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giovedì 25 maggio 2017

Italexit ed evoluzioni del quadro politico tedesco


Non ho cambiato idea: continuo a ritenere che il percorso Moneta Fiscale / CCF sia uno scenario molto più probabile e meno complesso, per la soluzione dell’Eurocrisi, rispetto a quello di break-up.

Questa valutazione potrebbe però in larga misura modificarsi se diventasse plausibile un’ipotesi di break-up concordato. Ora come ora, il livello di probabilità è basso.

Però non è zero, e un fattore da non trascurare è che il partito liberale tedesco – la FDP – è in crescita di consensi, e ha nel suo programma elettorale l’applicazione di sanzioni automatiche in caso di mancato rispetto dei vincoli di bilancio UE da parte di singoli paesi, l’introduzione di un meccanismo di ristrutturazione dei debiti pubblici e, contemporaneamente, la possibilità per singoli stati membri di uscire dall’Eurozona (senza che questo di per sé comporti la fuoriuscita dalla UE).

Una proposta come questa può essere considerata l’applicazione della “linea Schaeuble”. E per quanto il ministro delle finanze tedesco non sia al vertice delle mie simpatie, quantomeno ne va riconosciuta la coerenza.

Altrimenti detto: se non rispetti i vincoli di bilancio non puoi contare sul fatto che il tuo debito pubblico venga garantito dalla BCE, quindi occorre un meccanismo di ristrutturazione del debito. E la forma di ristrutturazione di gran lunga meno onerosa, in grado anzi di produrre la ripresa economica del paese ristrutturante, è ridenominare il debito in moneta nazionale – quindi uscire dall’Eurozona e svalutare.

L’onere della ridenominazione in questo scenario pesa sostanzialmente sui creditori esteri. Sui detentori nazionali di titoli di Stato no, se non nella misura in cui la svalutazione aumenta l’inflazione domestica. E dati gli altissimi livelli di output gap, l’Italia, in particolare, avrebbe ampi spazi sia per recuperare competitività che per rilanciare la propria domanda interna, con effetti modesti o nulli sull'inflazione.

In uno scenario di break-up, è plausibile che verrebbe richiesto ai paesi con saldi Target2 negativi di rimborsarli in euro (senza beneficiare quindi della conversione in moneta nazionale).

Di questa eventualità si è discusso qui, arrivando alla conclusione che non è, per l’Italia, un problema insormontabile.

Un elemento di riflessione in più, che aiuta a capire come il tema potrebbe essere gestito, deriva dalla constatazione che i saldi negativi Target2 di Bankitalia nei confronti della BCE sono parte della cosiddetta Net International Investment Position (NIIP), che è la differenza tra le attività estere possedute da residenti italiani, e le attività italiane detenute da soggetti esteri.

La NIIP, in altri termini, è (se negativa) l’ammontare di risorse patrimoniali nette di cui l’Italia è in “debito” (tra virgolette perché sono incluse anche partecipazioni azionarie e diritti patrimoniali di vario genere, non solo i crediti propriamente detti) verso l’estero.

Ora, la NIIP italiana è negativa, ma per un ammontare in effetti modesto: 250 miliardi a fine 2016, pari al 15% circa del PIL. E la situazione è in costante miglioramento, perché il saldo delle partite correnti italiane è positivo per circa 50 miliardi annui (che corrisponde anche al livello del surplus commerciale). Tanto è vero che a metà del 2014 il rapporto NIIP / PIL era negativo per il 27% - ha quindi recuperato dodici punti percentuali in due anni e mezzo.

Rimborsare in euro i 358 miliardi di saldo negativo Target2 (dato a fine 2016) significa, nell’ipotesi (prudenziale) di una svalutazione del 30% della Nuova Lira nei confronti dell’euro, peggiorare la NIIP di poco più di 100 miliardi e innalzarla dal 15% al 21% del PIL: livello comunque tutt’altro che alto (la Spagna è negativa per il 100% circa, ad esempio) e che riprenderebbe comunque rapidamente a scendere grazie ai surplus commerciali che l’Italia sta continuando a produrre.

L’unica cosa di cui preoccuparsi, in questo scenario, è negoziare un accordo con i partner dell’Eurozona tale per cui il rimborso dei Target2 non avvenga istantaneamente (cosa del resto impossibile) ma, ad esempio, nell’arco di un paio d’anni.

Si delinea quindi uno scenario di Italexit concordata. Quanto è probabile che, sul piano politico, ci si arrivi ?

Al momento non molto. Però le probabilità aumenteranno se le elezioni tedesche del prossimo settembre produrranno una maggioranza parlamentare per una coalizione CDU-CSU (al momento vicina al 40% nei sondaggi) con FDP (indicata oggi a poco meno del 10%). Numericamente, quindi, la possibilità esiste.

Naturalmente occorre anche ricordare che quanto sopra delineato potrebbe essere la posizione dei liberali e dell’ala “schaeubliana” della CDU-CSU, non necessariamente di quella “merkeliana”.

