mercoledì 27 dicembre 2023

UE e democrazia

 

Conversando con alcuni interlocutori, li ho sentiti argomentare che è sbagliato imputare alla UE una carenza di democrazia. Motivo ? tutti gli Stati appartenenti all’unione sono democratici, e hanno assunto con metodi democratici le decisioni relative alle cessioni di sovranità.

Questa linea di pensiero contrasta però con l’osservazione che Mussolini e Hitler sono diventati capi dei rispettivi governi a seguito di elezioni, e anzi, all’inizio, formando coalizioni con altri partiti. Poi in pochi anni (Mussolini) o mesi (Hitler) hanno creato regimi dittatoriali, con leggi e modifiche costituzionali approvate dai rispettivi parlamenti.

Con questo non voglio mettere la UE, Mussolini e Hitler sullo stesso piano. Ma voglio far notare che l’assenza di democraticità non si valuta sul processo che l’ha causata, ma sul risultato finale.

Se, riguardo in particolare alla sfera economica, uno Stato è forzato ad adottare politiche disallineate con le opinioni e con le richieste della maggioranza degli elettori, senza che ne esista una necessità oggettiva, la democrazia diventa un simulacro privo di contenuto.

E le regole di governance della UE e soprattutto dell’Eurozona generano questo rischio, che spesso e volentieri si è trasformato in un accadimento concreto.

Gli Stati membri della UE sono democratici. Il processo di formazione della UE e dell’Eurozona si è sviluppato rispettando la democrazia.

Ma il risultato finale è stata la generazione di un pesantissimo deficit di democrazia.

 

sabato 23 dicembre 2023

Calenda incoraggiante suo malgrado

 

Se le opinioni di Carlo Calenda hanno una qualche plausibilità (il dubbio è lecito) questa sua affermazione (dell'altroieri) in merito al patto di stabilità lascia ben sperare:

"Sul patto di stabilità è chiara è netta la vittoria della Germania: avremo più vincoli e più automatismi nelle procedure di infrazione e nelle multe. L'Italia si accontenta di ottenere "la grazia" per tre anni. E' la differenza tra noi e i tedeschi. Chi pensa per i prossimi vent'anni e chi pensa alle prossime elezioni".

Lascia ben sperare perché confermerebbe l’ipotesi che il patto di stabilità sia destinato a dare luogo a effetti modesti nel breve-medio termine.

Dopodiché – questo non lo dice Calenda ma lo penso io - dopo tre anni, cioè nel 2027, si prenderà atto che far scattare le misure restrittive previste dopo il periodo di “grazia” risulterà impossibile.

Si ripartirà quindi da capo ad architettare qualcosa di diverso. Probabilmente con un patto ancora insensato ma con altri tre anni, o giù di lì, di grazia. E di grazia in grazia chissà che l’Eurozona non finisca per avviarsi su un percorso minimamente sensato.

Non è il massimo, ma che fare se da un lato abbiamo un governo che chissà perché non percorre le vie realmente risolutive, quali l'emissione di Moneta Fiscale; e dall’altro interlocutori convinti che il Sole giri intorno alla Terra ?

E’ quasi superfluo sottolineare che i tedeschi non pensano “ai prossimi vent’anni” (come crede Calenda). O se lo pensano sono degli autoillusi. Perché insistono a promuovere schemi di azione che hanno dimostrato di essere inapplicabili e/o fallimentari.

O ancora, forse sono proprio i tedeschi che pensano alle prossime elezioni, convinti (magari a ragione) che in Germania i voti si prendano ringhiando contro gli “spendaccioni del Sud”.

Sempre volendo proseguire sulla strada del cautissimo ottimismo, qualcosa di simile a Calenda lo afferma Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

"Almost surely, after a few years (some countries get a temporary break) the rules will prove unworkable. They can and probably will be adjusted, but it would have been better to get them right from the start".

Anche lui, come si vede, è convinto che dopo il temporary break, altrimenti detto dopo il periodo di grazia, le regole si dimostreranno inapplicabili.

Certo, sarebbe stato meglio partire subito con il piede giusto, dice Blanchard. Ma questo è veramente pretendere troppo dalla UE.




