venerdì 24 luglio 2015

Riflessioni sulla manovra Renzi

Biagio Bossone e Marco Cattaneo


Renzi sa che in un’economia esangue, come quella italiana, soltanto uno stimolo fiscale forte può incidere su aspettative che, in assenza di segnali incisivi di svolta, restano improntate a pessimismo e impoverimento. Ha pertanto annunciato di voler operare un taglio di alcune tasse.   

Ma come finanziare questi tagli? Recuperare le coperture è impossibile se non tagliando la spesa pubblica (il che porta magari guadagni di efficienza – peraltro da dimostrare - ma sottrae impulso a quella stessa domanda che s’intende rilanciare) oppure ottenendo flessibilità sui conti pubblici da Bruxelles. Ma quest’opzione, pur se concessaci, aumenterebbe il debito, conseguenza non proprio desiderabile.   

Noi proponiamo una misura che consentirebbe un taglio fiscale across the board che si autofinanzierebbe attraverso la crescita. Proponiamo che lo Stato emetta certificati di credito fiscale (CCF) che conferiscono al portatore il diritto a una riduzione di tasse, tributi e ogni altra obbligazione a favore dello Stato, a partire da due anni dall’emissione dei titoli (vedremo perché) e pari al valore nominale dei titoli stessi. I CCF sono titoli trasferibili e possono essere scambiati in euro (verosimilmente con uno sconto sul valore nominale comparabile a quello applicato su uno zero-coupon a due anni). Coloro che vendono i CCF vogliono euro per poterli spenderli. Coloro che li comprano acquisiscono il diritto a una riduzione fiscale a scadenza (e dunque a risparmi futuri). Gli intermediari finanziari possono acquistare CCF a sconto da coloro che vogliono venderli e potranno o utilizzarli per riduzioni fiscali a scadenza o rivenderli a sconto inferiore e ricavarne un profitto.  

Lo Stato assegna CCF di nuova emissione a famiglie e imprese. Molte famiglie li convertiranno in euro e li spenderanno in consumi. Le imprese faranno altrettanto o troveranno vantaggioso approfittare del minor carico fiscale per ridurre i prezzi, recuperare competitività e migliorare l’export. In un’economia depressa, la spesa stimolata dalle emissioni di CCF avrà un effetto moltiplicativo su reddito e occupazione. Le prospettive di rischio creditizio miglioreranno e accresceranno l’incentivo per le banche a riprendere l’erogazione di prestito per nuove attività di produzione e investimenti. Il maggior output genererà nuovo gettito fiscale. Le nostre proiezioni mostrano che basta un moltiplicatore del reddito intorno a 0,8 (assai più basso delle stime prevalenti) per far sì che nei due anni di differimento previsti per la scadenza dei CCF lo Stato incasserà introiti sufficienti a coprire il costo della riduzione fiscale, senza incremento del rapporto deficit pubblico / PIL.

L’emissione di CCF non comporta violazioni delle regole dell’euro. I CCF non sono uno strumento di debito, non costituiscono un trasferimento di reddito e non sono una valuta che lo Stato emette per sostituire l’euro. Permettono al settore privato di monetizzare e spendere oggi i tagli fiscali previsti a due anni e consentono tempo sufficiente affinché il prodotto nazionale cresca e generi introiti fiscali per evitare deficit.

Le emissioni possono inoltre essere accompagnate da clausole di salvaguardia da attivare nel caso in cui la crescita dell’output generi meno introiti fiscali del previsto:

Lo Stato può annunciare un impegno a finanziare in CCF una quota (presumibilmente piccola) delle sue spese, e/o

ai contribuenti lo Stato può assegnare nuovi CCF a fronte di nuove tasse (ciò sarebbe equivalente a sostituire aumenti delle tasse con dei swap forzosi CCF-euro), e/o

lo Stato può incentivare i possessori a ritardare l’utilizzo per sconto fiscale dei CCF giunti a scadenza attraverso il riconoscimento di un aumento del valore facciale dei titoli in loro possesso (il che è equivalente a riconoscere un interesse sotto forma di nuovi  CCF), e/o

lo Stato può raccogliere capitali in euro dal mercato collocando CCF con scadenze più lunghe al posto dei tradizionali titoli di debito.

Se adottate, queste clausole avrebbero effetti enormemente meno pro-ciclici di quelli che impone la UE per assicurare gli obiettivi di bilancio.

