venerdì 28 settembre 2018

Convegno Sovranità Popolare: il video

Video del convegno tenuto a Roma lo scorso 21 settembre. Io intervengo da 1h12' a 1h39', e poi nel dibattito finale. Qui il link.

mercoledì 26 settembre 2018

Draghi e la stabilità macroeconomica


Pochi giorni fa, Mario Draghi ha (candidamente, mi viene da dire) ammesso che l’attuale struttura dell’Eurosistema è ben lontana dall’aver raggiunto una condizione di stabilità.

I passaggi chiave sono a mio avviso i seguenti.

“…we know that even sound economic policies are not always enough. Markets can at times overreact and penalise sovereigns, over and above what may be needed to restore a sustainable fiscal path.”

“The European Stability Mechanism cannot fully fill the gap, as it typically lead to procyclical fiscal tightening. So we need an additional fiscal instrument to provide stabilisation. There ought to be an instrument that complements monetary policy in delivering macroeconomic stability both at the euro area level and, crucially, in each of its member states”.

Tutto molto chiaro, e tutto noto a chi segue questo blog:

PRIMO, i mercati spesso sovrareagiscono, o semplicemente - nel breve termine - esprimono valutazioni che si rivelano poi scorrette: quindi lasciare nelle loro mani il giudizio sull’affidabilità creditizia degli Stati può rivelarsi disastroso.

SECONDO, strumenti di intervento quali l’ESM (ma anche l'OMT) spingono a “restrizioni fiscali procicliche”. Altrimenti detto, a fare austerità nel mezzo di una recessione o di una depressione.

TERZO, perché l’Eurosistema divenga una struttura efficiente occorre uno strumento che si affianchi alle politiche monetarie nel “creare stabilità macroeconomica”, a livello dell’Eurozona e – crucially – dei suoi stati membri.

Molto bene. La domanda che segue è: la UE sta varando misure che vanno nella direzione di ottenere i risultati necessari (necessari a parere di Draghi, ma anche, mi pare evidente, di chiunque esamini con ragionevolezza la situazione) ?

No.

E il motivo è che l’analisi di Draghi non è condivisa da molti dei principali stati membri dell’Eurozona. In particolare, non è condivisa dai nordeuropei.

C’è una via d’uscita ? certo, e passa per l’azione autonoma di singoli stati – quelli che oggi soffrono, contemporaneamente:

di alti livelli di debito pubblico collocato sui mercati finanziari e non garantito dalla potestà di emettere la valuta in cui è denominato;

nonché di alti livelli di disoccupazione.

Azione autonoma che prenda la forma di emettere Moneta Fiscale nazionale, con i seguenti risultati:

bloccare l’incremento del debito da collocare e rifinanziare sui mercati (il Maastricht Debt)

ridurlo costantemente nel tempo in rapporto al PIL (raggiungendo quindi gli obiettivi del Fiscal Compact)

rilanciare crescita, occupazione e competitività delle aziende.

Che cosa non piace di tutto ciò, alla UE ? semplicemente il fatto che gli Stati si riapproprino delle leve d’azione necessarie a gestire la propria economia.

Ce ne faremo, e se ne faranno, una ragione. L’instabilità cronica non è un’alternativa. Nell’interesse della UE stessa (si presume). Ma soprattutto, nell’interesse delle popolazioni europee.


lunedì 24 settembre 2018

CCF e bilancia commerciale


Per qualche strana ragione, un’obiezione ricorrente che mi sento formulare riguardo al progetto Moneta Fiscale / CCF è che produrrebbe squilibri nei saldi commerciali esteri, in quanto una parte rilevante del maggiore potere d’acquisto in circolazione si rivolgerebbe all’acquisto di prodotti stranieri.

In generale, politiche espansive dal lato della domanda incontrano – a parità di altre condizioni - un limite dovuto alla bilancia commerciale. Oggi per la verità c’è molto margine, perché l’Italia ha da anni un surplus di 50 miliardi abbondanti. Ma il limite effettivamente esiste, se non siamo in grado di abbinare all’azione espansiva un miglioramento di competitività delle aziende localizzate in Italia. Miglioramento che potrebbe essere ottenuto in tempi molto rapidi solo – si afferma - tramite un riallineamento valutario: altrimenti detto, tramite l’uscita dall’euro e la svalutazione della Nuova Lira.

Questa obiezione è sorprendente perché fin dalla sua primissima formulazione, il progetto CCF prevede di erogarli anche alle aziende, in funzione dei costi di lavoro sostenuti. Altrimenti detto: il datore di lavoro sostiene un determinato costo lordo in euro, ma l’assegnazione di Certificati di Credito Fiscale riduce il costo effettivo.