 

giovedì 21 dicembre 2023

Patto di stabilità: che cosa sperare

 

Inaspettatamente, il nuovo patto di instabilità e stagnazione è stato approvato dall’Ecofin di ieri. Per valutarne i contenuti bisogna aspettare i dettagli, ma metto le mani avanti: non mi aspetto nulla di positivo per la semplice ragione che questi patti sono impostati sul concetto che deficit e debito pubblico siano di per sé una cosa cattiva e che qualsiasi sforzo di riduzione debba sempre e comunque essere considerato positivo.

Quindi è come pretendere di mandare un razzo su Marte partendo dal presupposto che il sistema tolemaico sia corretto, che i pianeti girino intorno alla Terra.

Una cosa che mi sembra di capire, con riserva di verifica, è che l’assenso è stato dato, in particolare dall’Italia, facendo affidamento su una serie di eccezioni, esclusioni, limitazioni e rinvii che dovrebbero rendere marginale o comunque non sostanziale l’impatto dei nuovi accordi fino al 2027.

E siccome tre o quattro anni in politica sono l’eternità, avanti così e poi si vede.

Ovviamente non è l’ideale. E non è neanche niente di cui rallegrarsi. Diciamo che c’è una speranza, forse flebile ma chissà, che il nuovo patto risulti inutile, nel senso di inapplicabile o comunque senza effetti sensibili. Che è meglio dell’alternativa: che sia deleterio.

Poi si può sempre sperare che da qui al 2027 a Bruxelles si rendano conto che avevano ragione Copernico, Galileo e Keplero.

O magari che da qui al 2027 cessi di esistere la UE.

 

martedì 19 dicembre 2023

Ma quanti economisti cascano sulla partita doppia ?

 

Sul sito Eurointelligence, promosso e coordinato da Wolfgang Munchau, leggo oggi un pezzo di analisi economica che inizia con il seguente paragrafo:

Per essere (stando all’articolo) un “grande economista monetario”, Charles Goodhart dimostra di avere qualche “piccola” lacuna in materia di ragioneria, partita doppia e contabilità nazionale. La prima ragione da lui citata per temere che l’occidente sia destinato a una crisi fiscale è infatti il livello troppo basso dei tassi di risparmio.

Per cui non si riuscirebbe a finanziare i deficit pubblici salvo monetizzarli, creando inflazione incontrollata.

Caro Goodhart, ma è così difficile capire che, essendo il deficit del settore pubblico pari all’eccesso della spesa governativa rispetto alle tasse raccolte, il deficit medesimo si traduce, centesimo per centesimo, in FORMAZIONE DI RISPARMIO PRIVATO ?

I soldi immessi nell’economia tramite il deficit pubblico NON SI BRUCIANO. Rimangono all’interno del settore privato. Certo, circolano perché chi li riceve a un certo punto li spende. Ma spendendoli, li passa a un altro esponente del settore privato stesso – azienda o individuo che sia. Sempre risparmio privato di qualcuno è.

Le economie occidentali potrebbero non riuscire a raggiungere i loro obiettivi perché cercano di produrre beni e servizi eccedenti la loro capacità produttiva. Questo potrebbe creare problemi dal lato dei deficit COMMERCIALI esteri, oppure generare eccessi di inflazione.

Ma la supposta “carenza di risparmio privato” non c’entra veramente, MA VERAMENTE, NULLA.

 


sabato 16 dicembre 2023

I negazionisti dell’austerità

 

C’è da riflettere su questo scambio di tweet.

C’è ancora in circolazione qualche mohicano che nega l’attuazione di politiche di austerità da parte dell’Italia, e i danni conseguenti.

Il punto è che secondo questi commentatori, inclusi quelli che vantano titoli accademici, non c’è austerità se il bilancio pubblico rimane in deficit, e non c’è austerità se il debito pubblico comunque continua a crescere in rapporto al PIL.

La verità è che l’Italia è stata letteralmente massacrata da IMU, riforma Fornero, aumento dell’IVA, tagli di spesa e investimenti pubblici, soprattutto per effetto delle “ricette” UE adottate tra il 2011 e il 2013, e ha proseguito a ricercare ossessivamente il contenimento del deficit pubblico fino al 2019, prima che il Covid sparigliasse le carte.

