

E la moneta la creano due soggetti: lo Stato, che la immette nell’economia per il tramite della spesa pubblica, e il sistema bancario, che invece utilizza il canale del credito privato.

Il corretto funzionamento di questi due canali è essenziale per lo sviluppo economico e per la stabilità del sistema. E occorre sempre ricordare che il credito privato è prociclico: c’è molta offerta di credito, e molta volontà di utilizzarlo, quando l’economia va bene. Il contrario nelle situazioni di difficoltà.

Per questo non si può lasciare la creazione di moneta solo al sistema privato. La creazione e l’immissione mediante il deficit pubblico svolge un ruolo fondamentale, sia per assecondare la crescita dell’economia, sia per stabilizzarla con politiche anticicliche.

Questo si comprende studiando la MMT. E questo non capiscono i suoi critici.

 

venerdì 13 settembre 2024

MMT, che cosa dice e che cosa non dice


I critici della MMT hanno una spiccata attitudine a criticarla sulla base di una rappresentazione fuorviante delle affermazioni di questa scuola di pensiero economico. 

In particolare, un classico è accusare la MMT di volere sempre e comunque incrementare il deficit pubblico, in quanto all’incremento del deficit pubblico corrispond(erebbe) sempre e comunque incremento di ricchezza privata.

Bene: l’affermazione degli economisti MMT può sembrare superficialmente quella, ma è invece MOLTO differente.

La MMT NON dice che all’incremento del deficit pubblico corrisponde sempre e comunque incremento di ricchezza privata.

La MMT DICE che all’incremento del deficit pubblico corrisponde sempre e comunque incremento di risparmio finanziario nominale privato.

Questo deriva da un’identità contabile che dovrebbe (dovrebbe…) risultare ovvia a chiunque: il deficit è l’eccesso di spesa pubblica rispetto al prelievo fiscale. Se il settore pubblico spende più di quanto tassa, il settore privato incrementa le sue disponibilità finanziarie, perché riceve più di quanto paga.

Questo in termini nominali. In termini reali, il valore effettivo di questo maggior risparmio può depauperarsi se il deficit produce una crescita del livello dei prezzi. E questo è possibile se si immette nel settore privato capacità di spesa che non va ad alimentare maggiore produzione di beni e servizi. Motivo per cui la gestione della finanza pubblica deve tenere conto della capacità produttiva del sistema economico.

Poi ci sono i temi di distribuzione. Altre critiche delle politiche di deficit vertono sul fatto che il deficit potrebbe essere “utilizzato male”, in maniera inefficiente o iniqua, o alimentare spesa verso l’estero, quindi incrementare sì il risparmio privato, ma all’esterno del paese.

Questi sono temi importanti. Ma sono temi di allocazione delle risorse.

E i critici della MMT che vorrebbero il pareggio di bilancio perché sono preoccupati per la (eventualmente) scorretta allocazione delle risorse, si pongono in contraddizione con un’altra loro tipica affermazione.

I critici della MMT spesso attaccano le politiche economiche di stampo socialista affermando che si preoccupa (il socialismo) di redistribuire reddito e ricchezza, ignorando che prima va creato.

Ma allora non dovrebbero sostenere il pareggio di bilancio, perché il pareggio sistematico del bilancio pubblico, in presenza di un sottoutilizzo delle risorse produttive, limita la creazione di reddito e ricchezza. Preoccupandosi della distribuzione di reddito e ricchezza, ne tarpano quindi la generazione.

Proprio quello che a loro dire è il difetto più grave delle politiche economiche socialiste.

 

domenica 28 gennaio 2024

L’importanza del deficit

 

Sono molto stupito (ma forse non dovrei) dalla frequenza con cui certi commentatori mettono in bocca agli economisti MMT cose DIVERSE da quelle che la MMT afferma. Profondamente diverse.

In particolare, la MMT, a sentire questi signori, sosterrebbe che deficits don’t matter, che i deficit pubblici “non hanno importanza”, e che di conseguenza possono essere alti a piacere.

Certo che hanno importanza, i deficit !!!

Ma quello che la MMT afferma in merito ai deficit pubblici è tutt’altro:

PRIMO, è assolutamente normale che i conti pubblici di uno Stato siano in deficit, cioè che lo Stato spenda più del prelievo fiscale. E’ il principale canale tramite cui i mezzi di pagamento in circolazione aumentano: e devono aumentare, in un’economia in crescita. 

SECONDO, il deficit può essere troppo alto ma anche troppo basso. Può spingere la domanda al di sopra della capacità produttiva del sistema, e quindi essere inflazionistico. Ma può anche essere carente, creando quindi i presupposti per disoccupazione e sottoccupazione.

TERZO, non esiste quindi un livello “ideale” di deficit, cioè un livello numerico “corretto” (men meno è “corretto” il pareggio di bilancio). Dipende dalle circostanze.

QUARTO, non esiste neanche un livello numerico di deficit che sia a priori “troppo alto”: ovvero, non esiste un limite da non superare mai, non esiste un livello che sia intrinsecamente eccessivo, che sia necessariamente “insostenibile”.

Chi mette in bocca agli economisti MMT affermazioni (in merito al deficit pubblico) in contraddizione con queste, semplicemente commenta cose che non ha capito, o che più probabilmente non ha neanche mai letto né ascoltato.

 

venerdì 17 febbraio 2023

Inflazione e tassi d’interesse

 

Parecchi economisti, soprattutto di scuola MMT, esprimono perplessità sul fatto che incrementare i tassi d’interesse produca il calo dell’inflazione. Cosa, questa, che sorprende molti commentatori. Il fatto che l’inflazione salga o scenda in funzione della disponibilità di credito a tassi, rispettivamente, più bassi o più alti, in genere è considerato un’ovvietà. Di sicuro, è quanto hanno in mente le principali banche centrali, Fed e BCE prime tra tutte.

Certo, tassi d’interesse più alti significa credito più caro, quindi rallentamento degli investimenti (soprattutto immobiliari, ma non solo) e dei consumi (in Italia il consumatore compra a credito meno che altrove, ma comunque molto più che in passato).

C’è anche un effetto ricchezza: maggiori tassi d’interesse deprimono il valore di mercato delle obbligazioni a tasso fisso e delle azioni. Il risparmiatore / investitore si sente quindi meno ricco e questo dovrebbe spingerlo a limitare le spese (anche se non è chiaro in che misura).

Tuttavia ci sono almeno due fenomeni rilevanti che puntano nella direzione opposta.

