lunedì 29 maggio 2017

Un equivoco da chiarire su svalutazione e inflazione


In questo post, tra i più letti del blog, avevo spiegato perché non c’è nesso tra svalutazione e inflazione, nel senso che una svalutazione non produce necessariamente maggiore inflazione futura, e sicuramente non nello stesso ordine di grandezza.

Se svaluto del 20%, in altri termini, non mi devo attendere un’inflazione del 20%.

La ragione è che non può verificarsi una forte crescita dei prezzi se non esiste un consistente incremento della domanda di beni e servizi, che la porti al di sopra della capacità produttiva del sistema economico.

La svalutazione incrementa il costo dei beni e dei servizi importati, ma non la domanda interna del paese che svaluta. L’incremento di costi si traduce quindi molto più in calo di margini degli operatori domestici che trasformano e/o rivendono beni e servizi importati, che in inflazione.

E tutto questo senza neanche tener conto di alcuni altri fatti rilevanti:

UNO, le importazioni sono solo una parte dei costi produttivi – in Italia ad esempio il rapporto import / PIL incide per il 26-27% circa.

DUE, l’incremento di costo dei beni importati spinge a sostituire importazioni con produzioni interne (da un lato) e, da parte degli importatori, a ridurre i loro prezzi di vendita in moneta straniera per non perdere mercato (dall’altro) – quindi a non far subire all’acquirente tutto l’importo della svalutazione.

La svalutazione comporta quindi un incremento di inflazione interna (il cosiddetto pass-through) molto inferiore all’importo percentuale della svalutazione medesima.

Il pass-through tende in effetti a zero quando il paese che svaluta si trova in situazione di domanda depressa, con disoccupazione elevata e forte livello di capacità produttiva inutilizzata: in questa situazione è particolarmente difficile, infatti, ottenere incrementi nei prezzi di vendita, e anche il tentativo di giustificarli con la svalutazione e i maggiori costi per importazioni non porta lontano.

Detto ciò, dove sta l’equivoco ? spesso mi viene domandato “se è così, perché nel tempo le differenze di inflazione tendono a riflettersi in svalutazione per percentuali simili ? la Germania ha avuto tassi d'inflazione medi più bassi degli altri principali paesi occidentali, e il marco si è sistematicamente rivalutato rispetto alle altre valute”.

Questo è vero, ma le considerazioni sopra esposte si riferiscono a quello che succede dal momento della svalutazione in poi. Il paese che svaluta non subisce impatti inflattivi corrispondenti all’entità della svalutazione. Ma svaluta perché ha avuto più inflazione prima, e la svalutazione compensa quindi una differenza che si è formata in precedenza.

Quindi, se a parità di crescita della produttività Topolinia ha un 2% di inflazione medio in più di Paperopoli (3% contro 1%), mi posso aspettare che il Topotallero perda mediamente un 2% all’anno nel cambio contro il Papefiorino. E se il Topotallero entra in un accordo di cambi fissi con il Papefiorino e dopo cinque anni il cambio fisso salta, ci si può attendere una svalutazione una tantum del 10% circa.

Ma questo compensa quanto è avvenuto in passato. In futuro l’inflazione a Topolinia non crescerà dal 3% al 13%. L’impatto sarà molto minore e di breve termine. Magari un punto o due per un anno, dipende da vari fattori e principalmente dal livello di domanda interna e di saturazione delle risorse produttive di Topolinia. Ma parliamo comunque di un aggiustamento transitorio e molto inferiore all’entità della svalutazione.

E per il periodo successivo alla svalutazione, passato l’effetto di breve termine, ci si può aspettare che la differenza di inflazione tra Topolinia e Paperopoli sia all’incirca il 2%: come prima.

giovedì 25 maggio 2017

Italexit ed evoluzioni del quadro politico tedesco


Non ho cambiato idea: continuo a ritenere che il percorso Moneta Fiscale / CCF sia uno scenario molto più probabile e meno complesso, per la soluzione dell’Eurocrisi, rispetto a quello di break-up.

Questa valutazione potrebbe però in larga misura modificarsi se diventasse plausibile un’ipotesi di break-up concordato. Ora come ora, il livello di probabilità è basso.

Però non è zero, e un fattore da non trascurare è che il partito liberale tedesco – la FDP – è in crescita di consensi, e ha nel suo programma elettorale l’applicazione di sanzioni automatiche in caso di mancato rispetto dei vincoli di bilancio UE da parte di singoli paesi, l’introduzione di un meccanismo di ristrutturazione dei debiti pubblici e, contemporaneamente, la possibilità per singoli stati membri di uscire dall’Eurozona (senza che questo di per sé comporti la fuoriuscita dalla UE).

Una proposta come questa può essere considerata l’applicazione della “linea Schaeuble”. E per quanto il ministro delle finanze tedesco non sia al vertice delle mie simpatie, quantomeno ne va riconosciuta la coerenza.

