lunedì 24 giugno 2013

CCF: servirebbero negli USA ?


No ma anzi forse sì.
 
L’economia statunitense è in una situazione sicuramente meno problematica di quella italiana. Ma ben lontana dall’essere ottimale.
 
Gli effetti della crisi finanziaria nata negli USA nel 2008 si sono sovrapposti, prima di essere (se non in parte minore) superati, alla crisi dell’euro e dei debiti sovrani europei.
 
E’ possibile stimare il cosiddetto “output gap” di un sistema economico, il minor livello del PIL corrente rispetto al PIL potenziale del paese, nel modo seguente.
 
Sia per l’Italia che per gli USA, si confronta il PIL previsto 2013 con il dato 2007 incrementato di un “normale” tasso di sviluppo reale. Quest’ultimo parametro è presumibilmente più alto per gli USA che per l’Italia, in quanto la popolazione cresce più velocemente oltreoceano. Ho utilizzato un 2% annuo per gli USA e un 1,5% annuo per l’Italia. Sono tassi che prima del 2008 erano considerati conservativi.
 
I risultati sono i seguenti.


ITALIA - €
 
PIL a
 
Trend
 
Crescita PIL
 
 
Delta PIL
 
 
prezzi
Crescita
demo-
Effetto
potenziale
PIL
Output
potenziale
Differenza
Anno
PIL
2007
reale (**)
grafico
prezzi
(*)
potenziale
gap %
- effettivo
cumulata
2007
1.554
1.554
 
 
 
 
1.554
 
 
 
2008
1.575
1.535
-1,2%
0,4%
2,6%
1,5%
1.618
-2,7%
43
43
2009
1.520
1.451
-5,5%
0,4%
2,1%
1,5%
1.677
-9,4%
157
200
2010
1.553
1.478
1,9%
0,4%
0,3%
1,5%
1.707
-9,0%
154
355
2011
1.580
1.484
0,4%
0,4%
1,3%
1,5%
1.755
-10,0%
175
530
2012
1.566
1.450
-2,3%
0,4%
1,5%
1,5%
1.809
-13,4%
243
773
2013
1.559
1.423
-1,8%
0,4%
1,4%
1,5%
1.861
-16,2%
302
1.075
(*) Escluso effetto prezzi.
(**) Previsioni OCSE per il 2013.
 
 
 
 
USA - $
 
PIL a
 
Trend
 
Crescita PIL
 
 
Delta PIL
 
 
prezzi
Crescita
demo-
Effetto
potenziale
PIL
Output
potenziale
Differenza
Anno
PIL
2007
reale (**)
grafico
prezzi
(*)
potenziale
gap %
- effettivo
cumulata
2007
13.954
13.954
 
 
 
 
13.954
 
 
 
2008
14.302
13.912
-0,3%
0,9%
2,8%
2,0%
14.632
-2,3%
330
330
2009
13.983
13.481
-3,1%
0,9%
0,9%
2,0%
15.059
-7,1%
1.076
1.405
2010
14.505
13.804
2,4%
0,9%
1,3%
2,0%
15.559
-6,8%
1.055
2.460
2011
15.076
14.053
1,8%
0,9%
2,1%
2,0%
16.204
-7,0%
1.128
3.588
2012
15.685
14.362
2,2%
0,9%
1,8%
2,0%
16.825
-6,8%
1.140
4.728
2013
16.159
14.592
1,6%
0,9%
1,4%
2,0%
17.402
-7,1%
1.243
5.972
(*) Escluso effetto prezzi.
(**) Previsioni Morgan Stanley per il 2013.
 
 
 
 
Se per l’Italia il “buco” di PIL è pari al 16% e continua a crescere rapidamente, per gli USA si è assestato intorno al 7%. Che è molto meno peggio ma non può essere considerato ottimale: il PIL USA è inferiore per oltre 1.200 miliardi di dollari rispetto alle sue potenzialità.
 
Agli effetti della crisi finanziaria culminata nel fallimento Lehman, negli USA non si sono aggiunti i problemi dell’euro e delle feroci, controproducenti politiche di austerità con le quali le inefficienze del sistema monetario sono state “affrontate” (si fa per dire) in Europa.
 
Tuttavia l’economia USA non è ancora uscita dalla “trappola della liquidità”. La domanda rimane insufficiente rispetto a quanto necessario a mettere al lavoro le risorse non occupate.
 