Il primo: la maggior parte dell’aziende hanno debiti finanziari e gli interessi che pagano su questi debiti sono un costo di gestione. Se il maggior costo del lavoro e delle materie prime le spinge a chiedere maggiori prezzi per i loro prodotti (quantomeno a provarci) non vale lo stesso per il costo del denaro ?

Il secondo: chi ha soldi da investire in titoli a reddito fisso ottiene una maggiore remunerazione. Più interessi attivi, in altri termini. Questo è a tutti gli effetti maggior reddito, e a parità di altre condizioni spinge consumi e prezzi al rialzo, non al ribasso.

Si può argomentare che il saldo netto di tutti questi effetti vada, in ogni caso, nella direzione di maggiori tassi => minore inflazione. Però non sono a conoscenza di nessuno studio che abbia cercato di quantificarli voce per voce, e di arrivare a una conclusione solida e ben fondata che ne dia evidenza. Magari esiste, e ringrazio chi nel caso me lo segnalerà.

Tuttavia tanto per cambiare il mantra delle banche centrali, alzare i tassi per ridurre l’inflazione, mi sembra alquanto dogmatico, e di efficacia quantomeno dubbia.

sabato 11 febbraio 2023

Dice Mike Norman…

 

…ben noto attivista MMT:

“There is no national “debt”. Period. Debt to whom ? What is owed ? This is the most ridicolous, idiotic argument that ever esisted. It is a reflection of complete and utter ignorance and the total indoctrination (gaslightning) of a citizenry about a non-issue.”

“Non esiste un “debito” nazionale. Punto. Debito verso chi ? Cosa è dovuto ? Questa è la discussione più ridicola e idiota che sia mai esistita. È un riflesso della completa e totale ignoranza e del totale indottrinamento di una cittadinanza su un non problema”.

Un problema in effetti, quello del debito pubblico, completamente inventato. Che diventa reale solo se qualcuno commette il tragico errore di convertirlo in moneta straniera, per esempio aderendo all'euro

domenica 6 novembre 2022

Inflazione e politiche per contrastarla

 

Nel dibattito tra sostenitori e oppositori della MMT, un tema rilevante è l’efficacia della politica fiscale per ridurre l’inflazione quando diventa troppo elevata.

Contrariamente alla versione caricaturale che qualcuno si ostina a far circolare, la MMT non ha mai affermato che i deficit fiscali possano crescere all’infinito. Sostiene invece che il limite c’è, ma non è un determinato livello numerico. È la disponibilità di risorse produttive (impianti e manodopera) inoperose, o comunque sottoutilizzate.

Se, tramite il deficit pubblico, mettiamo in circolazione capacità di spesa eccessiva rispetto alla capacità produttiva del sistema economico, non generiamo più produzione e più occupazione, ma solo eccessiva inflazione.

Ne segue che la maniera efficace per ridurre la domanda nel sistema economico, secondo la MMT, è ridurre i deficit quando c’è inflazione: ma in funzione appunto di quella, NON del fatto che il deficit sia del 3%, del 6%, del 10% o di qualsiasi soglia numerica prestabilita.

En passant, quanto sopra mostra come siano immotivate per non dire pretestuose le affermazioni di chi sostiene che "per la MMT lo spazio fiscale è infinito" o che "la MMT spinge sempre ad aumentare i deficit".

Tornando all'utilizzo della politica fiscale per ridurre l'inflazione, un’obiezione tipica degli MMT-critici è che questo può essere vero in teoria. In pratica però pacchetti di restrizione fiscale (tagli di spesa e aumenti di tasse) motivati da eccesso d’inflazione sono politicamente indigesti e quindi non vengono attuati.

Noi che in Italia abbiamo vissuto l’esperienza del 2011-3 la sappiamo purtroppo più lunga. Imporre austerità è risultato fin troppo facile. E il momento tra l’altro era COMPLETAMENTE sbagliato, perché non c’era, allora, nessun problema d’inflazione. C’era invece un problema di rifinanziamento del debito: derivante però SOLO dalla costruzione sbagliata dell’eurozona, che impedisce alla BCE di garantire incondizionatamente i debiti pubblici. E infatti solo il whatever it takes di Draghi, non certo l’austerità, ha tamponato questo problema.

Al di là dell’austerità eurozonica, però, sulla posizione degli MMT-critici si impone una riflessione. I tassi d’interesse redistribuiscono potere d’acquisto tra debitore e creditore. Se salgono, paga di più l’azienda indebitata, il debitore per il credito al consumo, chi deve rimborsare un mutuo, lo Stato per gli interessi sul debito pubblico. Ma percepisce di più il titolare del credito: la banca, il possessore di titoli di Stato, la società finanziaria.

Se il potere d’acquisto totale in circolazione non muta, non è quindi scontato che si crei un effetto di riduzione della domanda, e quindi indirettamente dei prezzi.

In realtà chi sostiene la restrizione monetaria fa affidamento anche su altri effetti, tipo la perdita di valore delle attività finanziarie (es. azioni), che però è di dubbio impatto, e la tendenza del sistema bancario a contrarre il credito quando i tassi salgono.

Vale la pena comunque di sottolineare che l’impatto restrittivo della politica monetaria non è così certo come viene presentato. E che, d’altra parte, la politica fiscale può esercitare un impatto anticiclico tramite stabilizzatori automatici che agiscono senza bisogno di approvazioni parlamentari e governative: la cassa integrazione, i sussidi di disoccupazione, l’imposta progressiva sul reddito e (se venissero adottati come propone la MMT) i programmi di lavoro garantito.

Tutto quanto sopra si applica a un contesto di inflazione da eccesso di domanda, a parità di offerta – cioè a pari capacità di produrre reddito da parte del sistema economico.

Ovviamente oggi stiamo vivendo un problema di inflazione che ha cause differenti. I problemi di approvvigionamento connessi alla ripresa post Covid e alle difficoltà di ripristinare le catene di fornitura prima; l’esplosione dei prezzi dell’energia causati dalla crisi ucraina poi.

E ho spiegato già da tempo che in questo caso la restrizione monetaria rischia di fare gravissimi danni senza risolvere nulla. La via è invece una politica fiscale espansiva non rivolta al sostegno della domanda ma all’abbattimento di imposte indirette e oneri accessori sui beni di prima necessità, unitamente a ragionevoli interventi di razionamento, in particolare sui consumi di gas.

 

giovedì 27 ottobre 2022

Tassi d’interesse e svalutazioni

 

Si continua a parlare dell'episodio britannico e della situazione giapponese, che suscitano opinioni contrapposte in merito alle implicazioni sulla validità, o meno, della Modern Monetary Theory.