Altrimenti detto: se non rispetti i vincoli di bilancio non puoi contare sul fatto che il tuo debito pubblico venga garantito dalla BCE, quindi occorre un meccanismo di ristrutturazione del debito. E la forma di ristrutturazione di gran lunga meno onerosa, in grado anzi di produrre la ripresa economica del paese ristrutturante, è ridenominare il debito in moneta nazionale – quindi uscire dall’Eurozona e svalutare.

L’onere della ridenominazione in questo scenario pesa sostanzialmente sui creditori esteri. Sui detentori nazionali di titoli di Stato no, se non nella misura in cui la svalutazione aumenta l’inflazione domestica. E dati gli altissimi livelli di output gap, l’Italia, in particolare, avrebbe ampi spazi sia per recuperare competitività che per rilanciare la propria domanda interna, con effetti modesti o nulli sull'inflazione.

In uno scenario di break-up, è plausibile che verrebbe richiesto ai paesi con saldi Target2 negativi di rimborsarli in euro (senza beneficiare quindi della conversione in moneta nazionale).

Di questa eventualità si è discusso qui, arrivando alla conclusione che non è, per l’Italia, un problema insormontabile.

Un elemento di riflessione in più, che aiuta a capire come il tema potrebbe essere gestito, deriva dalla constatazione che i saldi negativi Target2 di Bankitalia nei confronti della BCE sono parte della cosiddetta Net International Investment Position (NIIP), che è la differenza tra le attività estere possedute da residenti italiani, e le attività italiane detenute da soggetti esteri.

La NIIP, in altri termini, è (se negativa) l’ammontare di risorse patrimoniali nette di cui l’Italia è in “debito” (tra virgolette perché sono incluse anche partecipazioni azionarie e diritti patrimoniali di vario genere, non solo i crediti propriamente detti) verso l’estero.

Ora, la NIIP italiana è negativa, ma per un ammontare in effetti modesto: 250 miliardi a fine 2016, pari al 15% circa del PIL. E la situazione è in costante miglioramento, perché il saldo delle partite correnti italiane è positivo per circa 50 miliardi annui (che corrisponde anche al livello del surplus commerciale). Tanto è vero che a metà del 2014 il rapporto NIIP / PIL era negativo per il 27% - ha quindi recuperato dodici punti percentuali in due anni e mezzo.

Rimborsare in euro i 358 miliardi di saldo negativo Target2 (dato a fine 2016) significa, nell’ipotesi (prudenziale) di una svalutazione del 30% della Nuova Lira nei confronti dell’euro, peggiorare la NIIP di poco più di 100 miliardi e innalzarla dal 15% al 21% del PIL: livello comunque tutt’altro che alto (la Spagna è negativa per il 100% circa, ad esempio) e che riprenderebbe comunque rapidamente a scendere grazie ai surplus commerciali che l’Italia sta continuando a produrre.

L’unica cosa di cui preoccuparsi, in questo scenario, è negoziare un accordo con i partner dell’Eurozona tale per cui il rimborso dei Target2 non avvenga istantaneamente (cosa del resto impossibile) ma, ad esempio, nell’arco di un paio d’anni.

Si delinea quindi uno scenario di Italexit concordata. Quanto è probabile che, sul piano politico, ci si arrivi ?

Al momento non molto. Però le probabilità aumenteranno se le elezioni tedesche del prossimo settembre produrranno una maggioranza parlamentare per una coalizione CDU-CSU (al momento vicina al 40% nei sondaggi) con FDP (indicata oggi a poco meno del 10%). Numericamente, quindi, la possibilità esiste.

Naturalmente occorre anche ricordare che quanto sopra delineato potrebbe essere la posizione dei liberali e dell’ala “schaeubliana” della CDU-CSU, non necessariamente di quella “merkeliana”.

Per cui il mio suggerimento, molto semplicemente, è: teniamo d’occhio il quadro politico tedesco, ma soprattutto ricordiamo che l’Italia non ha bisogno di tutto questo, se al governo (italiano) si forma una maggioranza con le idee chiare e con la determinazione necessaria ad attuare il progetto Moneta Fiscale / CCF. Che è attuabile, e senza chiedere o aspettarsi nulla né da Berlino, né da Bruxelles, né da Francoforte…


domenica 21 maggio 2017

Deficit e debito pubblico: alcune verità

Molte delle quali controintuitive.

UNO: Il deficit pubblico è l’eccedenza della spesa governativa rispetto agli incassi.

DUE: E’ un dato di fatto contabile che, se il settore pubblico nazionale spende più di quello che incassa, il totale degli operatori economici al di fuori di esso incassa più di quanto spende.

TRE: Quindi se il settore pubblico nazionale è in deficit, si crea un accumulo di risparmio per pari importo in capo o al settore privato nazionale, o al settore estero.