Per recuperare 1.200 miliardi di dollari di “output gap”, occorre effettuare un intervento di sostegno della domanda, che può prendere varie forme: spesa pubblica, sovvenzioni alle classi sociali disagiate, riduzioni di imposte. La combinazione di questi interventi è evidentemente una scelta politica.
 
Sul piano strettamente tecnico-economico, un punto non secondario è in che misura gli interventi vanno direttamente a produrre spesa, e in che misura mettono invece soldi in mano ai privati (tramite sovvenzioni o riduzioni di imposte). Gli interventi del secondo tipo potrebbero infatti non alimentare per intero nuova spesa, traducendosi invece (in parte) in risparmio.
 
E’ tuttavia un problema meno significativo di come appare a prima vista se gli interventi di sostegno della spesa privata vanno a beneficio di segmenti di popolazione con poche disponibilità patrimoniali e bassi livelli di reddito. Queste persone destinerebbero alla spesa, in modo immediato e rapido, sostanzialmente la totalità dell’intervento che va a loro beneficio.
 
Quale importo dovrebbe avere l’azione di sostegno della domanda ? dipende dal cosiddetto “moltiplicatore keynesiano”. Un dollaro (o un euro) di sostegno si traduce in una crescita di PIL, partendo da livelli depressi, superiore a 1 perché rimette in modo una catena virtuosa. La maggior spesa alimenta la produzione, spinge le aziende ad aumentare l’occupazione, innalza la fiducia di consumatori e imprese il che incrementa ulteriormente la domanda, eccetera.
 
Una stima recentemente emersa da studi e analisi formulate tra gli altri dal capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, e dal Premio Nobel Paul Krugman, colloca il moltiplicatore keynesiano – nelle condizioni attuali – intorno a 1,3. L’intervento di sostegno della domanda negli USA dovrebbe quindi ammontare a circa 900 miliardi di dollari: grosso modo il 5,5% del PIL USA 2013.
 
Sarebbe anche utile se una parte dell’intervento fosse indirizzata alla riduzione del costo del lavoro, per evitare che ci sia una dispersione parziale degli effetti sotto forma di peggioramento della bilancia commerciale USA. Anche se, essendo gli USA un paese dotato di moneta sovrana e con un regime di cambio flessibile, la crescita di domanda e l’immissione di moneta nell’economia potrebbe indebolire il valore del dollaro, con un effetto compensativo.
 
Dove entrano in gioco i  Certificati di Credito Fiscale ? gli USA sono una nazione dotata di sovranità monetaria, quindi potrebbero semplicemente finanziare gli interventi di sostegno della domanda emettendo dollari.
 
I CCF – titoli utilizzabili per pagare imposte e per soddisfare qualsiasi forma di obbligazione finanziaria nei confronti del governo emittente – potrebbero però essere un’alternativa da considerare, negli USA, per superare vincoli di natura politica e legale.
 
La Federal Reserve agisce in modo indipendente dal governo e, a quanto ne so, non può essergli “ordinato” di emettere moneta, tantomeno per finanziare politiche di spesa o riduzioni di imposte.
 
Ed esiste negli USA un limite al livello totale di debito pubblico in circolazione. Limite che periodicamente viene innalzato; ma attualmente il partito democratico esprime il presidente, il partito repubblicano controlla il Congresso ed esiste un’impasse politico sull’innalzamento del tetto. C’è quindi un problema anche riguardo alla possibilità di finanziare con maggior debito l’incremento di sostegno alla spesa.
 
Immaginiamo invece di emettere Certificati di Credito Fiscale, utilizzabili dopo una scadenza prefissata – per esempio gli stessi due anni che propongo nel caso dell’Italia – e garantiti dal governo federale USA (garantiti nel senso che si impegna, illimitatamente, ad accettarli in pagamento di imposte o di qualsiasi altro impegno finanziario).
 
Questo non richiederebbe l’intervento della Federal Reserve e non innalzerebbe il debito pubblico. Se non in futuro, quando i CCF saranno utilizzati: ma a quel punto il PIL e le entrate fiscali USA saranno considerevolmente più alti.
 
In definitiva, i CCF potrebbero svolgere, sia negli USA che in Italia, un ruolo analogo: restituire ai governi nazionali l’autonomia monetaria che permette di aumentare il sostegno alla domanda, colmare l’”output gap” ed eliminare la disoccupazione di massa.