Detto altrimenti, quanto avvenuto smentisce la MMT (come sostengono gli euroausterici) o la conferma (come ribadiscono i sostenitori della MMT) ?

Torno in particolare sul Giappone, che pratica lo Yield Curve Control, cioè la sistematica compressione a livelli molto bassi dei tassi d’interesse. Gli euroausterici affermano che certo, un paese che emette e controlla la sua moneta può sempre fissare come vuole i tassi sui titoli di Stato (basta farli comprare all’istituto di emissione a un prezzo prefissato). Ma questo ha un impatto negativo sul cambio, nel senso che tende a svalutarlo, specialmente quando, invece, gli altri paesi stanno aumentando i tassi (che è la situazione odierna).

Questa possibilità, in effetti, non è mai stata negata dalla MMT. Ma l’implicazione che ne traggono gli euroausterici è che la svalutazione sia negativa, per non dire disastrosa.

La posizione degli autori MMT è invece che la svalutazione del cambio non è in sé nulla di preoccupante. Il limite che si ha di fronte nell’attuare politiche espansive non è la svalutazione ma l’inflazione. Finché non si innesca inflazione a livelli elevati, persistenti, tendenti a uscire di controllo, le politiche espansive sono legittime ed adeguate.

Ora, se è vero che il cambio giapponese subisce un impatto negativo dallo YCC (molto meno drammatico, per la verità, di quanto si direbbe ascoltando i commenti degli euroausterici) è ancora più vero che l’inflazione giapponese, al 3%, è nettamente più bassa dell’8%, 10% che oggi si rileva negli USA e nell’Eurozona. Il rischio d’inflazione incontrollata ha tutta l’aria di stare altrove, non in Giappone.

E del resto chi segue questo blog sa da tempo che il nesso causale da svalutazione a inflazione è molto ma molto labile.

Per cui, di che cosa si dovrebbero preoccupare i giapponesi ?

Tra l’altro stanno guadagnando competitività rispetto al resto del mondo, grazie appunto alla combinazione di inflazione più bassa e cambio più debole. Il che mostra che nella situazione corrente il rischio che la svalutazione giapponese divenga “enorme” o “catastrofica” è privo di fondamento: in nessun paese che guadagna competitività reale può accadere nulla del genere. La situazione giapponese darà ragione agli euroausterici se e solo se la loro inflazione supererà, e di parecchio, quella occidentale. Esattamente il contrario di quanto sta avvenendo.

Ulteriore considerazione: tutte queste “preoccupazioni” sullo YCC nascono dal presupposto che il deficit pubblico debba essere finanziato emettendo titoli, e che il rendimento offerto sui titoli di Stato sia un “attrattore” verso cui i rendimenti di mercato devono necessariamente convergere.

In realtà non c’è nessuna ragione per cui questa emissione di titoli debba necessariamente verificarsi. Uno Stato che emette e gestisce la sua moneta può attuare il deficit pubblico, semplicemente, spendendo moneta di nuova emissione e ritirandone una parte (inferiore alla spesa) con le tasse.

Poi, se quello Stato vuole attuare una determinata politica sui tassi d’interesse e, indirettamente, sul cambio, può dare la possibilità alle istituzioni finanziarie, e volendo anche ai risparmiatori, di depositare le proprie disponibilità presso l’istituto di emissione, a un tasso variabile e gestito in funzione degli obiettivi sopra citati. E può offrire rifinanziamento al sistema bancario a tassi analoghi. Tutte cose peraltro che (nei confronti delle istituzioni finanziarie, quantomeno) le banche centrali fanno già, da sempre.

In sintesi, ammesso e non concesso che fare YCC causi necessariamente la svalutazione del cambio, dire che la svalutazione implichi l’insuccesso della strategia significa accettare due presupposti errati:

che questa svalutazione, posto che avvenga, sia di dimensioni “enormi”

che questa svalutazione, posto che avvenga, inneschi inflazione.

E questo senza contare che l’emissione di titoli, come visto, non è nemmeno indispensabile per finanziare il deficit. Si può emettere direttamente moneta, che è un finanziamento a tasso zero (e senza obbligo di rimborso del capitale). Nel qual caso di YCC, di Yield Curve Control, non si potrebbe neanche parlare, perché non esisterebbe alcuno “Yield” da controllare…

 

domenica 23 ottobre 2022

Ancora su Giappone e MMT

 

Torno ancora sulla situazione giapponese. Come detto in un post recente, gli euroausterici insistono sul concetto che l’inflazione al 3% nel paese del Sol Levante “dimostrerebbe” che la MMT (per essere più precisi, lo Yield Curve Control, l’appiattimento a zero dei tassi d’interesse sui titoli di Stato) non funziona.

Al che è facile replicare (ed è stupefacente che gli euroausterici non se lo dicano da soli): se l’inflazione al 3% è indice di insuccesso del modello giapponese, quella tedesca al 10% che cosa indica in merito a quanto “bene” funzioni il modello eurozonico ?

Detto ciò, c’è un elemento in più che merita alcune riflessioni. Ovviamente anche il Giappone, privo com’è di risorse naturali, risente del maggior prezzo delle materie prime, dell’energia e in particolare del gas.

Teniamo poi conto che lo yen si sta indebolendo sul dollaro (il che, secondo economisti non certo ispirati dalla MMT quali Robin Brooks, fa solo bene al Giappone: anzi è sua ferma convinzione che anche euro e sterlina dovranno ulteriormente calare).

Non è facile separare le componenti che causano inflazione, ma è plausibile sostenere che il 3% giapponese sia tutto dovuto a cambi e import, mentre l’inflazione di origine domestica può essere stimata nei dintorni dello zero.

Questo è un indizio di un’altra cosa che agli euroausterici non piacerà sentirsi dire: plausibilmente, i bassi tassi d’interesse tendono a limitare l’inflazione, non ad accrescerla.

Perché ? ma perché a parità di altre condizioni, i tassi d’interesse sul debito pubblico, ma anche quelli riconosciuti su altre attività finanziarie, o sui conti bancari, sono una modalità di immissione di potere d’acquisto nel sistema economico. Immissione che con i tassi a zero viene meno.

E questa è una affermazione di pura scuola MMT.

Quindi ? i tassi a zero giapponesi non stimolano l’inflazione. Quelli del resto del mondo, che sono stati bassissimi a lungo ma stanno rapidamente salendo, cominciano invece a fornire un sostegno non marginale alla domanda interna.

Una riflessione preliminare e parziale, da approfondire seguendo i dati e gli avvenimenti, a partire dai prossimi mesi.