Per cui il mio suggerimento, molto semplicemente, è: teniamo d’occhio il quadro politico tedesco, ma soprattutto ricordiamo che l’Italia non ha bisogno di tutto questo, se al governo (italiano) si forma una maggioranza con le idee chiare e con la determinazione necessaria ad attuare il progetto Moneta Fiscale / CCF. Che è attuabile, e senza chiedere o aspettarsi nulla né da Berlino, né da Bruxelles, né da Francoforte…


domenica 19 marzo 2017

Rifinanziare il debito pubblico se torniamo alla lira

Obiezione frequente all’ipotesi di Italexit: l’Italia ha bisogno di emettere ogni anno, tra rifinanziamenti del debito in scadenza (soprattutto) e deficit pubblico, circa 400 miliardi di titoli del debito pubblico (a grandi cifre, 360 per i rifinanziamenti e 40 per il deficit). Come facciamo a emettere tutti questi titoli dopo essere usciti dall’euro e dopo aver convertito in Nuove Lire il debito esistente ?

Bene: una banca centrale sotto il controllo del ministero dell’economia – o meglio ancora, il ministero che si assume direttamente le funzioni di emittente – emetterà, appunto, tante Nuove Lire quante saranno necessarie.

E l’impatto inflattivo di 400 miliardi che arrivano di colpo nell’economia, non lo consideriamo ? Ragioniamoci: i titoli di debito pubblico giunti a scadenza erano risparmio. Se i possessori avessero avuto desiderio di spenderli, avrebbero potuto convertirli in moneta ed effettuare spese anche prima che i titoli scadessero. Non l’hanno fatto perché la loro intenzione era (appunto) detenere questi titoli come forma di risparmio, non spenderli.

Ne segue che i possessori di debito pubblico in scadenza avranno LORO il problema di trovare una forma di impiego del proprio risparmio. E niente di più facile, per il ministero dell’economia, che offrire conti di deposito a varie scadenze, con varie remunerazioni, completamente sicuri e garantiti perché sono soldi depositati presso il soggetto che emette la moneta.

Poi, per praticità, a questi conti di deposito associamo un titolo negoziabile… ed ecco rinato come per magia (?) il mercato dei titoli di Stato in Nuove Lire.

Oh, en passant, smettiamo di chiamarlo “debito pubblico”. Non è debito. E’ un servizio di gestione del risparmio offerto ai cittadini.

L’impatto inflattivo può casomai nascere da altri due canali.

Il primo è quello non dei rifinanziamenti (i 360 miliardi) ma del deficit: 40 miliardi, che se vogliamo – e lo vogliamo, perché abbiamo necessità di uscire da una crisi dovuta a carenza di domanda nell’economia reale – salirà per un paio d’anni, magari fino a 100.

Il deficit pubblico può essere inflazionistico perché aumenta il potere d’acquisto in circolazione e quindi la domanda di beni e servizi. Ma questo diventa un problema solo nel momento in cui si riassorbe la capacità produttiva inutilizzata, e quindi l’enorme disoccupazione e sottoccupazione, che affligge attualmente l’economia italiana.

In questo momento la maggiore immissione di potere d’acquisto si tradurrà, in modo assolutamente preponderante, in maggiore produzione e maggiore occupazione, non (se non marginalmente) in prezzi più alti. Poi, quando la disoccupazione dei fattori produttivi sarà calata, diminuirà anche la necessità di immettere potere d’acquisto nell’economia. E quindi diminuirà il deficit.

Che, sempre en passant (vedi sopra), occorre smettere di chiamare deficit. Una definizione appropriata è “regolazione del potere d’acquisto in circolazione” (se avete suggerimenti per qualcosa di più sintetico, ringrazio in anticipo !).

L’altro canale di potenziale inflazione è dovuto al fatto che circa un terzo del debito pubblico attuale è detenuto da investitori stranieri. Presumibilmente, per loro è importante la valuta di denominazione del titolo che possiedono. Erano interessati a titoli italiani in euro, non (o non necessariamente) a titoli italiani in Nuove Lire. Quindi nel momento in cui verranno rimborsati in Nuove Lire, le convertiranno in valuta estera per investirle in titoli non italiani.

E’ un problema ? produrrà una pressione al ribasso sul cambio della Nuova Lira. Ma questo in realtà è proprio ciò che serve per evitare che l’azione di espansione della domanda interna, che l’Italia ha necessità di effettuare, si disperda parzialmente in maggiori importazioni.

Un paio d’anni di Nuova Lira più debole di quanto i fondamentali dell’economia italiana giustificano non sarà affatto negativo. E ancora una volta non si tradurrà, se non marginalmente, in maggiore inflazione, perché non c'è equivalenza tra svalutazione e inflazione – soprattutto quando esiste (medesima argomentazione vista sopra) un forte sottoutilizzo dei fattori produttivi.

Poi, via via che si svilupperà e rafforzerà la ripresa economica e si constaterà che la Nuova Lira è (troppo) a buon mercato, i flussi sul mercato dei cambi torneranno positivi e l’eccesso di svalutazione (overshooting) rientrerà.

L’uscita dall’euro mediante break-up presenta problemi operativi (connessi soprattutto alla ridenominazione dei rapporti commerciali e finanziari in essere) e politici. Operativamente, l'affiancamento della Moneta Fiscale all'euro è senz’altro più semplice.

Ma il break-up non è ingestibile. E se è vero che esistono alcune complessità, non banali, è anche vero che il rifinanziamento del debito non è una di queste.