Certo, il bilancio pubblico non ha mai raggiunto il pareggio. Certo, il debito in rapporto al PIL non è diminuito. Ma questo dimostra soltanto che l’austerità, che c’è stata, è stata catastrofica, fallimentare. A partire da metà 2011, abbiamo subito piacevolezze quali tredici trimestri consecutivi di contrazione del PIL, decine di migliaia di fallimenti, il raddoppio della popolazione in condizione di povertà assoluta.

E la caduta del PIL e di conseguenza del gettito fiscale ha azzerato i presunti benefici dell’austerità su debito e deficit.

L’austerità non si misura sulla base di uno specifico livello, o di una specifica variazione, di deficit e debito.

C’è austerità quando il deficit pubblico è insufficiente a garantire il pieno impiego delle forze produttive del paese, nonostante non sussistano problemi di inflazione né di deficit estero da finanziare in valuta. Problemi di cui l’Italia non soffriva.

Sì, l’austerità c’è stata. E sì, è stata un disastro.

 


mercoledì 13 dicembre 2023

Warren Buffett non è un macroeconomista

 

Per chi fa il mio mestiere, cioè per chi si occupa di finanza e di investimenti, Warren Buffett è assolutamente un mito. Un uomo che ha accumulato, investendo in borsa e in acquisti di aziende, un patrimonio dell’ordine di un centinaio di miliardi. Un caso unico nella storia.

Verrebbe da pensare che competenze come le sue gli consentano di formulare idee di grande interesse anche nel campo della macroeconomia. Ma non è così.

Alcuni anni fa, Buffett propose un’innovazione legislativa per eliminare il deficit commerciale USA. Non ricordo i dettagli, ma se non sbaglio aveva a che fare con l’assegnazione di “diritti negoziabili a importare” alle aziende che esportano. In tal modo l’importatore potrebbe importare solo nella misura in cui esporta, OPPURE nella misura in cui acquista diritti da un esportatore che non li usa.

Il meccanismo potrebbe anche funzionare. Il punto però è che risolverebbe un non problema. Il deficit commerciale USA è finanziato emettendo dollari, gli USA emettono dollari, e quindi pareggiare la bilancia commerciale per gli USA non è affatto una necessità e neanche qualcosa di particolarmente utile.

A distanza di anni, Warren non lascia ma raddoppia: propone l’introduzione di una normativa tale per cui i deputati in carica negli anni in cui il deficit pubblico supera il 3% diventino automaticamente non rieleggibili. Se hai contribuito a “sfondare i conti pubblici”, finito il mandato vai a casa.

Buffett conferma così di non aver capito la natura del deficit e del debito pubblico. Non sono “oneri sulle future generazioni”. Il deficit pubblico è uno strumento di regolazione della domanda di beni e servizi, nonché un meccanismo di immissione nell’economia di strumenti finanziari che DEVONO crescere di pari passo con lo sviluppo del sistema produttivo. E il debito pubblico è uno strumento di impiego del risparmio privato che viene AUTOMATICAMENTE generato dal deficit pubblico.

L’applicazione della proposta sarebbe disastrosa perché non esiste un livello massimo di deficit pubblico che necessariamente non debba essere superato. In certi anni può essere appropriato un deficit più basso del 3% (lo stesso 3% del trattato di Maastricht, vedi la combinazione). In altri, un livello decisamente più alto.

Prevedo comunque che la proposta incontrerà parecchi consensi nella pubblica opinione (al grido di “a casa gli spreconi”). Poi per fortuna non se ne farà nulla.

Fa riflettere però che un uomo del calibro di Buffett cada, insieme a tante persone comuni, in questi equivoci.

domenica 10 dicembre 2023

La non riforma del patto di stabilità

 

Siamo arrivati al 10 dicembre, e l’accordo per riformare il patto di stabilità UE non è alle viste. Si sente esprimere molta preoccupazione da parte di parecchi commentatori che prevedono sciagure se l’accordo non si troverà entro fine anno. Di frequente, sono gli stessi che propagandavano la mirabile efficacia del vecchio patto e la necessità imprescindibile di rispettarlo ossequiosamente.

Ma oggi ci dicono che il vecchio patto “non è più adeguato ai tempi” e quindi le sciagure potrebbero arrivare se non lo modifichiamo.

