sabato 30 maggio 2020

Il Recovery Fund è una tragica pagliacciata


Spero di sbagliarmi. Ma ho il fortissimo timore che il titolo di questo post rifletta la pura e semplice realtà dei fatti.

Non solo perché i soldi da immettere nell’economia italiana tramite il Recovery Fund saranno del tutto insufficienti. Forse un 2% del PIL per qualche (pochi) anni.

Non solo perché un 2% del PIL l’Italia lo raccoglie, come si è visto un paio di settimane fa, in pochi giorni, per esempio con un’emissione di BTP Italia. Senza bisogno del Recovery Fund.

Non solo perché le erogazioni sono soggette all’”attuazione di riforme strutturali”, prescritte dalla UE.

Non solo perché il giudizio in merito alla loro attuazione è totalmente discrezionale, e in qualsiasi momento, quindi, le erogazioni potranno essere sospese (mentre i nostri contributi sono da pagare sull’unghia, senza nemmeno pensare di fiatare).

Ma anche perché nessuno ha detto quale sarebbe il saldo di bilancio pubblico accettato, escludendo l’impatto del Recovery Fund.

Mi spiego.

Ante Covid, nel 2019 il deficit pubblico italiano era stato pari all’1,6%. Del tutto insufficiente a immettere nell’economia quanto necessario a produrre una ripresa degna di questo nome. Sarebbe servito un 2% in più, almeno. Torna sempre il 2%, come si vede (lo stesso 2% del MES, tra l’altro).

Adesso, per prima cosa occorre recuperare le conseguenze economiche della crisi sanitaria. Facciamo un’ipotesi ottimistica: tra il 2021 e il 2022, viene fatto (ci viene consentito di fare) quanto necessario a ritornare – nel 2022 – ai livelli del 2019.

Questo vuol dire essere ai livelli di partenza: che erano livelli di pesantissima e cronica depressione dell’economia.

Si potrebbe pensare: OK, da lì in poi il Recovery Fund ci assicura, appunto, quel 2% in più necessario a uscire dalla depressione.

Ma “in più” rispetto a cosa ?

Esauriti gli effetti della crisi sanitaria, il patto di stabilità e crescita rientrerà in funzione.

E la commissione UE, nella persona dei vari Dombrovskis & c., non perde occasione di ripetere che il debito pubblico dovrà tornare su una traiettoria di contenimento e discesa.

Ci vuol poco a immaginare, quindi, che la commissione UE “raccomanderà” di ottenere il pareggio di bilancio, fatto salvo il contributo del Recovery Fund.

“Raccomandazione” da eseguire sotto pena di sospensione dei contributi, s’intende.

Per cui: il pareggio di bilancio diventa un’immissione di risorse pari al 2%, decimale più decimale meno la stessa degli anni pre-Covid.

E l’economia italiana continua quindi a rimanere nella situazione pre-Covid. Depressione cronica, alti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, fortissimo malessere sociale.

Ammesso (e ripeto, è un’ipotesi ottimistica) che almeno l’impatto Covid venga recuperato. Se no, è molto peggio.

Se tutto va bene, stiamo come prima, cioè decisamente male. E per di più ancora più di prima siamo sotto costante minaccia di quanto dicono (con totale discrezionalità, che implica possibile – e credo, purtroppo, anche probabile – arbitrarietà) gli eurocrati.

Il Recovery Fund per noi è pessimo. Ma in realtà non piace a nessuno Stato UE.

A chi pagherà più di quanto incassa (i nordici) non piace per ovvi motivi.

Germania e Francia non ne sono certo entusiasti. Anche loro pagheranno più di quanto incassano. Se lo fanno andare vagamente bene perché data la loro influenza sulle gerarchie UE, saranno dalla parte dei controllori e non dei controllati. Ma ne farebbero volentieri a meno.

Il Recovery Fund piace solo agli eurocrati, perché mette ancora più potere in mano a loro – a una burocrazia pletorica, incompetente, invadente e vessatoria.

Spero di sbagliarmi, ripeto. Ma non credo di sbagliarmi.

Credo invece più probabile – questa è la mia speranza di gran lunga più plausibile – che l’accordo sui “dettagli” (chi prende, chi paga, chi controlla e come) deragli, e che il Recovery Fund non decolli.