QUATTRO: A fronte del deficit pubblico, se i conti con l’estero non sono passivi – e quelli dell'Italia oggi non lo sono, anzi – non si formerà risparmio netto nel settore estero. Dovrà invece formarsi, inevitabilmente, risparmio nel settore privato nazionale.

CINQUE: Se l’economia si trova in condizioni di pieno utilizzo delle sue risorse produttive, immettere ulteriore potere d’acquisto nel sistema economico crea inflazione. In queste condizioni, maggiori deficit pubblici aumentano il livello dei prezzi: di conseguenza si crea risparmio privato in termini monetari, ma non necessariamente in termini reali, perché il valore del risparmio privato viene eroso dall’inflazione.

SEI: Se invece nell’economia c’è un forte livello di risorse produttive inutilizzate, l’immissione di potere d’acquisto non è inflazionistica: la produzione aumenta di pari passo con la domanda, senza tensioni sui prezzi. Il risparmio privato quindi aumenta in termini sia nominali che reali.

SETTE: Il potere d’acquisto immesso nell’economia tramite il deficit pubblico potrebbe assumere la forma di un’emissione di moneta da parte dello Stato, per coprire la differenza tra spese e incassi.

OTTO: Tuttavia gli Stati hanno delegato alle banche centrali la facoltà di emettere moneta. Finanziano quindi l’immissione di potere d’acquisto collocando titoli di debito pubblico.

NOVE: Quest’ultimo passaggio non ha alcuna necessità logica. Lo Stato potrebbe emettere direttamente moneta. Il debito pubblico non esisterebbe. Lo Stato potrebbe casomai offrire ai cittadini che accumulano risparmio la possibilità di lasciarlo depositato in conti presso (per esempio) il Ministero dell’Economia, con scadenze e tassi d’interesse tali da fornire al depositante un’interessante opportunità d’investimento. Ma sarebbe un servizio proposto ai cittadini, non una necessità dello Stato per coprire le sue esigenze finanziarie.

DIECI: Chiamare debito il cosiddetto “debito pubblico”, e soprattutto considerarlo un problema, ha un senso solo se ed in quanto lo Stato non ha facoltà di emettere la moneta in cui è denominato il “debito” stesso, o comunque in quanto esiste il dubbio (più o meno remoto) che la banca centrale non garantisca la solvibilità dello Stato.


venerdì 19 maggio 2017

L’inflazionistica Italia, ma anche no

Tra i preconcetti duri a morire, più o meno alla pari con l'idea che l'Italia non possa crescere a causa del debito pubblico, c’è quello che la libertà di emettere moneta per attuare politiche di espansione della domanda sarebbe una sciagura perché “il nostro paese non sa gestire la moneta”, “ha politici sempre pronti a spendere”, quindi si trasformerebbe “in un paese con tassi d’inflazione sudamericani per non dire africani”, eccetera.

Non è chiaro da dove nascano queste convinzioni. Non dai dati, come è facile constatare con un minimo di analisi.

Prendendo in considerazione un quarantennio (41 anni per la precisione, il periodo dal 1956 al 1996 anno di partenza e anno d’arrivo inclusi) di dati relativi all’indice dei prezzi al consumo, si scopre che l’inflazione italiana, rispetto a quella di un gruppo di altre economie avanzate, ha registrato le seguenti medie.

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1956-1996
Germania             3,8%
Svizzera               3,9%
USA                    4,8%
Francia                6,1%
Svezia                  6,3%
Regno Unito        6,7%
Italia                    7,7%
Spagna                9,1%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        7,1%


Il motivo per cui l’analisi si ferma al 1996 è che dal 1997 si entra in “era-euro”: i tassi di cambio in quell’anno si sono assestati in modo definitivo, con scarti minimi, ai livelli in base ai quali le varie monete nazionali sono state poi convertite (appunto) in euro. Sono quindi rappresentativi del periodo in cui l’Italia aveva la sua moneta.

Nel 1997 si è deciso chi era dentro l’euro e chi era fuori, e a quali cambi, anche se i “cambi fissi irrevocabili” sono entrati formalmente in vigore solo il 1° gennaio 1999 (e l’euro come moneta fisica ha iniziato a circolare il 1° gennaio 2002). Dal 1997 nella sostanza, e dal 1999 anche nella forma, è in pratica finita (per sempre ? mah…) l’era dei riallineamenti valutari, quantomeno per i paesi che hanno aderito all’unione monetaria europea.

I dati medi appaiano molto alti in confronto alla situazione odierna, caratterizzata da tassi d’inflazione semimoribondi e addirittura dal rischio di cadere in deflazione.