Con i CCF lo Stato, sostanzialmente:

Uno, promette a cittadini e imprese un ampio taglio delle tasse distribuito sull'arco di due anni;

Due, incorpora questa promesse in titoli che cittadini e imprese nel frattempo possono scontare e monetizzare oggi stesso per spenderle;

Tre, conta che nei due anni previsti la nuova spesa genererà output e gettito fiscale sufficiente per coprire il costo della riduzione fiscale.

In altri termini, con i CCF lo Stato effettua una forma di ‘deficit spending’ che prevede uno spending (da parte del settore privato) immediato e un deficit (del settore pubblico) ritardato che peraltro si auto-riassorbirà per effetto del moltiplicatore della spesa. Lo Stato fa ciò emettendo titoli sui quali non può fare essere, in nessuna circostanza, costretto al default.

Si tratterebbe di una grande manovra di stimolo della domanda indotto dallo Stato, con effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione.

giovedì 23 luglio 2015

Gli equivoci sull’austerità



Si sente spesso dire, da parte di parecchi commentatori dell’Eurocrisi (compresi molti eurocritici) che un certo livello di austerità era comunque inevitabile. Questa affermazione ha degli elementi di verità, ma va meglio qualificata.

Prendiamo il caso greco, ovviamente il più eclatante ed esasperato. Prima della crisi Lehman scoppiata nel 2008, la Grecia aveva raggiunto livelli di deficit – sia pubblico che commerciale – superiori al 10%.

Concentriamoci sul deficit commerciale, che è quello realmente rilevante per supportare l’affermazione che un determinato paese “vive al disopra dei propri mezzi”. Il deficit commerciale indica che la spesa totale del paese supera la produzione: questo comporta la crescita dell’indebitamento netto verso l’estero.

Nel momento in cui non è più possibile finanziare il debito estero, e salvo l’improbabile eventualità di elevare di colpo la produzione interna, il riequilibrio dei saldi commerciali richiede, evidentemente, la riduzione della spesa totale.

A partire dal 2009, una minore spesa – meno consumi e meno investimenti – era, effettivamente, inevitabile per la Grecia. Ma era necessario che crollassero anche produzione e occupazione ?

La risposta è negativa. In situazioni simili, paesi dotati della propria moneta (vengono in mente, per esempio, i paesi asiatici nel 1997-8, ma anche, su scala meno accentuata, l’Italia nel 1992) hanno messo in atto un mix di interventi restrittivi sui consumi unitamente al riallineamento del cambio.

In questo modo hanno immediatamente recuperato competitività. La domanda interna è scesa ma i saldi commerciali esteri sono passati da una situazione di deficit a una di surplus. In pratica si è sostituita domanda interna con domanda estera (più export e sostituzione di importazioni con produzioni interne).

Un intervento del genere implica che la popolazione residente abbassi la spesa, ma se ben condotto ha impatti molto più contenuti (potenzialmente anche nulli) sul PIL e sull’occupazione.

In pratica il cittadino del paese che deve riequilibrare i saldi commerciali esteri (cioè tornare a “vivere al livello dei propri mezzi”) spende un po’ meno (quindi risparmia un po’ di più) ma lavora come prima. Mantiene la sua occupazione ma compra qualche auto straniera in meno, fa le vacanze in patria e non all’estero, eccetera.

Questo è un meccanismo di aggiustamento che, se correttamente gestito, non produce nessun effetto drammatico né sull’economia né sul benessere della popolazione.

Il riallineamento del cambio è un elemento molto utile in questo processo di aggiustamento, ma in effetti è possibile attuarlo anche nell’ambito di un’unione monetaria.

La Grecia, per esempio, a partire dal 2009 non avrebbe dovuto adottare un mix di politiche tutte restrittive – più tasse e tagli di spesa. Avrebbe dovuto abbinare interventi restrittivi dei consumi interni – agendo per esempio sull’IVA – con una serie di incentivi (viene in mente per prima cosa una forte riduzione del cuneo fiscale) alla produzione domestica.

A grandi numeri, se prima della crisi la Grecia produceva 100 e spendeva 110, l’aggiustamento doveva condurre a mantenere la produzione invariata nonostante un calo della spesa: sostituendo, come si diceva sopra, domanda netta estera alla minore domanda interna.

Spesso si legge che tutto questo non è possibile (e che non funzionerebbe neanche la svalutazione, se la Grecia reintroducesse la dracma) perché la Grecia ha un settore manifatturiero modesto e poca capacità di esportazione.