E che l’Italia prosegua per conto suo, con quello che realmente serve e risolve.



martedì 26 maggio 2020

CCF: perché forse è la volta buona


Il Decreto “Rilancio” ha introdotto vari meccanismi di assegnazione di crediti d’imposta, cedibili ai fornitori o, in alternativa, negoziabili contro euro sul mercato finanziario. E di altre ancora si sta parlando.

Si va dall’Ecobonus 110% per le ristrutturazioni immobiliari, al Bonus Turismo, a indennizzi per affitti e canoni pagati da attività commerciali che hanno ridotto il fatturato nel periodo più acuto dell’emergenza Covid.

Non è ancora un vero e proprio “progetto CCF”. Le dimensioni sono limitate, e vanno messi a punto i meccanismi di cessione e circolazione dei crediti d’imposta.

Però sono “teste di ponte” molto significative. Vanno estese, potenziate, migliorate sul piano operativo. Ma ci sono, e costituiscono un importantissimo passo in avanti.

Idee collegate alla Moneta Fiscale e ai Certificati di Compensazione Fiscale stanno a loro volta facendosi strada, per il tramite di una pattuglia di parlamentari M5S, nell’ambito della maggioranza di governo.

In primo luogo, la possibilità di creare una piattaforma informatica di scambio dei crediti fiscali (il SIRE di Fabio Conditi).

Da segnalare anche l’idea dei conti fiscali di risparmio, proposta da Giovanni Zibordi riprendendo un’idea di John Cochrane. Conti presso il Ministero dell’Economia su cui i privati cittadini possono depositare euro, con una remunerazione per esempio dell’1% (competitiva, quindi, rispetto allo zero che offrono attualmente i normali conti bancari).

Con i conti fiscali di risparmio, il Tesoro può fare raccolta senza passare tramite il collocamento di titoli sul mercato, evitando in particolare di piazzare BTP su cui le istituzioni finanziarie fanno trading e alimentano la volatilità di prezzi e spread (con i connessi effetti di panico, spesso e volentieri enfatizzato e strumentalizzato dai media e da chi li controlla).

Come dice il nome, i conti fiscali di risparmio possono essere anche utilizzati per effettuare pagamenti di tasse o comunque per soddisfare qualsiasi obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica amministrazione. Il che li rende maggiormente tutelati rispetto a un titolo che promette semplicemente di essere rimborsato in euro (senza ulteriori possibili utilizzi).

E’ un paradosso che questi strumenti siano in corso di valutazione, e almeno in alcuni casi anche di introduzione, da parte di un governo pro-UE. Ma non mi stupisce: ho sempre pensato – e la proposta CCF nasce appunto da questa riflessione – che la rottura dell’euro sia troppo complessa e controversa, sul piano tanto operativo quanto politico, per avere significative possibilità di essere realizzata.

In altri termini, dubito che esistano le condizioni per vincere un confronto “muro contro muro” con la UE e con l’eurosistema.

C’è invece la possibilità di adottare una posizione di “fermezza costruttiva”: abbiamo identificato che cosa non funziona, ma sappiamo anche come correggerlo, senza passare tramite una deflagrazione. E lo faremo.

E senza passare tramite strumenti – il MES, il Recovery Fund – da cui (si è capito benissimo) non arriverà nulla di concreto, se non spiccioli con vincoli e condizionamenti che produrranno più danni di quanto possano valere gli (eventuali) benefici finanziari.

La “fermezza costruttiva” verrà adottata – si spera - in misura adeguata proprio perché i paurosi effetti economici della crisi sanitaria non possono, altrimenti, essere superati.

La “fermezza costruttiva” è quella che è mancata alla Lega nel periodo del governo gialloverde.

La Lega, di conseguenza, si è mosso in modo ambiguo e confuso (o percepito all’esterno come tale: ma è quello che conta).

Claudio Borghi, per esempio, ha lasciato intendere (prima delle elezioni del marzo 2018) che i Minibot (una forma di moneta fiscale) fossero un passo verso la rottura dell’euro. Poi (maggio 2019) la proposta è venuto alla luce ma è stata presentata come un mezzo per rimborsare i crediti verso fornitori della Pubblica Amministrazione, tra l’altro con un limite di 25.000 euro a posizione.