In misura significativa, i dati sono peraltro influenzati dagli anni degli shock petroliferi, in particolare dal periodo 1973-1984, quando l’inflazione a due cifre affliggeva spesso e volentieri le principali economie industriali (non solo l’Italia). Infatti:

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1973-1984
Germania             4,8%
Svizzera               4,5%
USA                    7,9%
Francia                10,6%
Svezia                  9,7%
Regno Unito        12,5%
Italia                    15,7%
Spagna                15,8%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        12,2%


Se escludiamo quegli anni dal campione abbiamo:

Indice medio dei prezzi al consumo, periodo 1956-1996 escludendo 1973-1984
Germania             2,6%
Svizzera               2,9%
USA                    3,0%
Francia                4,0%
Svezia                  4,6%
Regno Unito        4,2%
Italia                    4,4%
Spagna                6,4%
Media Francia – Svezia – Regno Unito – Spagna        4,8%


E’ riportato anche (per i vari periodi) un dato medio relativo a un quartetto di paesi. Le due principali economie europee dopo la Germania – ovvero la Francia e il Regno Unito. Un paese scandinavo – la Svezia. E un paese latino, che peraltro non viene in genere ritenuto essere tra i più “disordinati” sotto il profilo della gestione monetaria – la Spagna.

Ora, rispetto a questo quartetto di paesi, l’inflazione media italiana è stata superiore di soli sei decimi di punto (7,7% contro 7,1%) nel quarantennio esaminato, e addirittura più bassa (4,4% contro 4,8%) escludendo l’anomalo periodo delle crisi petrolifere.

En passant, anomalo soprattutto perché le economie oggi sono (in termini relativi) meno manifatturiere e più orientate ai servizi, e quindi è molto improbabile che pressioni dal lato delle materie prime possano produrre una situazione simile a quella degli anni Settanta.

Il punto chiave, ad ogni modo, è che l’Italia mostra dati in linea con quelli di un quartetto di importanti economie europee – di cui tre centro-nordico-continentali e una sola latina.

L’Italia sta in questo gruppo, dal punto di vista delle tendenze storiche dell’inflazione. Non sta né in Sudamerica né in Africa. E’, assolutamente, un paese europeo occidentale, con tendenze, riguardo alla dinamiche dei prezzi, del tutto normali.

E tutto questo, senza bisogno dell’euro…


martedì 16 maggio 2017

La Moneta Fiscale come proposta politica


Quanta strada ha fatto il progetto Moneta Fiscale / CCF nel dibattito politico italiano ? spesso mi dicono “ancora troppo poca, non ne sento parlare sui media”.

Sarebbe quindi facile convincersi che il progetto come proposta politica non esiste. Ma i dati di fatto sono in realtà parecchio diversi.

Il M5S sta esaminando il suo inserimento nel programma economico per le prossime elezioni nazionali.

La Lega Nord propone i “Minibot fiscali”, di fatto una forma di Moneta Fiscale – con la differenza, indubbiamente importante, che sono concepiti come ponte verso l’Euroexit, non come soluzione per evitarla (risolvendone le disfunzioni).

E Berlusconi parla sistematicamente da mesi (occasionalmente anche da prima) di moneta parallela nazionale, sia pure senza chiarirne i dettagli.

La situazione è che quasi tutti i principali schieramenti politici italiani stanno ragionando sulla possibilità di introdurre una moneta nazionale parallela, sicuramente (M5S e Lega) o probabilmente (Forza Italia) con valenza fiscale – tutti tranne il PD, in effetti.

Sarebbe importante ottenere un maggiore rilievo mediatico ? vi sembrerà strano, ma non ne sono certo.

Si vincono le elezioni proponendo la Moneta Fiscale ? non lo so, perché la proposta – finché non viene attuata – non è affatto semplice da spiegare e da capire per la maggior parte dell’opinione pubblica. Non nei principi di base, ma nelle implicazioni.

In realtà è difficile da accettare anche per parecchi – troppi – “addetti ai lavori”, perché è qualcosa di molto innovativo per il grosso degli economisti mainstream (senza contare quelli che hanno interesse a non capire… ma questo è un altro discorso).

Certo, si sta dicendo a famiglie e aziende che verrà erogato potere d’acquisto (soldi, in pratica) senza contropartita. E certo, gli ottanta euro di Renzi sono stati (questa perlomeno è la convinzione generale) la chiave del suo successo alle elezioni europee del 2014.

Ma c’è una differenza fondamentale. Gli ottanta euro in busta sono arrivati a parecchi milioni di persone a fine aprile 2014, e a maggio si votava. Sono stati un segnale molto tangibile, quindi.

Chi ne sapeva qualcosa di più si rendeva conto che gli ottanta euro, in ossequio alle “ricette” UE, erano dati con una mano e ripresi con l'altra. Compensati da tagli e tasse per importi complessivi esattamente uguali, in altri termini.

Ma questo la maggior parte dei riceventi l’ha scoperto dopo. E va anche detto che almeno in parte i riceventi non erano le stesse persone che hanno poi subito una delle varie “azioni compensative”.

Gli ottanta euro sono stati una manovra di pura riallocazione, e non stupisce - anzi era assolutamente da prevedere - che non si sia, quindi, prodotta alcuna apprezzabile espansione di consumi e PIL.