Ma un indizio in più che guardare al Giappone per cercare smentite alla Modern Monetary Theory riserva sorprese. E delusioni (agli euroausterici…).

venerdì 14 ottobre 2022

La realtà rovesciata degli euroausterici

 

Su LinkedIn mi è capitato di leggere uno scambio di commenti tra operatori del settore finanziario (gestori di fondi, private bankers e simili) in merito all’inflazione giapponese.

Premetto che non sono intervenuto nello scambio come magari mi sarebbe piaciuto fare, per il semplice motivo che chi l’ha iniziato ha anche attivato una funzione che consente di commentare solo ai suoi contatti (non sapevo neanche esistesse – la funzione – del resto non sono un utente “massiccio” di social networks). Forse, probabilmente l’iniziatore / attivatore in questione ama dire quello che pensa ma non ricevere opinioni difformi dalla sua.

Lo scambio di opinioni finiva così per essere un darsi ragione vicendevolmente, nel sostenere le posizioni che io chiamo “euroausteriche”. Com’è tipico di chi opera in quell’ambito professionale (anche se ci sono eccezioni – io sono una di quelle).

Il tema era l’inflazione giapponese, che partita a inizio 2022 da livelli pressoché nulli, ha raggiunto il mirabolante (beh diciamo inusuale, per quel paese) livello del 3%. Questo come dato puntuale a settembre; la media dell’anno, secondo le ultime previsioni FMI, è stimata al 2% sia per il 2022 che per il 2023.

Il commento tipico era “visto !! è provato che la MMT non funziona ! l’inflazione giapponese sta andando fuori controllo ! i nodi stanno arrivando al pettine”.

En passant, l’affermazione che il Giappone “utilizza la MMT” sarebbe da discutere – ma andremmo fuori dal seminato, cioè dall’obiettivo di questo post. Diciamo che sicuramente il Giappone pratica lo yield curve control (YCC), cioè non permette al mercato di imporre i tassi d’interesse sul debito pubblico (pari al 260% del PIL, altro che il 150% scarso italiano…). La Bank of Japan fissa i tassi impegnandosi a comprare titoli a condizioni predeterminate. Il titolo di Stato decennale rende, oggi, l’0,24% e non è mai salito sopra il 2% da decenni.

Fare YCC non equivale a “utilizzare la MMT”, tuttavia non c’è dubbio che le tesi MMT portino alla conclusione che si può fare YCC senza alcuna conseguenza devastante né sull’inflazione né sul cambio della propria moneta.

E infatti il Giappone fa YCC praticamente da una generazione, e non solo l’inflazione non l’ha “devastato”, ma è rimasta inferiore alle medie dei paesi occidentali.

Ma adesso, ci fanno sapere i baldanzosi euroausterici, siamo cioè sono saliti al 3%. Signora mia dove andremo a finire !

Mi scuso se sono irriverente all’eccesso e non voglio essere offensivo nei confronti di nessuno, ma mi pare che qui si sia ampiamente perso il senso del ridicolo.

Il Giappone arriva al 3% e ci dicono che i “nodi della MMT stanno venendo al pettine”.

Il resto del mondo, dove i ministri e le banche centrali considerano la MMT un anatema – ammesso che sappiano cos’è, e quanto ai ministri ho qualche dubbio, almeno in alcuni casi – sta all’8%, al 10%, o livelli anche più alti.

Il commento che i dati suggeriscono, direi con inusuale chiarezza, è che lo YCC fa bene all’inflazione. Molto bene.

Mi sarebbe piaciuto chiedere agli euroausterici come possano aver totalmente rovesciato l’interpretazione dei dati. Dove in realtà da interpretare c’è ben poco.

Mi sarebbe piaciuto chiederlo, gentilmente. Ma hanno bloccato i commenti…

 

mercoledì 29 giugno 2022

Le tasse non finanziano la spesa pubblica ?

 

L’affermazione del titolo (senza punto interrogativo) è spesso citata da parecchi attivisti MMT, al punto da essere da alcuni considerata un punto chiave di questa scuola di pensiero economico. Ma per la verità, non saprei dire se è condivisa in questi esatti termini dai più noti economisti che si riconoscono nella Modern Monetary Theory.

Si tratta di un concetto alquanto controverso, e vale quindi la pena di chiarirlo. Perché negli esatti termini del titolo (ripeto, senza punto interrogativo: “le tasse non finanziano la spesa pubblica”) non è corretto.

Chi sostiene che le tasse NON finanziano la spesa pubblica fa implicitamente riferimento, in effetti, a un principio base della MMT. In regime di fiat money, la moneta è un monopolio pubblico ed è lo Stato a produrla e a introdurla nel sistema economico.

Per cui, se lo Stato non la introducesse, in primo luogo mediante la spesa pubblica, non ci sarebbe moneta con cui pagare le tasse – visto che la moneta è un credito fiscale: lo Stato impone il valore della moneta richiedendo che le obbligazioni d’imposta siano saldate con la moneta nazionale.

Quindi il flusso logico degli eventi è, appunto, che lo Stato prima spende e poi ritira una parte della moneta emessa con le tasse. Per cui le tasse vengono dopo la spesa, che non ha bisogno delle tasse per essere effettuata.

La deduzione che ne traggono alcuni è che se lo Stato emette moneta, non ha mai bisogno di chiederla ai cittadini per spenderla. Ma non è così.

Il punto è che quanto detto sopra fa riferimento solo all’avvio del processo. La moneta deve essere creata per essere poi spesa, certo. Se non ci fosse stata creazione di moneta, non ci sarebbe modo di prelevare tasse, vero. Ma lo Stato spende ogni anno, non una tantum. Per cui la domanda a cui rispondere è: lo Stato potrebbe abolire completamente le tasse e spendere semplicemente moneta che viene prodotta ex novo ed ex nihilo, anno dopo anno ?

Lo risposta è no, per una ragione molto semplice. In un’economia che si sviluppa, è perfettamente normale che la moneta (nel senso lato di mezzi di pagamento e di strumento che incorpora potere d’acquisto) si incrementi anno dopo anno. E lo Stato deve quindi MEDIAMENTE essere in situazione di deficit del bilancio pubblico. Altrimenti i mezzi di pagamento in circolazione si espanderebbero solo per effetto del credito privato, il che sarebbe prociclico e destabilizzante (vedi qui per una breve trattazione dell’argomento).

Ma l’economia, misurata in base al PIL, si espande mediamente, per effetto della crescita reale e dell’inflazione, di qualche punto percentuale all’anno. Non di qualche DECINA di punti percentuali.