Era evidente che posta così la proposta Minibot risolveva poco o nulla, il che lasciava supporre che fosse un passo verso qualcos’altro. Troppo facile, a quel punto, spararle contro: “la Lega prepara il break-up”.

Le valenze di un programma di emissioni fiat, come i CCF, sono di ben altra portata. Si crea potere d’acquisto supplementare e lo si distribuisce; non ci si limita ad anticipare (una tantum, tra l’altro) l’effetto finanziario del pagamento di crediti già esistenti.

E nello stesso tempo, il progetto CCF spiega dettagliatamente come le disfunzioni dell’euro ne risultino superate, senza passare tramite la deflagrazione del sistema.

Preferireste lasciarvi completamente l’euro alle spalle ? le preferenze sono una cosa, la costruzione del consenso politico è un’altra e deve tener conto degli interessi in gioco e delle oggettive difficoltà tecniche.

Se no si fa battage mediatico, che magari ha la sua funzione, magari aiuta a prendere voti in campagna elettorale, ma di per sé non risolve nessun problema.


sabato 23 maggio 2020

"Trovare i soldi per ripartire": il video

Videodibattito su CCF, sentenza della Corte Costituzionale tedesca, e altri temi connessi.

Organizzato da Sottosopra, il 9 maggio 2020.

Con Pino Cabras, Marco Cattaneo, Andrea de Bertoldi, Stefano Fassina, "Musso" e Alessandro Somma.

Moderato da Rosanna Maniscalco.

Qui il video.

domenica 17 maggio 2020

Moneta Fiscale e imprese predatorie


Un interessante commento di Marcello Spanò invita a riflettere su temi di grande importanza e merita quindi una replica (spero) convincente.

Così Marcello:

“In uno dei confronti video organizzati da Sottosopra, Stefano Fassina avanzava perplessità sulla proposta di Moneta Fiscale perché, a suo dire, lo strumento andrebbe a sostituirsi ai pagamenti in moneta legale, causando una penalizzazione a chi riceverebbe MF in luogo di euro. Marco Cattaneo e Pino Cabras gli replicavano che la MF non sostituisce pagamenti in euro, ma è uno stanziamento aggiuntivo destinato a finanziare lavoro o investimenti per i quali, senza MF, non esisterebbe domanda.

Io credo che i proponenti della MF abbiano assolutamente ragione in teoria, tuttavia Fassina rischia di averla in pratica.

Basta guardare ai comportamenti predatori che le imprese stanno attuando già adesso. Lo Stato ha stanziato, per aiutare i lavoratori autonomi sotto un certo reddito, un contributo di 600 euro. Molti di questi sono in effetti autonomi a monocommittente, cioè all’atto pratico finti autonomi, dipendenti senza adeguato inquadramento contrattuale. Ebbene, i datori di lavoro in vari casi non si sono fatte problemi a tagliare i compensi dell’esatto ammontare del sussidio pubblico.

Idem per i dipendenti che hanno avuto un’estensione della cassa integrazione a causa del Coronavirus. Le imprese li hanno obbligati a continuare a lavorare dichiarando di essere in cassa integrazione, scaricando sullo Stato il costo del lavoro.

Il mondo delle imprese si arroga ormai da decenni il diritto di avvantaggiarsi dei propri lavoratori con atti di prepotenza senza alcun rischio di sanzione. E’ troppa la paura di perdere il posto di lavoro per pensare di denunciarli.

Il mercato del lavoro è stato ridotto in poltiglia da decenni di “riforme strutturali” che anziché renderle più competitive le hanno rese più voraci, generando una finta competitività da pataccari, costruita sui costi al ribasso e non sulla qualità.

Se verrà introdotta, come sarebbe bene, la Moneta Fiscale, mi aspetto un esercito di imprese che dichiareranno stati di necessità e licenzieranno lavoratori (o non richiederanno più i servizi degli autonomi) “a meno che” lo Stato non accetti di erogare MF “aggiuntiva” per sostituire pagamenti in euro che il datore di lavoro non effettuerà più.”

I temi che pone Marcello sono più che rilevanti. Tuttavia, per quanto possano predatori i comportamenti delle imprese – almeno di alcune – c’è un punto  fondamentale da mettere in evidenza. I 600 euro o simili vengono erogati, in questo periodo, a fronte di reddito che non viene prodotto a causa della crisi sanitaria. Evitano in qualche misura a chi li percepisce di subire una caduta di potere d’acquisto, ma non spingono a incrementare la produzione (in questo momento è impossibile) né, di conseguenza, a competere per offrire migliori condizioni ai dipendenti.