Ma sono serviti a spostare la decisione di voto di molte persone che se li sono visti in busta paga, poche settimane prima delle elezioni.

L’erogazione di Moneta Fiscale (o sue varianti) potrà essere annunciata come intento prima delle elezioni da uno o più schieramenti politici, ma non potrà, evidentemente, essere attuata (salvo che lo faccia il governo su sollecitazione del PD, che però è l’unico partito di rilievo che non ne parla).

E se la annunci senza attuarla, susciti interesse, sicuramente dibattito, probabilmente (purtroppo) cagnara (“ma che roba è ? soldi del monopoli ? pizze di fango ?”) ma rischi di non spostare granché le decisioni di voto. Perché ancora non l’hai erogata: nessuno l’ha ancora toccata con mano, nessuno ne ha ancora percepito tangibilmente il valore.

Allora, mi preoccupa che l’interesse mediatico non sia per ora alto ? vorrei che se ne parlasse moltissimo in TV, in vista delle elezioni ?

Non ne sono sicuro. Vorrei che andasse al governo qualcuno che voglia attuare la Moneta Fiscale, e che immediatamente dopo essersi insediato lo faccia, coadiuvato da un gruppo di tecnici con le competenze necessarie. Questi sì da identificare prima.

Ma che sia un fattore chiave parlarne massicciamente in campagna elettorale, non lo so. Se qualcuno più competente di me in materia di comunicazione, politica e non, o comunque con le idee più chiare, mi fa sapere come la pensa, gli sono grato in anticipo.


domenica 14 maggio 2017

Gli equivoci sul debito pubblico


Uno dei grandi equivoci in merito alla situazione economica italiana è che l’elevato livello del debito pubblico renda impossibile effettuare azioni espansive, e che quindi l’Italia sia condannata a crescite asfittiche – che implicano il permanere di altissimi, inaccettabili livelli di disoccupazione, sottoccupazione, e disagio sociale – per un periodo di tempo indefinito.

In realtà l’Italia come paese ha una net international investment position – la differenza tra attività estere possedute da residenti italiani, e attività italiane possedute da stranieri, negativa, ma soltanto per il 15% del PIL (dati Bankitalia al 31.12.2016).

L’Italia non ha affatto livelli preoccupanti o anomali di debito verso l’estero, e la situazione è in costante miglioramento dato che i saldi commerciali esteri sono in forte surplus.

L’Italia è caratterizzata non da alti livelli di debito estero, ma da un elevato rapporto debito pubblico lordo / PIL – oltre il 130% a fine 2016. Debito pubblico, peraltro, per circa due terzi posseduto da residenti italiani. Senza contare che il risparmio privato interno è un multiplo (3-4 volte circa) del debito pubblico lordo.

Di tanto in tanto si leggono fantasiose ipotesi in merito a quanto sarebbe “semplice”, di conseguenza, “compensare” una parte del debito pubblico con una parte del risparmio privato. In pratica, mettere in atto una megapatrimoniale poniamo per l’importo del 30% del PIL – circa 500 miliardi – che abbatterebbe all’istante il debito pubblico lordo dal 130% al 100%.

Naturalmente una manovra di questo tipo provocherebbe un istantaneo collasso della già depressa domanda interna e una pesantissima ulteriore caduta del PIL. E la riduzione del rapporto NON sarebbe peraltro neanche utile a rilanciare successivamente la crescita, se non fosse poi possibile effettuare azioni di finanza pubblica espansiva: in altri termini, aumentare il debito subito dopo averlo tagliato (e aver fatto crollare il PIL…).

Tornando a riflessioni più serie, il debito pubblico italiano è un problema perché è denominato in una moneta controllata da un’entità terza, la BCE, che per la natura dell’Eurosistema non garantisce il debito pubblico degli Stati membri.

In tutti i paesi del mondo che emettono e gestiscono la propria moneta – tutti i paesi economicamente di un qualche rilievo Eurozona esclusa, in altri termini – la Banca Centrale Nazionale gode di livelli di autonomia più o meno elevata nei confronti delle autorità governative: ma nessuno pensa seriamente che negli USA, nel Regno Unito, in Svizzera, in Giappone, in Canada, la Banca Centrale consenta che lo Stato vada in default sul debito pubblico.

L’Eurozona è invece in una situazione diversa perché un’insolvenza si è già verificata – quella greca – e la probabilità che eventi del genere si ripetano ha di conseguenza un ordine di grandezza ben differente rispetto ai paesi che emettono e gestiscono la propria moneta.

L’Eurozona, si dice a volte, ha una situazione simile a quella degli USA, dove nessuno pensa seriamente a un’ipotesi di default sul debito federale, ma possono invece andare in insolvenza gli stati: la California nel 2009, per esempio.