Ora, certamente la Grecia non possiede il potenziale industriale della Germania e neanche dell’Italia. Ma ha un export (compresi i servizi, che includono il turismo) di 50 miliardi di euro all’anno su un PIL di 180 e un saldo commerciale estero oggi all’incirca in pareggio. Naturalmente questo pareggio riflette un crollo delle importazioni dovuto alla pesantissima caduta della domanda interna. Ma ciò non toglie che, con una moneta non più sopravvalutata, o anche con azioni di riduzione del carico fiscale che grava sulle produzioni interne, la Grecia potrebbe espandere (rispetto a oggi) domanda, produzione e occupazione mantenendo in equilibrio i saldi commerciali esteri.

Tornando a quanto è accaduto dal 2009 in poi, l’austerità in una certa misura serviva, ma da un lato è stata adottata in misura del tutto eccessiva, dall’altro in forma estremamente male impostata. Fatti pari a 100 il PIL e a 110 la spesa pre-crisi, la Grecia poteva mantenere il primo a 100 e abbassare la spesa allo stesso livello, senza ridurre l’occupazione.

Invece sia il PIL che la spesa sono state abbattute a 75, e la disoccupazione dall’8% è esplosa al 25%.

In Italia, dal 2011 in poi (lettera BCE e avvento del messia Monti…) è avvenuto qualcosa di simile, anche se su scala meno esasperata. Va precisato tuttavia che in Italia il deficit commerciale non era su livelli confrontabili a quelli greci: non ha mai superato, dall’introduzione dell’euro in poi, il 3% annuo.

Quando si afferma che “l’Italia ha vissuto al disopra dei propri mezzi” si introduce un livello di confusione ulteriore. Il problema dell’Italia non è mai stato un alto deficit commerciale, e di conseguenza un elevato debito netto verso l’estero (che è pari al 30% circa del PIL, livelli simili a USA, Regno Unito e Francia).

L’Italia ha, notoriamente, un debito pubblico (non un debito estero) elevato rispetto al PIL. Questo non significa che come paese spendiamo sistematicamente più di quello che produciamo. Significa che in passato sono stati alti i deficit delle amministrazioni pubbliche, finanziati peraltro in larghissima misura da risparmio interno. In pratica, gli italiani hanno prestato allo Stato quello il governo non raccoglieva in tasse.

Nel 2011, si è venuta a creare una situazione di tensione (la famigerata “crisi dello spread”) non perché il deficit pubblico italiano fosse alto, ma perché si è cominciato a temere che l’euro potesse spaccarsi, e che quindi i titoli italiani potessero venire ridenominati in lire, svalutandosi rispetto a quelli tedeschi.

Tanto è vero che lo spread è stato riportato sotto controllo non a seguito delle azioni restrittive del governo Monti, ma (a luglio 2012) dal “whatever it takes” di Draghi: dall’impegno, in altri termini, della BCE a garantire illimitatamente il debito pubblico degli stati membri.

Nel 2011, l’Italia avrebbe potuto di conseguenza (anche senza prendere in considerazione l’ipotesi di uscita dall’euro) adottare un mix di politiche molto più efficaci e sensate. Poteva attuare alcune azioni di riduzioni dei consumi interni unitamente a un consistente abbassamento del cuneo fiscale, nella misura necessaria a riportare i saldi commerciali esteri in equilibrio: da -3% a zero, in pratica, ma senza penalizzare produzione interna e occupazione.

Quanto ai conti pubblici, l’azione decisiva (in regime di unione monetaria, quindi di debito che l’Italia non può garantire, essendo denominato in una moneta che l’Italia non controlla) poteva effettuarla soltanto la BCE: il “whatever it takes”, appunto.

La BCE, si dice, era disponibile a farlo solo a condizione che il saldo spese / incassi della pubblica amministrazione fosse stato riportato al di sotto di determinati livelli. Ma anche in questo caso esistevano altre modalità d’azione: per esempio introdurre prelievi fiscali compensati da Certificati di Credito Fiscale – prelievi di euro, in pratica, a fronte di erogazioni di titoli che danno diritto a sgravi fiscali futuri, secondo le modalità qui delineate.

Era possibile, in altri termini, ribilanciare il saldo tra entrate e uscite pubbliche in euro con un impatto enormemente meno depressivo e deflattivo sulla domanda interna, e con conseguenze molto ma molto meno drammatiche su PIL e occupazione.

lunedì 20 luglio 2015

Save the Eurozone from the Euro

By Biagio Bossone and Marco Cattaneo


An agreement was reached last Monday in Bruxelles to try and solve the Greek crisis. But nobody believes that the outcome will be sustainable. Alexis Tsipras was not brave enough to go for Grexit, and accepted instead austerity measures even harsher than the earlier ones. Combined with the negative impact of the negotiation stalemate of the last few months, and the bank holiday that started two weeks ago (and is not over yet), this will cause a further steep decline in Greece’s GDP, in 2015 and 2016 at least.
 