La MF al contrario accresce la domanda totale di beni e servizi. Questo spinge le aziende ad assorbire manodopera disoccupata, o sottoccupata, accrescendo la forza contrattuale dei lavoratori.

I salari quindi salgono, e le aziende fanno profitti grazie al maggiore utilizzo della propria capacità produttiva, non grazie alla compressione salariale. Se non fosse così, nessuna azione di stimolo alla domanda, di deficit spending, funzionerebbe.

Parecchi (non tutti i) datori di lavoro sono predatori e scorretti. Ma non lo sono diventati maggiormente negli ultimi decenni perché la loro natura o la loro etica è peggiorata. Lo sono diventati perché le politiche di compressione della domanda, di austerità, introdotte in Italia prima per entrare nella moneta unica, e poi per restarci, hanno enormemente indebolito la possibilità dei lavoratori di negoziare condizioni più favorevoli.

E nello stesso tempo, in un contesto di domanda perennemente debole, la ricerca della competitività sul prezzo e della compressione di salari e diritti è diventata una delle poche strategie di sopravvivenza per molte aziende.

I datori di lavoro non sono diventanti più scorretti e più cinici. Diversi di loro lo sono oggi, ma né più né meno rispetto agli anni del boom economico e della crescita salariale – nel cinquantennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

I datori di lavoro reagiscono a incentivi, e si muovono in un contesto di forza negoziale più o meno a loro favorevole. Lo stesso vale per i lavoratori.

La Moneta Fiscale consente di uscire da questo circolo vizioso non perché inietta bontà nell’animo umano, né in quanto elimina il cinismo di alcuni individui. Lo consente perché stimola la domanda, rende più forte la posizione dei lavoratori, e spinge gli imprenditori a sfruttare le opportunità date dalla crescita economica.

Non mi faccio illusioni, né ho suggerimenti da dare, su come migliorare la natura umana. Ma so che i comportamenti sono in larghissima misura influenzati dalle condizioni esterne. E se è vero che nell’ultimo quarto di secolo le condizioni sono diventate pesantemente negative per i lavoratori, e quindi per la grande maggioranza della popolazione, è anche vero che invertire la tendenza è possibile, intervenendo in modo appropriato su ben precisi meccanismi di funzionamento e di governo dell’economia.

E’ possibile, è avvenuto in passato, può accadere di nuovo, e il Progetto Moneta Fiscale lo consente.


giovedì 14 maggio 2020

L’equivoco dei CCF “che portano alla rottura”


Certificati di Compensazione Fiscale non nascono per rompere l’euro. Nascono per risolverne le gravissime disfunzioni.

Esitare a introdurre i CCF nel timore che “sarebbero visti come un passo prodromico all’uscita” non ha senso. Chi lo dice non ha compreso la proposta (a meno che la sua posizione non sia totalmente pretestuosa).

Dalla UE, mettiamolo in chiaro, non arriverà mai alcun sostegno finanziario. Al massimo complicate partite di giro – il MES, il SURE, il Recovery Fund se mai decollerà – con l’implicazione di sottoporsi a vincoli e condizionamenti per usare soldi che dobbiamo comunque, in un modo o nell’altro, mettere o garantire noi.

I paesi nord-eurozonici non vogliono “pagare per l’Italia” e dicono che noi, in effetti, i soldi li abbiamo. Il che per la verità è un dato di fatto: l’Italia ha un notevolissimo surplus commerciale e la sua posizione patrimoniale sull’estero (NIIP) è gradualmente migliorata in questi anni, portandosi a inizio 2020 in territorio positivo.

L’Italia sconta soltanto la catastrofica decisione di aver convertito un debito in moneta propria – un non-debito, in effetti: depositi presso il Tesoro, garantiti dalla potestà di emissione monetaria dello Stato italiano – in un debito in moneta straniera (l’euro). In una moneta, quindi, che non possiamo emettere e che è troppo forte per i fondamentali della nostra economia.

La soluzione è emettere un titolo – i CCF – il cui valore è garantito dalla sua utilizzabilità a fini fiscali. L’unica condizione perché ne sia assicurato il valore è che le quantità in circolazione siano una frazione degli incassi lordi annui della pubblica amministrazione.