Ne deriva che, effettivamente, lo Stato deve essere mediamente in deficit di bilancio, per immettere nell’economia moneta di pari passo con lo sviluppo del PIL nominale: quindi per qualche punto. Ma NON per qualche decina di punti.

Perché fa differenza, che il deficit pubblico medio perseguibile sia “qualche punto” e non “qualche decina” ? Ma perché la spesa pubblica non è “qualche punto” di PIL. Da Stato a Stato la situazione varia, ma si parla di percentuali di solito comprese tra il 30% e il 50%.

Per cui una situazione tipica è che per esempio, NELLA MEDIA, lo stato spenda ad esempio il 40% del PIL, raccolga in tasse il 35% e faccia deficit per il residuo 5%.

Molto banalmente, l’equazione corretta è

spesa pubblica = tasse + deficit pubblico

che poi è una semplicissima identità contabile, niente di sconvolgente - ma dato quanto detto sopra, ci fa capire che le tasse in effetti finanziano non tutta, ma la maggior parte della spesa pubblica.

Per cui, affermare è che le tasse non finanziano (neanche una parte del)la spesa pubblica è scorretto. In effetti ne finanziano la parte preponderante. E, corollario, pensare che le tasse potrebbero essere abolite è pensare qualcosa di irrealizzabile. A meno di non ridurre la spesa pubblica a pochi punti percentuali di PIL.

 

domenica 7 novembre 2021

Le tasse danno valore alla moneta

 

Qualche commentatore esprime ancora scetticismo sul concetto espresso dalla MMT, ma prima ancora dal cartalismo, dove si afferma che una moneta ha valore nel momento in cui uno Stato impone di utilizzarla per pagare le tasse.

Dietro a questi scetticismi ci sono un paio di osservazioni errate.

In primo luogo, a volte si vede fare confusione tra due affermazioni che in realtà sono parecchio diverse.

La MMT non sostiene che “una moneta ha valore solo se lo Stato la impone per il pagamento delle tasse”.

La MMT sostiene che “l’utilizzabilità per pagare tasse attribuisce valore alla moneta”.

Dove sta la differenza ?

Nel fatto che sono sicuramente possibili monete che lo Stato non accetta per pagare tasse, ma che hanno comunque valore perché un gruppo di cittadini e aziende decide di servirsene, sulla base di un impegno contrattuale, assunto volontariamente. Vedi il caso dei circuiti di compensazione multilaterale, di cui l’esempio di maggior successo in Italia è il Sardex.

Ma questa è una via ulteriore, rispetto all’accettazione per pagare tasse, per dare valore a una moneta. Può assolutamente costituire la base di un progetto più che valido, ma con funzione complementare rispetto alla moneta di Stato, alla MONETA (accettata al fine dell’adempimento) FISCALE.

Complementare e di minor peso, per il semplice motivo che il settore pubblico è il soggetto economico più rilevante nell’ambito di qualunque Stato, dato che intermedia quote di PIL comprese tra il 30% e il 50% del totale.

In altri termini, le monete non fiscali esistono e possono benissimo funzionare, ma inevitabilmente hanno un ruolo accessorio rispetto alla moneta dello Stato, appunto perché quest’ultima è moneta fiscale.

L’altra osservazione errata è pensare che la moneta di Stato abbia valore anche o magari soprattutto perché il suo utilizzo è imposto per legge nelle transazioni tra privati.

In realtà lo Stato non impone nulla di tutto questo. Transazioni dove il corrispettivo è espresso in una moneta diversa da quella ufficiale dello Stato non sono affatto infrequenti. Se compro petrolio lo pago in dollari. Se compro un’azione giapponese la pago in yen. Un dipendente svizzero o britannico di una società con sede in Italia può benissimo negoziare un contratto dove lo stipendio è denominato in franchi o in sterline.

Ovviamente sono eccezioni rispetto alla totalità degli scambi di beni, servizi o attività finanziarie. Ma sono eccezioni rilevanti, e dimostrano l’infondatezza del presupposto.

La moneta più diffusa nell’ambito di uno Stato non può che essere quella che lo Stato accetta per onorare le obbligazioni fiscali. Non in teoria, ma in pratica, non può che essere così.

Taxes drive money. Non solo le tasse, ma fondamentalmente, prevalentemente le tasse. E questo è il presupposto del progetto CCF / Moneta Fiscale.

 

mercoledì 3 novembre 2021

Alcuni temi su cui non ho (ancora) idee del tutto chiare

 

UNO - La politica monetaria è realmente necessaria ?

Nello specifico: è possibile

lasciare i tassi di riferimento della banca centrale a zero

non emettere debito pubblico (quindi finanziare il deficit pubblico con emissione diretta di moneta)

gestire le oscillazione del ciclo economico esclusivamente con la politica fiscale (aumentando o diminuendo il deficit pubblico in funzione delle circostanze) ?

Tutto ciò fermo restando che quando i tassi arrivano a zero la politica monetaria perde di trazione ed è quindi inevitabile, comunque, fare affidamento sulla politica fiscale: come dimostrato dalla scarsissima efficacia del Quantitative Easing nel rilanciare inflazione e occupazione.

NB L’obiezione di Milton Friedman (pratica, non teorica) è che la politica monetaria è di più rapida ed efficiente attuazione (le banche centrali si muovono più velocemente di governi e parlamenti). Ma è un’obiezione superabile predisponendo gli strumenti adeguati: tra cui il rafforzamento degli stabilizzatori automatici, ad esempio (anzi forse principalmente) con i programmi di lavoro garantito proposti dalla MMT.

 

DUE - Se si lasciano i tassi perennemente a zero, quali sono le conseguenze sui valori delle attività finanziarie, in particolare sui valori di borsa ?

NB2 Se è vero che il premio per il rischio dell’investimento azionario è un valore costante rispetto all’inflazione, i tassi d’interesse sono ininfluenti sui valori di borsa: ma è realmente così ? l’esperienza storica sembra suggerire altro. Anche oggi quell'ipotesi implica che la borsa USA è parecchio sopravvalutata, del 40% abbondante, ma se l’alternativa è investire in reddito fisso a tassi reali, se non addirittura nominali, nulli o negativi, che si fa ? non si è praticamente costretti ad esporsi sul mercato azionario, anche a valori (secondo quell'ipotesi) sopravvalutati ?

 

mercoledì 28 luglio 2021

Le bolle di credito non sono MMT - anzi

 

Un paio di articoli, il primo di Alessandro Bonetti e Paolo Paesani e il secondo, in replica, di Antonangelo Viscione, sono interessanti in quanto mettono in luce alcuni comuni fraintendimenti relativi alla MMT.