La verità è che il vecchio patto era un disastro mentre le proposte di riforma invece pure. Questo molti dei ministri che lo stanno negoziando lo comprendono, anche se non lo dicono ad alta voce, ed è la ragione per cui l’accordo non si trova.

Hanno ragione quelli che affermano che è meglio non riformare niente e tenersi il vecchio patto: il quale ha quantomeno il “merito” di restare in larga misura lettera morta perché è impossibile da rispettare. E quindi ha fatto danni, ma c’è il rischio che la riforma produca effetti peggiori perché partorirebbe qualcosa di altrettanto negativo, con l’aggravante che si tenterebbe – almeno in una fase iniziale – di farlo mettere in atto.

L’accordo su un patto di stabilità sensato è impossibile da trovare per una ragione molto semplice. L’esigenza di averne uno nasce da un presupposto completamente falso: che il deficit e il debito pubblico siano un male necessario e che occorrano il migliore impegno e i migliori sforzi per contenerli.

Il deficit pubblico è invece un necessario strumento di regolazione della domanda interna e il debito pubblico è un servizio di impiego del risparmio privato offerto ai cittadini.

Non è affatto vero che meno deficit e meno debito siano necessariamente meglio di più deficit e di più debito. Sono strumenti di gestione macroeconomica che vanno utilizzati nelle giuste proporzioni e con la giusta composizione, per ottenere i migliori livelli di crescita e di occupazione compatibili con la stabilità dei prezzi e del sistema finanziario.

Le giuste proporzioni e la giusta composizione non si ottengono con un algoritmo, e soprattutto non si ottengono avendo in mente che l’unico deficit e l’unico debito buono siano quelli morti.

A Bruxelles e a Francoforte questo non viene capito, o comunque non viene riconosciuto. Per cui meglio nessuna riforma e tenersi il patto vecchio, continuando a non rispettarlo e a considerarlo quello che è: un pezzo di carta partorito da un delirio burocratico, da mettere in un cassetto e da ignorare.

 

giovedì 7 dicembre 2023

“Emergenza climatica” e “crisi del capitalismo”

 

Merita qualche riflessione e qualche commento questo sintetico tweet di Lidia Undiemi.

Io non credo alla “crisi inevitabile del capitalismo”, se per capitalismo intendiamo un sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo sviluppo economico mondiale sta proseguendo, e la crescita è trainata da paesi fino a pochi decenni o a pochi anni fa sottosviluppati, ma oggi sempre più vicini agli standard di efficienza produttiva e di reddito procapite del mondo occidentale.

E l’economia di questi paesi è imperniata, su aziende a proprietà privata, o quanto meno lascia loro ampi spazi di azione. In questo senso, quindi, il capitalismo non è in crisi. Casomai, il caso della Cina non prova che il capitalismo è in crisi. Prova che può svilupparsi anche in assenza di democrazia. Non una buona notizia: ma non è un indicatore di crisi.

Mi pare corretta però la prima parte del tweet: sì, l’emergenza climatica è un tentativo di riconversione industriale a consumo forzato. Ma neanche questo è un sintomo di crisi del capitalismo. E’ un sintomo della tendenza, dell’avidità umana ancora prima che del capitalismo, a creare situazioni di tensione per aumentare la concentrazione di ricchezza, ma più ancora di potere, nelle mani dell’establishment.

Le tensioni economiche e sociali sono il presupposto per attivare grandi processi di cambiamento. E se il presupposto non esiste lo si crea. Non è più un presupposto ma un pretesto. Ma va bene lo stesso se i processi si attivano. Perché qualcuno li governa, e dal governo del cambiamento nascono opportunità di ricchezza e di potere. Enormi.

Non c’è una “crisi inevitabile del capitalismo”. C’è la necessità, come c’è sempre stata, di creare un sistema di contrappesi e controlli che eviti la tendenza dell’establishment ad accentrare smodatamente, senza limitazioni, senza rispettare principi etici e diritti collettivi, potere e ricchezza.

martedì 5 dicembre 2023

Draghi sopravvalutato ?

 

Vedo porre questa domanda. Mario Draghi è sopravvalutato ? al di là dell’opinione che se ne può avere, positiva o negativa, al di là di considerarlo un agente del bene o del male, forse si è costruita un’immagine troppo enfatica in merito alle sue capacità, alla sua influenza, alla portata della sua azione ?