Ai mercati si spiegherà che il rapporto debito pubblico / PIL (dove il debito pubblico è quello da pagare in euro, che non comprende ovviamente i CCF) si ridurrà costantemente rispetto ai livelli di fine 2020. E questo sarà possibile grazie al recupero dell’economia al termine dell’emergenza sanitaria, e alle azioni espansive che i CCF consentono di effettuare.

Alla UE non si chiede nulla. Alla BCE, soltanto di riaffermare il principio di “evitare frammentazioni della zona euro”, che peraltro è uno dei suoi compiti essenziali, anzi esistenziali.

Su questi presupposti, lo spread calerà a livelli prossimi a zero.

Tutto questo è assolutamente possibile. L’Italia deve solo uscire dalla mentalità di passività e subordinazione. Le soluzioni NON arrivano dall’esterno. Le abbiamo in casa, e si tratta solo di applicarle.


mercoledì 6 maggio 2020

Karlsruhe: una possibile conseguenza


Ancora in merito alla sentenza della Corte Costituzionale tedesca, che ieri ha colto molti di sorpresa (me incluso).

Mi pare evidente che la BCE non può minimamente accettare una delle richieste formulate dai giudici di Karlsruhe: fornire “giustificazioni” in merito alla “proporzionalità”, quindi all’adeguatezza, delle decisioni da lei (BCE) assunte, compresi ovviamente i programmi di Quantitative Easing.

Più o meno educatamente, la risposta non può che essere “scusa, ma tu chi sei e che cosa vuoi da me ? hai già parlato con la Corte Europea di Giustizia e ti ha detto che è tutto conforme ai trattati. Qui finisce il mio latino" (come dicono in Germania, appunto…).

Di fronte a una reazione del genere, che cosa può fare la Corte di Karlsruhe ?

Può diffidare la Bundesbank dal partecipare ai programmi di QE, in quanto non conformi alla costituzione tedesca.

La mancata partecipazione della Bundesbank comporterebbe, credo, l’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti della Germania. Ma questo è secondario.

Il punto chiave invece è: la mancata partecipazione della Bundesbank blocca i programmi di QE ? no, perché potrebbe semplicemente succedere quanto segue.

I programmi sono strutturati in modo che il 20% degli acquisti venga effettuato dalla BCE. Il restante 80%, dalle singole banche centrali: ognuna compra i titoli del suo paese. Banca d’Italia compra BTP, Banca di Spagna compra Bonos, Banca di Francia compra OAT, eccetera.

Le singole banche centrali in effetti finanziano gli acquisti emettendo euro. Perché hanno facoltà di farlo: a fronte dell’emissione si incrementa il passivo Target2 nei confronti della BCE.

Aumenta di conseguenza la quantità di euro in circolazione, e questi euro hanno corso legale in tutta l’eurozona.

E’ questo che ai tedeschi non piace: soggetti esteri stampano una moneta che è (anche) la loro, in misura totalmente non proporzionale rispetto alle dimensioni delle rispettive economie. Il che, nella loro testa, finisce per trasformarsi in un eccesso di moneta in circolazione. Con impatti inflazionistici, soprattutto se la moneta finisce per riversarsi in Germania.

A questo punto, sta ai tedeschi decidere se questa situazione è accettabile o meno. E se non lo è, però, la conseguenza è la loro uscita dall’Eurozona.

A ben vedere, tutto questo non è così differente da quanto accade già oggi. Gli acquisti nell’ambito dei programmi di QE in essere sono ormai nettamente sproporzionati, rispetto sia alle dimensioni delle varie economie sia alle quote di partecipazione delle varie banche centrali nel capitale della BCE.

Altrimenti detto, già oggi il sistema delle banche centrali europee sta comprando molti BTP, OAT e Bonos e (in proporzione) pochi Bund.

Resta da capire se la Germania, di fronte a tutto questo, effettuerà il passo finale: staccare la spina e isolarsi, quindi uscire dall’Eurozona.

E’ uno scenario che ancora non considero altamente probabile.