The largest share of the new loans will go to refinance the old ones, under an “extend-and-pretend” framework, and to recapitalize the banks. No adequate financing will be made available to support domestic demand and invert the debt deflationary spiral. The IMF predicts that the public debt / GDP ratio will exceed 200% and has issued a strongly negative judgment on the program. This makes it very unlikely for the Fund to adhere to the new program, and raises doubts on Euromembers’ willingness to go ahead with it.
 
Greece may be too small to destabilize the world economy, but much larger countries such as Italy and Spain, and possibly France, face similar (albeit less extreme) problems: low growth, high unemployment, spiraling debt ratios, lack of fiscal space and higher financial fragility. In the worst of circumstances – say, a major euro crisis confidence – these countries might become the epicenter of a world financial tsunami. In the best of circumstances, their citizens will be bound to relentless economic decline.  
 
We believe that a thorough Eurosystem reform is not only long overdue but, regrettably, also impossible to undertake under the current European leadership. At the same time, a system breakup, unless well planned and orderly executed, would bring us all into unchartered waters.
 
Our proposed approach to exit this nightmare can be independently implemented by each country, while it would avoid disrupting the system. A national government, say Italy, could issue rights to tax cuts two years after issuance. Call these rights tax credit certificates (TCCs). These are non-debt bonds that only commit the government to reducing the tax burden of their bearers by an amount equivalent to the nominal value of the bonds two years after they have been issued. We’ll discuss the two-year deferral in a moment.
 
The TCCs are transferable, can be sold in exchange for euros, and may be thus used to finance immediate spending. Those who sell TCCs want to get euros to buy stuff. Those who buy TCCs want to acquire rights to future tax cuts (which means more future savings). Financial intermediaries can buy TCCs from sellers at a discount and either use them for future tax cuts or resell them at a lower discount and earn a profit.
 
The government allocates newly issued TCCs to households and enterprises. Many households will want to convert them to finance consumption. Enterprises can use tax reductions to cut prices and gain competitiveness. In a depressed economy, the new spending stimulated by TCC issuances will have multiplier effects on output and employment. Credit prospects will improve and banks will have an incentive to start lending again to finance production and investment. The new output will raise fiscal revenues. As projections show, a small multiplier (0,8) and the two-year deferral on the TCC would be enough to avoid that the fiscal deficit in two years time would increase as a result of the TCC-induced fiscal cuts.
 
The TCCs could act as a quasi-money instrument and might even be used by the public as a currency parallel to the euro. This has raised a lot of misunderstandings, in particular by implication that their issuance would break euro rules. This is non-sense: the TCCs would not be issued by the government as a currency to replace the euro. The public and the market, however, might use them any way they wish, even as money, as for any financial instrument). The only thing that matters is that the TCCs would make possible for the government to engineer a huge tax cut / demand support action in a situation where no other policy lever is available. The TCCs would enable the private sector to monetize and spend today the tax cuts maturing in two years and allow enough time for demand-driven output to increase and generate the fiscal revenues needed to finance the tax cuts.
 
Are there risks that this program might not work?
 
No, there are not, if basic Keynesian macroeconomics is right, as it has proven to be since 2008, and if expansionary austerity proves to be a deep failure, as it has plenty shown.
 
Besides, TCC issuances can be supported by "safeguard clauses" to be triggered if output growth were to generate less fiscal revenues than anticipated:
 
First, the government could announce a commitment to pay a fraction (presumably, just a small one) of its public expenditures with TCCs.
 
Second, taxpayers could be entitled to receive TCCs as compensation for additional euro tax payments: this would be equivalent to replacing tax raises with compulsory TCC-for-euro swaps.
 
Third, TCC holders could be incentivized to postpone the use of TCCs for tax reductions by receiving an increase in their face value (equivalent to interest income being paid in the form of TCCs).
 
Fourth, the government could raise euros in the market by placing TCCs with longer maturities instead of debt bonds.
 
These safeguards would be much less pro-cyclical than those imposed by the EU to secure budget targets. In fact, they would easily accommodate for even significant shortfalls in primary budget surplus targets.
 