Ma il contesto USA è totalmente diverso per un’altra ragione: il debito pubblico è quasi tutto federale. L’insolvenza di uno stato è quindi un problema di un ordine di gravità totalmente diverso rispetto all’Eurozona, dove i debiti pubblici sono invece tutti statali.

Tornando all’Italia, il vincolo all’effettuazione di manovre espansive è dovuto alla denominazione in moneta estera del debito pubblico, non al suo livello. Il Giappone, con un rapporto debito pubblico lordo / PIL del 230%, ma denominato in yen, non ha i problemi dell’Italia.

Questo non significa che se il debito pubblico italiano fosse rimasto in lire, si sarebbe potuto incrementarlo a livelli “grandi a piacere”. Immettere potere d’acquisto nell’economia, tramite spesa pubblica eccedente la tassazione, è utile fintantoché non si raggiungono adeguati livelli di occupazione e di utilizzo delle risorse produttive. Oltre, si crea inflazione invece di supportare l’espansione economica.

In buona sostanza, il debito pubblico in moneta propria se crea problemi li crea in conseguenza dell’aumento dell’inflazione, non del rischio di default.

L’odierna situazione italiana – inflazione troppo bassa e pesante sottoutilizzo delle risorse produttive – consente quindi, assolutamente, di effettuare azioni espansive purché non si incrementi il debito pubblico da rimborsare in euro. Azioni espansive condotte mediante erogazione di Moneta Fiscale, e non mediante emissione di debito in euro, rispondono perfettamente allo scopo.

L’alto livello di risparmio privato italiano, peraltro, può essere utilizzato per inserire nel progetto Moneta Fiscale un ulteriore livello di tutela e di solidità. Immaginiamo che in un anno futuro una situazione congiunturale sfavorevole crei uno sbilancio inatteso, tra entrate e uscite pubbliche, pari all’1% del PIL, che incrementerebbe quindi il debito da rimborsare in euro.

La situazione sarebbe tranquillamente gestibile con una manovra ben più morbida e sensata della (totalmente inverosimile) megapatrimoniale sopra descritta. Per esempio, mediante un’imposta straordinaria che raccolga l’1% del PIL (17 miliardi in base alle dimensioni del PIL odierne) dando però in cambio al contribuente Moneta Fiscale, magari sotto forma di CCF a scadenza medio-lunga, di valore sostanzialmente equivalente. Una forma di salvaguardia dei saldi di finanza pubblica, in pratica, sostanzialmente indolore e senza effetti recessivi.

venerdì 12 maggio 2017

La crisi di domanda dell'economia italiana


L’economia italiana soffre di un pesante deficit di domanda aggregata, che determina livelli di attività economica nettamente inferiori al potenziale produttivo del paese. Il confronto tra PIL 2007 (anno in cui è stato raggiunto il massimo storico di PIL reale) e 2016, disaggregati nelle loro principali macrocomponenti, lo rende evidente.


Confronto 2016 vs 2007 a euro costanti 2016
Dati 2007 riportati a potere d’acquisto 2016 sulla base del deflatore PIL – Fonti: ISTAT, MEF

2007
2016
Variazione
Variazione %
PIL
1.801
1.672
-129
-7,2%
Consumi
1.408
1.330
-78
-5,5%
Investimenti
389
284
-104
-26,8%
Domanda interna (C+I)
1.797
1.614
-183
-10,2%
Export
494
502
7
1,5%
Import
500
444
-57
-11,4%
Saldo commerc. estero
-6
+58


A nove anni di distanza, il PIL reale italiano è (nonostante il timidissimo recupero iniziato nel 2014) inferiore di circa 130 miliardi, pari a oltre il 7%. E la caduta è interamente dovuta al crollo della domanda interna: l’export è l’unica componente che evidenzia un segno positivo. Modesto fin che si vuole (+1,5% in nove anni) ma comunque un segno più.

Le importazioni sono cadute in misura simile e anzi un po’ più accentuata (-11,4%) rispetto alla domanda interna (-10,2%), il che ha portato il saldo commerciale estero da un leggero deficit (-6 miliardi) a una forte eccedenza (+58 miliardi). Il surplus italiano 2016 è stato in effetti il terzo al mondo per dimensione assoluta (dopo Germania e Cina) tra i paesi “trasformatori” (tra quelli, cioè, non significativamente dotati di materie prime e risorse naturali).

A volte si legge che questo andamento dell’economia italiana rifletterebbe lo scollamento tra aziende esportatrici, che hanno saputo vincere o quantomeno reggere la “sfida della globalizzazione”, e il resto del sistema produttivo, che non si sarebbe adeguato al nuovo contesto. Ma è una spiegazione che non tiene, appunto perché ancora più della domanda interna sono, come visto, crollate le importazioni: il che significa che nel complesso non si è verificato un fenomeno di perdita di quota nel mercato interno a vantaggio di importatori “globalizzati”, o comunque più efficienti. Molto più banalmente, il minor potere d’acquisto indotto prima dalla crisi finanziaria mondiale, e poi dall’euroausterità, ha fatto calare la domanda italiana di beni e servizi – a danno dei produttori italiani così come, in misura analoga e anzi leggermente più accentuata, degli stranieri.