Gli autori possono essere inquadrati nel filone keynesiano mainstream, e il loro orientamento è sicuramente progressista: come lo è quello degli economisti MMT. Ma, come ho messo in luce in altri post, i keynesiani mainstream hanno la tendenza a criticare la MMT per quello che in realtà non dice.

Nell’articolo di Viscione (autore che in generale apprezzo) si trova a un certo punto questo passaggio:

“Vi è chi sostiene che, soprattutto a causa dell’espansione del sistema bancario ombra e dell’utilizzo dei titoli di Stato tra i collaterali di strumenti finanziari come i derivati, anche la ricetta MMT possa diventare potenziale fonte di speculazione ed alimentare bolle del debito nel settore privato. In sintesi, proprio perché inesatta nel cogliere il ruolo della moneta e del credito privato nei sistemi capitalistici, la MMT rischia di trascurare anche gli effetti collaterali delle sue stesse politiche”.

Non è chiaro se Viscione condivida in pieno questo giudizio, ma avendolo riportato dà l’idea di attribuirgli un certo livello di significatività.

Bene: la “ricetta MMT” non ha niente a che vedere con l’espansione del sistema bancario ombra né con la collateralizzazione dei titoli di Stato. Il cardine della MMT è l’utilizzo del deficit di bilancio, realizzato in moneta statale (o finanziato da titoli di Stato pienamente garantiti dall’istituto di emissione della moneta stessa) per attuare politiche di pieno impiego delle risorse produttive (lavoro e aziende).

Come ho spiegato in particolare qui e qui, siamo agli antipodi rispetto a una “ricetta” di crescita del credito privato. È proprio il contrario: la crescita dell’economia richiede espansione dei mezzi di pagamento in circolazione, e se questa espansione non avviene immettendo moneta nell’economia via deficit pubblico, ALLORA è inevitabile fare ricorso ESCLUSIVO al credito privato (o ai surplus di bilancia commerciale, ma non tutti i paesi possono essere in surplus, ovviamente).

E questo ricorso esclusivo è un fattore di destabilizzazione, data la natura prociclica del credito privato (cresce nei periodi euforici e gonfia le bolle, cala nei periodi depressi ed aggrava le recessioni).

Se volete rendere instabile un sistema finanziario, in altri termini, NON seguire la “ricetta MMT” è un’”ottima” strada. Unitamente, certo, alla deregolamentazione e allo sviluppo di sistemi bancari ombra. Ma quando mai la MMT ho promosso la causa della deregolamentazione selvaggia, o della deregolamentazione tout court ?

Quanto poi alla “collateralizzazione dei titoli di Stato”, studiando e ragionando sulla MMT emerge con grandissima chiarezza che non c’è affatto bisogno di emettere titoli per attuare deficit di bilancio pubblico. Si può emettere direttamente moneta. Anzi, la MMT spiega che lo Stato SPENDE SEMPRE MONETA e poi (casomai, ma questa non è una prescrizione MMT) emette titoli per offrirli a chi si è trovato a detenere la moneta messa in circolazione.

Il deficit è quindi generato SENZA emettere titoli; e ovviamente se non si emettono titoli non c’è nulla da “collateralizzare”.

In sintesi, la critica di Viscione (nel senso che l’ha esposta lui, poi, ripeto, non so quanto la condivida) attribuisce alla MMT le conseguenze di politiche che nessun autore MMT ha mai raccomandato, e che non derivano dall’impostazione concettuale MMT. Anzi.

 

domenica 16 maggio 2021

Le “aspettative d’inflazione”

 

Credo utile sviluppare ulteriormente un passaggio del mio commento all’articolo di Thomas Palley (commento che si applica, in generale, a molte critiche formulate alla MMT dagli economisti mainstream).

Mi riferisco al punto che segue: “long-term interest rates will tend to rise if financial market participants anticipate risks of future financial turmoil or higher future inflation”.

Implicita in questa affermazione è che la MMT non si ponga il tema del controllo dell’inflazione. A riprova che Palley fraintende il pensiero degli autori MMT, che il tema, al contrario, se lo pongono eccome.

Ma c’è un’ulteriore ordine di considerazioni. Molti economisti mainstream attribuiscono un’importanza determinante alle “aspettative”. Per quanto riguarda in particolare l’inflazione e i tassi d’interesse, affermano che i mercati richiederanno tassi più alti se si formeranno l’idea che l’inflazione futura sia destinata a crescere.

Ho già spiegato nel post di cui al link sopra che l’istituto di emissione ha la possibilità di controllare a suo piacimento l’intera curva dei tassi d’interesse sul debito pubblico. Se la Federal Reserve stabilisce che il valore di mercato dei treasuries a dieci anni debba rimanere fissato a un livello che equivale a un tasso annuo dell’1,5%, comprando o vendendo titoli in misura illimitata a quel valore, l’1,5% è un dato di fatto che nessuna “aspettativa” può modificare.

In aggiunta a ciò, quanto possono reggere “aspettative” che la realtà non conferma ? se le politiche economiche sono impostate in modo da mantenere l’inflazione sotto controllo, posso anche immaginare che gli operatori finanziari siano inizialmente scettici sulla determinazione delle autorità a proseguire nel tempo con queste politiche.

Posso immaginarlo, ma non certo darlo per scontato. Ma prendiamola pure come ipotesi di lavoro.

I mercati finanziari possono essere scettici. Ma quanto regge questo scetticismo se dopo uno, due, tre anni queste “aspettative”, questa “immacolata concezione dell’inflazione”, non si concretizzano ?

L’inflazione, intesa come livello medio dei prezzi al consumo, non aumenta per effetto delle “aspettative”. Aumenta se il potere d’acquisto disponibile a famiglie e aziende supera la capacità produttiva del sistema economico.

Questo per quanto attiene al LIVELLO MEDIO. Possono verificarsi fenomeni di accaparramento, anche speculativo, a fronte di ipotesi sulla scarsità futura di particolari beni o servizi. Ma dipendono da previsioni di eventi specifici. Se prevedo la chiusura di un mega giacimento petrolifero in Arabia Saudita, indubbiamente il prezzo del petrolio salirà. Ma se la quantità di potere d’acquisto in circolazione rimane invariata, si comprimeranno i margini degli utilizzatori di petrolio o di altri operatori economici, mentre NON salirà l’indice MEDIO dei prezzi al consumo.