A “euro + TCC” system would be technically stable. Yet, it would be possible for the TCCs to evolve into new legal tender, and ultimately replace the euro, if need be. This would be a political decision. Should we get there, our alternative approach would allow for a “velvet”, efficient, and non-disruptive winding up of the euro.

giovedì 16 luglio 2015

I vicoli ciechi di Syriza


Perché la trattativa del governo greco con la UE si è conclusa con un risultato così tragicamente negativo ?

I problemi sono stati tre (in nessun particolare ordine né cronologico né d’importanza):

Primo, il fatto stesso di averla impostata come una trattativa serrata.

Secondo, il non aver predisposto linee di azione alternative.

Terzo, l’inattitudine al negoziato.

I tre punti si ricollegano l’uno all’altro. Syriza si è posta nei confronti della UE con un atteggiamento trasparente e di buona fede: un partito sinceramente europeista che cercava di correggere i difetti di impostazione della governance economica dell’Eurozona.

Ora, io non ho nessuna pretesa di essere un esperto di trattative. Le mie competenze, se ne ho qualcuna, sono di natura tecnica e analitica. Ma la mia attività professionale mi porta, comunque, a partecipare quasi quotidianamente a processi negoziali. E qualcosa (soprattutto dagli errori) ho imparato.

In una trattativa, quello che non serve a nulla è cercare di convincere la controparte della bontà / razionalità / correttezza della tua posizione. Anche se hai ragione, l’effetto che ottieni è solo quello di irritarlo.

Il governo greco comprendeva parecchi economisti di valore – Varoufakis, Tsakalatos e anche altri. Ma sono economisti con esperienza di ricercatore accademico, abituati a elaborare e argomentare tesi, a esporle a un pubblico di colleghi o di studenti.

In una trattativa, argomentare come fa un ricercatore o un docente è, quando non inutile, controproducente. Devi invece far leva sulle debolezze e sugli interessi delle controparti, mentire quando serve, ottenere vantaggi dando la sensazione di fare concessioni.

Ai greci questa esperienza e questa attitudine mancava. Ma prima ancora di questo: era veramente utile o necessario impostare il rapporto con la UE come un negoziato ?

Il problema, qui, è il non aver predisposto linee di azione alternative. Se ho come pregiudiziale la non uscita dall’euro, e per di più non prendo neanche in considerazione l’emissione di uno strumento monetario parallelo, in che situazione mi trovo ? in quella di andare a chiedere a qualcuno cose che a me sono totalmente indispensabili (gli euro), per di più con la pretesa di spiegargli che me li deve dare perché lui ha sbagliato tutto mentre io so come correggere i suoi errori.

Non stupisce che con questa impostazione si faccia poca strada. E non serve a niente avere, sul piano astratto e teorico, ragione.

Veniamo, appunto, al tema delle linee di azione alternative. Il governo greco, mi risulta, è in qualche modo, giunto a conoscenza di almeno tre progetti di strumento monetario complementare: i nostri CCF, i Geuro di Thomas Meyer e i TAN di Rob Parenteau e Trond Andreesen. E lo stesso Varoufakis aveva una proposta tecnicamente molto simile – gli FT-Coins – anche se li vedeva come una forma di finanziamento, non (cosa enormemente più efficace) come uno strumento monetario parallelo.

Non ha avviato approfondimenti seri, e men che meno progetti attuativi di dettaglio, su nessuno di questi schemi.

Era invece la primissima cosa da fare. Poniamo che a febbraio il governo greco avesse cominciato a mettere in circolazione una certa quantità di CCF per supportare azioni di sostegno della domanda e di riduzione della fiscalità. Si sarebbe avuto un primo effetto positivo sull’economia, ma soprattutto lo strumento monetario parallelo sarebbe diventato qualcosa di familiare per il pubblico, sarebbe stato oggetto di scambi e transazioni, ci sarebbe stata evidenza del suo valore. Non sarebbe più stato, in altri termini, un oggetto ipotetico e misterioso.

La minaccia, o l’effettiva attuazione, di un congelamento dell’ELA – avvenuta a fine giugno – sarebbe divenuta un’arma molto meno temibile nel momento in cui una forma di moneta complementare, e potenzialmente alternativa, fosse già stata in circolazione in Grecia. E anche l’interazione con la UE sarebbe avvenuta su altre basi. Non nella situazione di aver bisogno di qualcosa a tutti i costi, ma con l’attitudine di chi ha già identificato un percorso differente, e anzi lo sta ponendo in atto.