E’ del tutto inverosimile che, se le aziende italiane vendono più di prima (poco, ma comunque di più) a San Francisco, a Shanghai o a Sidney, abbiano subito uno scadimento qualitativo o competitivo tale da produrre un calo a due cifre a Treviso, a Pesaro o a Cosenza. Si vende di meno in Italia perché, banalmente, girano meno soldi. Punto.

L’altro dato da evidenziare è che la discesa della domanda interna (-10,2%) risente di un calo dei consumi (-5,5%) ma ancora di più di un autentico crollo degli investimenti (-26,8%). Niente di sorprendente, perché la depressione della domanda crea pesantissimi disincentivi a investire: meno soldi per fare ricerca e aggiornamento tecnologico degli impianti, meno necessità di espandere la (fortemente sottoutilizzata) capacità produttiva. Ma quando si dice che le aziende italiane devono recuperare produttività e competitività – quanto vi sembra plausibile riuscirci in un sistema paese che investe in impianti e infrastrutture oltre 100 miliardi all’anno in meno rispetto al 2007 ?

Il recupero di un adeguato livello di circolazione interna di potere d’acquisto, e quindi di domanda, è imprescindibile per risolvere la crisi dell’economia italiana. La Moneta Fiscale permette di ottenerlo.

lunedì 8 maggio 2017

Le confusioni su Macron


Fino a qualche tempo fa, Wolfgang Munchau, editorialista del Financial Times, poteva essere considerato un moderato eurocritico. Moderato nei toni, ma comunque in dissenso riguardo alle politiche di governance economica dell’eurosistema – in particolare l’austerità e il Fiscal Compact.

Ultimamente però mi dà l’idea di strizzare sempre più l’occhio all’establishment, e il suo breve primo articolo di commento alla vittoria elettorale di Macron conferma l’impressione. E’ anche, peraltro, un articolo molto, ma molto confuso.

Il successo di Macron induce l’Eurozona e la UE alla speranza, dice il testo, perché esprime una chiara volontà di “stare nell’Eurozona, e riformare” invece di abbandonarla.

Questa è la scelta corretta, secondo Munchau, perché in definitiva la crescita economica francese dall’introduzione dell’euro in poi è stata – contrariamente a quanto spesso si crede – allineata a quella tedesca. Il problema per Munchau a questo punto è – udite udite - ridurre il debito pubblico, che ha raggiunto il 100% del PIL.

In realtà, se è vero che la Francia dal 1999 è cresciuta quanto la Germania (un po’ meno per la verità in termini di PIL pro capite) questo è dovuto al fatto (citato nell’articolo) che la crescita francese è stata più alta fino al 2008, e inferiore successivamente.

Quanto piaccia agli elettori la bassa crescita è dimostrato dal fatto che il governo Schroeder, autore delle “riforme Hartz” che hanno precarizzato il mercato del lavoro, avviato un processo di compressione salariale, e causato diversi anni di crescita scadente in Germania, nel 2005 ha perso le elezioni.

La Germania da lì in poi ha sfruttato il vantaggio competitivo dovuto al contenimento delle retribuzioni all’interno di un sistema di cambi fissi (il sistema Euro), generando enormi surplus commerciali. Ma questo ha messo in grave difficoltà il resto dell’Eurozona: difficoltà dalle quali l'uscita non è alle viste.

La Francia risente di questa situazione, e la percezione di debolezza e disagio economico è forte, tanto è vero che al primo turno l’elettorato si è spaccato quasi 50-50% tra candidati anti- e pro-establishment. Se Macron ha vinto nettamente il ballottaggio, è perché – com’era prevedibile – la grande maggioranza degli elettori della sinistra eurocritica che ha sostenuto Mélenchon al primo turno non si è sentita di votare l’estrema destra al secondo.

Ma il disagio economico-sociale in Francia rimane profondo. Ora, che cosa propone Macron “per risolverlo” ? Riforme del lavoro ancora più incisive per precarizzarlo e contenere i salari, e tagli di spesa pubblica in parte compensati da riduzioni d’imposte – ma solo in parte, per ridurre comunque il deficit pubblico. Quindi un consolidamento fiscale che Munchau definisce “mild”, moderato, ma sempre consolidamento fiscale è.

In realtà, se il disagio in Francia è (per quanto significativo) meno accentuato che in Italia, è proprio perché le dosi di austerità a cui i transalpini sono stati sottoposti fin qui sono state meno violente. Un maggior consolidamento fiscale in Francia, per quanto “mild”, è un passo nella direzione sbagliata, non certo una soluzione.