Le aspettative non influenzano l’inflazione (definita, ripeto, dal livello MEDIO dei prezzi al consumo). E non influenzano neanche i tassi sul debito pubblico. La politica economica EFFETTIVA (non le previsioni formulate da chicchessia) influenza invece l’inflazione, perché determina la capacità GENERALE di acquistare beni e servizi.

E le aspettative non incidono nemmeno sulla capacità dell’istituto di emissione di controllare i rendimenti offerti a chi sottoscrive debito pubblico (ammesso che si decida di emettere debito pubblico – cosa NON necessaria per uno Stato che emette la propria moneta).

 

venerdì 23 aprile 2021

I keynesiani mainstream e la MMT


Ho letto con molto interesse questo articolo di Thomas Palley, pubblicato pochi mesi fa (fine 2020). Come indica il titolo, “What’s wrong with Modern Money Theory: macro and political restraints on deficit-financed fiscal policy”, si tratta di una disamina critica della MMT.

L’autore è un economista di impostazione keynesiana e di orientamento politico progressista. Pur condividendo le finalità generali di quanto gli economisti MMT propongono, Palley ritiene però sostanzialmente errata la base teorica della MMT.

L’articolo è interessante in quanto costituisce una sintesi, molto articolata, delle critiche alla MMT così come espresse da commentatori che non sono sospettabili di pregiudizi ideologici negativi nei confronti della MMT stessa (o più precisamente nei confronti delle sue finalità). Critiche, quindi, di natura essenzialmente tecnica e concettuale.

Come ho detto in altre sedi, mi riconosco al 95% nel pensiero MMT. Confutare le critiche di Palley mi pare un esercizio utile in quanto si tratta, in sostanza, delle medesime argomentazioni che spingono i governi e le istituzioni sovranazionali ad adottare un approccio ancora decisamente troppo timido nel contrastare i problemi dell’economia anche (ma non solo) in seguito alla crisi pandemica. Troppo timido, purtroppo per noi, soprattutto nel caso dell’Eurozona e in particolare dell’Italia.

Qui di seguito, i punti salienti (a mio avviso) dell’articolo di Palley, e le mie controdeduzioni.

Al capitolo 3.2.1 Palley afferma che “government is likely to face financial market blowback if financial markets believe it is engaging in excessive money issue. In particolar, long-term interest rates will tend to rise if financial market participants anticipate risks of future financial turmoil or higher future inflation… consequently, inflationary bias in MMT’s reliance on money-financed deficits will creep into present financial market conditions long before full employment”. Concetto rafforzato poco più avanti: “if private agents deem the bond rate too low given inflation expectations created by money-financed deficits, the government bond market will shrivel, in the sense of fewer private agents being willing to buy government bonds. More importantly, bond market repression does not prevent interest rates rising in private credit markets, and they may even overshoot owing to unfavorable expectations caused by money-financed fiscal policy”.

Queste argomentazioni sono in parte circolari e in parte autocontraddittorie. La prescrizione MMT è di espandere i deficit pubblici solo fino al livello in cui l’inflazione non si innesca, e di fermarsi a quel punto. Se le politiche dell’autorità pubbliche sono orientate in tal senso, le “aspettative d’inflazione” (generate non è chiaro da cosa) non troveranno riscontro nella realtà. Inoltre, il problema del “minor numero di operatori privati interessati a comprare titoli di Stato” non si porrà semplicemente perché non c’è necessità di emettere titoli a fronte del deficit (appunto perché si parla di “money-financed deficits”). E il rischio di “interest rates rising in private credit markets” non sussiste perché l’istituto di emissione può regolare a piacimento il tasso di rifinanziamento offerto alle banche (e volendo anche al pubblico), nonché controllare come preferisce la curva dei tassi d’interesse sui titoli di Stato (se proprio, ma non è affatto necessario, decide di emetterli). I tassi sul credito privato quindi dovrebbero crescere in funzione di un’aspettativa d’inflazione futura e qui l’argomento diventa appunto circolare: la MMT prescrive di limitare l’inflazione (se no non è MMT) ma il mercato alza i tassi reali (sul credito privato) perché non crede che verrà realmente attuata.

In definitiva l’argomentazione si riduce a “le aspettative d’inflazione saliranno perché lo dico io, che so come la pensano i mercati”. Non proprio molto scientifica né affidabile (non mi risulta che Palley sia diventato multimiliardario investendo sui mercati finanziari). E non stupisce quindi che Palley contraddica se stesso esattamente nel paragrafo successivo affermando che “increases in the money supply can also potentially cause asset price bubbles”. In altri termini, poche righe dopo essersi preoccupato per il potenziale incremento dei tassi reali, Palley si spaventa per il rischio di bolle di mercato finanziario create dal denaro facile. Quindi questa MMT deprime il mercato creando alti tassi reali o lo destabilizza producendo bolle ? non è che magari, al contrario, lo stabilizza proprio perché prescrive di raggiungere il pieno impiego mantenendo, nello stesso tempo, l’inflazione sotto controllo ?

Al capitolo 3.2.2 si legge poi che “expansionary budget deficits bleed into the trade deficit via their impact on income and the demand for imports. The deterioration of the trade deficits then tends to depreciate the exchange rate… Exchange rate depreciation can then cause inflation, which further aggravates the depreciation problem”.

Questa affermazione:

ignora che la MMT propone deficit di bilancio espansivi solo in presenza di sottoutilizzo delle risorse produttive e fintantoché non si verifichi innesco di inflazione;

trascura che la svalutazione del cambio tende a espandere le esportazioni e a sostituire le importazioni con produzioni interne, quindi migliora i saldi commerciali esteri - il che pone un limite alla svalutazione medesima;

non considera che la svalutazione non si trasla in inflazione finché le risorse produttive non sono prossime al pieno utilizzo;

non prende in considerazione la possibilità (prevista tra l’altro nel progetto CCF, di cui anzi è una dei capisaldi) di utilizzare come fattore compensativo delle maggiori importazioni nette non la svalutazione del cambio bensì la riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle aziende locali.

Poco più avanti si legge che “Keynesian macroeconomics emphasizes international constraints, and they are summarized in models via the idea of a balance of payment constraint. However, owing to its US-centric focus, MMT largely ignores such problems which are a first-order constraint on economic policy in many countries”. Questa è in effetti a mio parere l’unica critica realmente significativa agli autori MMT. Può però essere affrontata e superata inserendo nel framework MMT un vincolo di equilibrio dei saldi commerciali esteri finanziati in moneta straniera. Torno su questo tema (che ho trattato in altri due post, questo e questo) più avanti.