Però non consideravo per niente probabile, come ho detto, neanche la sentenza di ieri…


martedì 5 maggio 2020

La sentenza della Corte Costituzionale tedesca


Molto onestamente, dalla sentenza odierna della Corte Costituzionale tedesca non mi aspettavo nulla se non un ulteriore calcio in avanti al barattolo, secondo le migliori tradizioni dell’Eurocrisi e di ciò che gli ruota attorno.

Ne è uscito invece qualcosa di molto più significativo. Nelle parole di Henrik Enderlein, direttore del Jacques Delors Center di Berlino: “In termini non legali, il messaggio principale è forte: il “whatever it takes” non è coperto dalla Costituzione tedesca. Ci sono dei chiari limiti costituzionali e la BCE è andata oltre le sue competenze (“ultra vires”)”.

Se vi sembra poco, ricordo che il “whatever it takes” è l’unica cosa che ha evitato lo sfaldamento dell’euro nel 2012. Senza, l’euro è finito.

In pratica la sentenza della Corte tedesca significa che la Germania ha un piede fuori dall’euro.

Non so se metterà fuori anche l’altro. So però che se mai fosse stato necessario un motivo in più per affermare che il progetto MF / CCF è urgentissimo anzi imprescindibile, la sentenza della Corte tedesca è precisamente quel motivo.

Aggiungo una considerazione in risposta ai molti che commentano “ma perché in Germania prevale quello che dice la Corte Costituzionale tedesca, e negli altri paesi invece non si possono porre in questione i trattati UE e le decisioni della Corte di Giustizia Europea” ?

La risposta è semplicemente che la Corte tedesca fa il suo mestiere e le altre no. Se un cittadino italiano agisse contro una decisione della UE o della BCE su un presupposto di incompatibilità con la Costituzione italiana, la nostra Corte semplicemente non lo prenderebbe in considerazione.

Quindi l’Italia è diversa dalla Germania ? nella forma no, nella pratica sì, ma la ragione è solo una.

La Corte Costituzionale italiana è imbottita di giudici di area PD.

Tutto qui.

sabato 2 maggio 2020

Finanziare la ripartenza


In assenza di fortissime immissioni di liquidità a fondo perduto, molte attività economiche rischiano (terminata l’emergenza Coronavirus) di non ripartire, o di fallire subito dopo il tentativo di ripartenza.

Tenuto conto che (1) l’Italia non emette moneta propria (2) potrebbe iniziare a emettere Moneta Fiscale / CCF, ma il consenso politico per farlo non esiste ancora, e (3) i programmi di sostegno UE sono, ben che vada, specchietti per le allodole –

tenuto conto di tutto ciò, che cosa si può fare ?

Molto semplice: la possibilità che rimane allo Stato italiano è emettere grossi (anzi enormi, centinaia di miliardi) quantitativi di titoli di Stato tradizionali.

Le emissioni potrebbero anche essere strutturate in modo da incentivare, dal punto di vista dei tassi d’interesse e del trattamento fiscale, la sottoscrizione da parte di privati residenti italiani.

Una preoccupazione che ho sentito esprimere è che se quest’ultima azione avesse successo, i privati sottoscriverebbero i nuovi titoli prelevando liquidità anche e probabilmente soprattutto dai loro depositi bancari. Il che produrrebbe un buco nella raccolta degli istituti di credito.

Ma in effetti, questi soldi servirebbero a finanziare deficit pubblico, che si tradurrebbe in un’immediata crescita del risparmio privato e quindi dei depositi bancari.

Tutto questo, salvo che non ci siano deflussi di capitale all’estero. Anche in quel caso però esiste un fattore di compensazione: l’incremento del saldo passivo Target2 della Banca d’Italia nei confronti della BCE.

Va anche tenuto conto che, come spiegavo qui, e come ha “scoperto” all’improvviso Standard & Poor’s (nel motivare la sua recente decisione di mantenere invariato il rating della Repubblica Italiana) il nostro paese genera un rilevantissimo (e crescente) surplus commerciale. E in questi mesi è diventato creditore netto verso l’estero (NIIP positiva).

Ed è probabile che il surplus commerciale nel 2020 aumenti, perché la caduta della domanda interna e quindi delle importazioni sarà maggiore di quella dell’export, per due motivi: le restrizioni adottate in Italia durante la fase critica del Coronavirus (in forma può accentuata rispetto a pressoché tutti gli altri paesi); e il crollo del prezzo del petrolio.