Occorre sempre ricordare due cose in merito al successo dell’economia tedesca: in primo luogo, che le politiche di compressione salariale hanno avuto successo (a prezzo peraltro della marginalizzazione e dello scadimento delle condizioni di vita di ampi segmenti di popolazione) solo perché la Germania ha generato enormi surplus commerciali. E una strategia in cui TUTTA l’Eurozona accelera la crescita accumulando enormi surplus esteri è, semplicemente, impossibile da realizzare (per il banale motivo che il surplus di qualcuno è il deficit di qualcun altro).

E in secondo luogo, che in Germania le riforme del governo Schroeder sono state quantomeno accompagnate da espansione fiscale (incremento dei deficit pubblici) negli anni in cui venivano messe in atto. Mentre oggi la Francia (e l’Italia) dovrebbero “riformare” e “consolidare” in contemporanea.

La vittoria elettorale di Macron non dà proprio nessuna speranza a chi si augura un sensato ed efficace processo di riforma che metta termine alla crisi dell’Eurozona. Salvo che non faccia cose molto, ma molto diverse rispetto a quanto affermato nel suo programma…


domenica 7 maggio 2017

Vienna, 17 maggio 2017

Ho l'abitudine di comunicare gli eventi a cui partecipo come relatore. Mi rendo conto che Vienna è leggermente fuori mano (per la maggioranza di chi mi legge, quantomeno...) ma chissà che qualcuno non sia già in zona, o voglia unire l'utile (di assistere al convegno) al dilettevole (di fare del turismo).

Vienna a detta di tutti è peraltro una bellissima città. Ci credo per fede non essendoci mai stato prima (e anche stavolta riuscirò a vedere ben poco, a parte la sala conferenze...).



venerdì 5 maggio 2017

Un consiglio agli amici europeisti


Dove gli europeisti sono definiti come coloro i quali coltivano il sogno dell’unità politica europea.

Gli Stati Uniti d’Europa possono essere qualcosa di molto bello o qualcosa di per niente bello. Ogni opinione è a priori legittima, trattandosi di un’istituzione che oggi non esiste.

Tuttavia, anche chi ritiene che si tratterebbe di una cosa meravigliosa, dovrebbe (ritengo) avere chiare in mente quali siano le condizioni politiche minime perché gli Stati Uniti d’Europa nascano.

E le condizioni politiche minime consistono nel desiderio, da parte di tutti gli stati membri dell’Unione Europea, di fondersi in un’unica entità statale. Con un parlamento comune, dotato di effettivi poteri legislativi, e con un governo centrale comune.

Questo significa totale cessione di sovranità politica.

Ora, c’è come minimo uno stato membro della UE – casualmente il più grande per popolazione ed economia – che non ha mai fatto mistero di quanto segue.

Perché la Germania entri a far parte degli Stati Uniti d’Europa, occorre una modifica costituzionale.

La modifica costituzionale deve essere approvata da un referendum popolare a livello nazionale.

Ed è peraltro noto che:

Le probabilità che un referendum simile venga vinto dai proponenti, in Germania, sono oggi sostanzialmente pari a zero.

Nel frattempo, la Corte Costituzionale tedesca ha inequivocabilmente stabilito che gli interessi nazionali predominano rispetto ai trattati UE. Il che corrisponde a dire che la Germania si sente perfettamente autorizzata a, e anzi in dovere di, non rispettarli in caso di conflitto con gli interessi tedeschi.

Dati questi presupposti, cari amici europeisti, la mia calda raccomandazione è:

Smettete di dire che certe cose nella UE non funzionano – un esempio a caso: la governance economica dell’Eurozona – ma che qualsiasi tipo di riforma deve essere “concordata” – per non creare ostacoli al processo di integrazione politica. Perché il processo di integrazione politica in effetti non è iniziato, e anzi non c’è alcuna certezza che inizi.

E inoltre: andate in Germania. A fare che cosa ? a promuovere un movimento di opinione che convinca la popolazione a votare a favore, in un futuro referendum di modifica costituzionale che autorizzi a cedere sovranità agli (ipoteticamente nascituri) Stati Uniti d’Europa.

E che, nel frattempo e anzi prima ancora (evidentemente è una condizione preliminare) convinca governo e parlamento tedesco a convocare il referendum.

Quando ci siete riusciti, tornate qui e diteci che la Germania è pronta a cedere sovranità, e quindi gli Stati Uniti d’Europa si possono fare – se sono d’accordo anche gli altri stati membri UE, ovviamente.

Nel frattempo, per cortesia, prendete atto che la situazione oggi è un’altra: se lo stato di maggiore dimensione vede la UE come uno strumento di perseguimento dei propri interessi nazionali, gli altri stati membri hanno il diritto e anche il dovere di fare lo stesso.

Sempre per fare un esempio a caso, adottando unilateralmente un’efficace riforma dell’Eurozona (peraltro compatibile con i trattati). Cosa perfettamente possibile.