Curiosa poi l’affermazione di Palley che “a floating exchange rate has its own adverse financial and inflation complications”. Le esperienze di rotture o di pesantissime disfunzioni dei sistemi di cambi fissi (SME 1992, Argentina 2001, crisi dell’Eurosistema solo per citare i casi più recenti e significativi, ma un elenco completo coprirebbe tutta la storia economica del mondo…) indicano che gli assetti rigidi producono guai decisamente peggiori rispetto a quelli flessibili.

Al capitolo 3.2.4, leggiamo che “a government that is concerned about growth and future living standards will be concerned about budget deficits and their implications for interest rates, which in turn means it is financially constrained and concerned about bond market sentiments”. Citofonare Giappone per farsi raccontare come l’accumulo di un debito pubblico pari al 260% del PIL non abbia avuto alcun effetto di incremento dei tassi d’interesse.

Poi, lo sfondone tecnico e concettuale peggiore di tutto l’articolo: “if the demand for wealth is finite and government financial obligations are net wealth, governments deficits can crowd-out private capital accumulation by increasing the supply of government wealth that must be held in private portfolios”. Perché mai la “demand for wealth” dovrebbe essere finita non è dato saperlo. Quello che è certo (per chi conosce i saldi settoriali) è che i deficit pubblici aumentano il risparmio finanziario privato in termini nominali e peraltro (se non innescano inflazione, come la MMT prescrive di NON fare) anche reali. Il settore privato si troverà con più moneta (o più titoli di Stato) in tasca, senza che le attività finanziarie private debbano per questo diminuire neanche di un centesimo. Per cui, dove sta il crowding-out ?

Al capitolo 3.3, Palley attacca poi la MMT in quanto “it assumes taxes can be abruptly and precisely raised at full employment to contain excess demand, when the reality is taxes are politically contested and difficult to raise. Long ago [Milton] Friedman argued that fiscal policy was impractical for “fine-tuning” stabilization policy owing to inside (decision) and outside (implementation) lags”. Questa è una delle ragioni per cui Friedman sosteneva la maggiore efficacia della politica monetaria rispetto a quella fiscale per stabilizzare il ciclo economico. Il problema è che la politica monetaria perde trazione quando i tassi d’interesse sono prossimi a zero (ulteriori riduzioni “spingono la corda invece di tirarla”, secondo la nota metafora di Keynes).

I ritardi di implementazione della politica fiscale sono sicuramente un tema importante ma la risposta non è fare a meno della politica fiscale, ma potenziare il ruolo degli “stabilizzatori automatici”, cioè degli strumenti fiscali che svolgono una funziona anticiclica quando il livello di domanda aggregata si discosta da quello di pieno impiego. Ne esistono già parecchi – tra cui i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, le imposte progressive sul reddito – ma un’architrave della MMT consiste appunto nell’introdurne uno molto più potente: il Job Guarantee Program (di cui nel seguito).

Alla nota 20 tra l’altro Palley fa notare che “the aversion to raising taxes is one reason why monetary policy is the preferred instrument of fine-tuning stabilization policy. Just as monetary policy is delegated to central banks to facilitate policy decisionmaking, so too tax policy could be delegated to a board of tax experts, but that would be a profoundly undemocratic turn”. Su quest’ultima affermazione sono d’accordo, ma questo vale anche per la politica monetaria, ed è in effetti un’ottima ragione per riportare le banche centrali sotto il controllo democratico dei parlamenti (e per sottoporvi anche il “board of tax experts”, se si ritenesse opportuno crearne uno).

Capitolo 3.5: Palley afferma che “taxes are needed to pay for ongoing programs, and money-financed deficit spending is at best a temporary free lunch”. No: i mezzi di pagamento in circolazione nel sistema economico devono crescere nel tempo perché il PIL potenziale cresce in termini reali (per i miglioramenti di produttività) e ancora di più in termini nominali (se l’inflazione ottimale non è ritenuta essere zero ma ad esempio il 2% a cui puntano le principali banche centrali). E se i mezzi di pagamento devono crescere nel tempo, i vari Stati devono mediamente avere un deficit di bilancio (questa infatti è da secoli la condizione normale delle economie). Diversamente, come si spiega qui, occorrerebbe fare affidamento solo sulla crescita del credito privato (che è prociclica e quindi destabilizzante), salvo per i paesi che generano massicci surplus commerciali verso l’estero (mettendo però in difficoltà altri che per evidenti ragioni algebriche devono allora essere in deficit).

Al 3.6, Palley ritorna sul tema della “US-centric nature of MMT’s theorizing”. Qui come accennavo prima la critiche agli autori MMT sono in parte giustificate nel senso che il tema dei vincoli di saldi commerciali finanziati da debito in moneta estera deve essere maggiormente approfondito e integrato nella struttura base della MMT. Va comunque notato che esistono paesi che finanziano senza problemi deficit commerciali persistenti pur non trattandosi di “countries whose currencies serve as international reserve currencies”. E’ il caso dell’Australia, che ha generato deficit commerciali per quarant’anni consecutivi, tra il 1980 e il 2019, ha prodotto una Net International Investment Position negativa per il ragguardevole livello del 50% del PIL, ma l’ha sostanzialmente finanziata emettendo debito in dollari australiani.

Ultimo punto di sostanza, le critiche al Job Guarantee Program di cui al capitolo 4. Qui basta notare che secondo Palley “one downside is the cost of JGP, which could displace other needed programs (though MMT denies that by assumption, because it asserts government is financially unconstrained)”. No: il JGP non impedisce di sviluppare altri programmi d’intervento pubblico ma non perché “government is financially unconstrained” bensì perché il JGP mette al lavoro risorse produttive, altrimenti dette persone, che in quel momento vorrebbero essere attive ma non trovano impiego nel settore privato (o in altri programmi pubblici). Nel momento in cui l’economia riparte e il settore privato riassorbe le persone temporaneamente impiegate nel JGP, il JGP si svuota (svolgendo anche, come detto in precedenza, un potentissimo effetto fiscale anticiclico – e svolgendolo automaticamente).

In conclusione, la MMT regge benissimo la “critica di Palley”, così come in generale le critiche che gli muovono gli economisti progressisti mainstream (quelli che a me piace chiamare “keynesiani da salotto”). Replicare a queste critiche con argomenti solidi e ben sviluppati però è importantissimo perché gli economisti progressisti mainstream vanno considerati una sorta di “fuoco amico”. In teoria hanno le stesse finalità di chi sostiene la MMT, in pratica offrono argomenti a sostegno dei policymakers che frenano l’adozione degli interventi di politica economica necessari per superare la crisi.