La risposta a mio parere è affermativa, ma non perché lo ritenga un incompetente.

Draghi è senz’altro un uomo molto abile, senz’altro parecchio superiore alla grande maggioranza dei burocrati che stanno ai vertici delle grandi istituzioni sovranazionali, dei ministeri economici, delle banche centrali.

Questa abilità l’ha utilizzata soprattutto per accreditarsi di fronte ai potentati economici e finanziari, e su questo ha costruito una formidabile carriera.

Se poi la sua azione sia da giudicare positivamente o negativamente, dipende dall’opinione che si ha in merito alle finalità di questi potentati. La mia la conoscete.

Draghi però non ha dimostrata quella superiore comprensione dei fenomeni economici, e men che meno di quelli geopolitici, che i media allineati all’establishment gli attribuiscono.

Dicendo che non l’ha dimostrata non intendo affermare che non la possieda. Non lo escludo. Ma neanche ne ho le prove.

Forse, ad esempio, Draghi saprebbe come riformare la governance economica dell’Eurozona in senso progressivo, inclusivo, rispettoso del benessere collettivo, in grado di ridurre le diseguaglianze.

Forse lo saprebbe e forse no.

Ma quando si è seduto su prestigiosissime poltrone, chiaramente non era lì per fare quello, non era lì per conseguire quelle finalità.

E’ stato posto ai vertici di importantissime istituzioni per fare qualcos’altro, e deve la sua carriera al fatto di essere stato ritenuto la persona migliore per ottenere questo qualcos’altro.

Credo e spero che questo “altro”, a medio e lungo termine, si rivelerà un progetto inattuabile. Che il pendolo oscillerà in un’altra direzione.

E di conseguenza Mario Draghi non sarà ricordato come un grande statista, né come un grande economista, né tantomeno come un grande personaggio storico.

 

venerdì 1 dicembre 2023

L’euro: creare un rischio gravissimo senza ragione

 

Essere indebitati è un fattore di rischio. Questo credo che non lo possa contestare nessuno. Non che prendere soldi a prestito sia necessariamente un errore. Dipende dalle dimensioni del finanziamento, e dipende dalle sue finalità. Però è fuori discussione che a parità di ogni altra condizione, un’azienda o un individuo sono meno a rischio se non hanno debiti.

Quando si parla di un paese nella sua interezza, tuttavia, è necessario distinguere. Un debito pubblico denominato nella moneta sovrana del paese stesso non crea rischi d’insolvenza. Lo Stato potrà sempre emettere la moneta necessaria per rimborsare il debito pubblico via via che arriva a scadenza. Inoltre, potrà sempre sostenere settori economici o aziende in difficoltà, se l’eccesso di indebitamento rischia di creare dissesti che abbiano ripercussioni gravi sull’economia nazionale.

Inoltre, un debito denominato in moneta straniera non crea rischi di insolvenza SE la moneta è più debole di quella che il paese stesso è in grado di emettere (anche nel caso in cui al momento non lo stia facendo). Il debito per la Germania non è un problema perché nessun creditore teme un’insolvenza sistemica. Il debito è in euro e se la Germania tornasse a emettere marchi, il marco sarebbe una moneta più forte dell’euro. Il creditore della Germania quindi non ha timore che la Germania possa essere forzata al default.

Un debito denominato in moneta straniera è invece rischiosissimo se è denominato in moneta PIU’ FORTE della propria. Il debito pubblico italiano è un problema perché (e solo perché) la lira, se tornassimo a emetterla, sarebbe una moneta più debole dell’euro. La forza dell’euro è a un livello intermedio tra quella storicamente constatata per le valute forti dell’eurozona, quali il marco, e le valute deboli, quali la lira.

L’euro ha reso rischioso il debito italiano, ma non quello tedesco.

Questo rischio è la vera palla al piede dell’economia italiana. L’abbiamo creato senza alcuna ragione, entrando nell’euro. Abbiamo generato le condizioni per produrre alla nostra economia, al nostro sistema produttivo, al benessere dei nostri cittadini, un quarto di secolo (per ora) di guai.

Entrando nell’euro, il debito italiano in lire, pubblico e privato, è diventato debito in moneta straniera forte.

Una decisione scellerata.