Apparentemente, Syriza ha invece visto l’introduzione di uno strumento monetario parallelo come un inevitabile preludio, nella sostanza se non nella forma, alla Grexit. E qui ha giocato ancora la pregiudiziale ideologica: pretendere di reindirizzare il progetto di integrazione europea, non accettare che una mossa unilaterale, non concordata, potesse essere la strategia vincente. Anche se le controparti ogni giorno di più davano prova di non voler concordare nulla.

Ma il mio forte sospetto è che abbiamo giocato, purtroppo, anche dei limiti di comprensione tecnica. Varoufakis, in particolare, in un recentissimo articolo sul Guardian, se ne è uscito con questa affermazione, che non esito a definire sbalorditiva.

“To exit, we would have to create a new currency from scratch. In occupied Iraq, the introduction of new paper money took almost a year, 20 or so Boeing 747s, the mobilisation of US military’s might, three printing firms and hundred of trucks. In the absence of such support, Grexit would be the equivalent of announcing a large devaluation more than 18 months in advance: a recipe for liquidating all Greek capital stock and transferring it abroad by any means available”.

Boeing 747 ??? centinaia di camion ??? svalutazione annunciata 18 mesi in anticipo ??? se vi sfugge il significato di tutto questo, siete in buona compagnia. E’ una sequela di idiozie.

Ricordiamo a chi fosse sfuggito che la Grecia non è in guerra, che i camion sono perfettamente disponibili, le società specializzate nello stampare banconote pure, che l’introduzione di due (non una) nuove monete in Cecoslavacchia è stata effettuata in poche settimane, e che rispetto ad allora (1993) le transazioni elettroniche sono diventate nettamente predominanti rispetto a quelle in banconote e monete metalliche.

Con buona pace di chi sostiene che in ultima analisi le motivazioni politiche prevalgono sempre sui concetti tecnici, mi pare purtroppo evidente che a Varoufakis è mancata proprio una corretta comprensione di questi ultimi. Non aver capito che per aprire una scatola, la prima cosa che serve è un apriscatole. Che al di là di ideologia e politica, la cosa più importante era – torniamo a Keynes, 1930 – ricaricare la batteria scarica.

mercoledì 15 luglio 2015

Veramente i greci non vogliono uscire dall’euro ?



Allora, alla fine Tsipras ha accettato un accordo catastrofico per il suo paese. La motivazione addotta è stata che Syriza non aveva un mandato elettorale per la Grexit. Ma non sta in piedi: non l’aveva neanche per l’accettazione di un programma ancora più deleterio, per il suo paese, di quanto attuato tra il 2012 e il 2014. Anzi era stato eletto precisamente per metter fine a quel programma, non certo per peggiorarlo.
Ci sarà ancora parecchio da dire sull’argomento nei prossimi giorni, anche e soprattutto perché l’accordo ha comunque altissime probabilità di restare lettera morta. I voti per l’approvazione nel parlamento greco, nonostante la spaccatura di Syriza, saranno probabilmente resi disponibili dalle (ex ?) opposizioni “europeiste”. Ma il Fondo Monetario Internazionale ha già espresso la sua valutazione: è un programma inattuabile e, nella modesta misura in cui sarà parzialmente possibile renderlo operativo, a dir poco dannoso. E’ estremamente dubbio che UE, BCE e stati membri dell’Eurozona procedano senza il coinvolgimento del FMI, e dopo anzi averne ricevuto un’opinione così negativa.
Per ora mi limito a un breve commento su un tema che mi ha sempre suscitato parecchie perplessità. I sondaggi di opinione da anni affermano che un’alta percentuale della popolazione greca – 70%, 80% - vuole evitare, comunque e a qualsiasi costo, l’uscita dall’euro.
Ora, questo dato stride profondamente con il risultato del referendum del 5 luglio scorso. Certo, il quesito referendario non era sulla Grexit, ma sull’accettazione di un programma di austerità. Ma la popolazione greca era stata bombardata, per tutta la settimana precedente, da una campagna mediatica e anche da dichiarazioni di parecchi esponenti UE, secondo le quali il no al referendum implicava, o aumentava moltissimo, le probabilità di Grexit.
Aggiungiamo a questo il clima non certo sereno, a dir poco, prodotto dalla chiusura delle banche e dal contingentamento dei prelievi bancomat. C’erano tutti gli elementi per pensare che, se veramente i greci fossero stati in maggioranza ostili alla Grexit, i sì avrebbero vinto. Invece, 61% di no.
Ne derivo una banale conclusione. Questi sondaggi sono inaffidabili.