Tanto è vero che il primissimo articolo da me pubblicato sul tema (sul Sole 24 Ore, nientemeno: era l’ormai lontano 31 ottobre 2012) aveva come titolo “Certificati di credito per il cuneo”.

Magari in seguito io e i miei colleghi del Gruppo della Moneta Fiscale abbiamo dato meno enfasi a questo aspetto della proposta: meno, intendo, rispetto a quanto sarebbe stato opportuno. Forse proprio perché lo davamo per evidente ed acquisito. Comunque tutte le esposizioni del progetto l’hanno debitamente menzionato.

In effetti, emettere CCF mette nelle mani del governo due macroleve di intervento sull’economia: una che agisce sulla domanda interna (i CCF assegnati a lavoratori, pensionati, a integrazione della spesa sociale, a rafforzamento degli investimenti pubblici), e un’altra (l’azione sul cuneo fiscale, appunto) che interviene sulla competitività aziendale.

Nelle varie formulazioni del progetto, uno split tipico è tre quarti sulla domanda interna, un quarto sulla competitività. Una proporzione plausibile, che richiama l’incidenza dell’import e dell’export sul PIL italiano (incidenza che,  appunto, è intorno al 25%).

E’ sicuro che sia la proporzione giusta per evitare una parziale dispersione dell’impulso espansivo a causa del deterioramento dei conti con l’estero ? sicuro no, in quanto stimare l’elasticità di import ed export alla domanda interna da un lato, e al costo del lavoro dall’altro, è un esercizio complesso.

Tuttavia, la “manopola cuneo fiscale” può essere facilmente regolata in corso d’opera. L’allocazione dei CCF a riduzione del cuneo può essere aumentata o diminuita via via che si constata, eventualmente, una riduzione del surplus commerciale estero – o, al contrario, un suo incremento: anch’esso da evitare, perché l’obiettivo non è di seguire la Germania lungo la via, destabilizzante, del mercantilismo. E’ di rilanciare produzione e occupazione a saldi commerciali esteri invariati.

Un'ulteriore obiezione è che riducendo il costo del lavoro effettivo delle aziende (tramite, lo preciso perché pure qui nascono equivoci, allocazione di CCF, non riduzione di salari netti - che anzi si accresceranno, perché i CCF vengono assegnati anche ai lavoratori) si creano sì le condizioni per migliorarne la competitività: ma solo se le aziende abbassano i prezzi.

Questo, tuttavia, è vero anche nel caso di una svalutazione. Le aziende italiane non vendevano all’estero (e non venderanno in futuro, ove mai si andasse al breakup) in lire, ma in dollari, yen, sterline, franchi svizzeri, marchi. L’adeguamento dei listini era sempre necessario.

Ma è anche facile e molto conveniente attuarlo, nel momento in cui permette alle aziende di aumentare, a parità di margine di contribuzione unitario, le quantità prodotte e vendute. Soprattutto se nel sistema economico esiste (ed oggi è così) un ampio livello di capacità produttiva inutilizzata, che consente di migliorare i margini di contribuzione totali senza aumentare i costi fissi.


mercoledì 19 settembre 2018

Convegno a Roma, venerdì 21 settembre 2018

"Finanza al Servizio della Politica": per capire molto meglio una serie di temi relativi a debito pubblico, risparmio privato, e Moneta Fiscale.

Ore 10-13.30, presso l'Istituto Sant'Orsola in via Livorno 50/A, Roma.

Io intervengo insieme a Biagio Bossone dalle 11.45 in poi.

domenica 16 settembre 2018

Sostegno della domanda e innalzamento della crescita


Ultimamente leggo e sento dichiarazioni di alcuni noti difensori dell’”ordine costituito eurosistemico” (Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli, Daniel Gros per citare i primi che mi vengono in mente) che si riassumono come segue.

“Sì va bene, aumentare il deficit pubblico produce crescita – per un anno. Ma dal secondo in poi che cosa succede ? Dovremmo tutti gli anni aumentare il deficit, altrimenti i tassi di crescita ripiomberebbero ai livelli precedenti. Ma il deficit, se continua ad aumentare, va fuori controllo. E se non lo aumentiamo e non cresciamo più – dopo il primo anno – torniamo alla situazione di prima, con un PIL più alto ma sempre con crescita insufficiente, e con più debito di prima”.

Una prima osservazione è che il problema del “più debito” è, ovviamente, un’implicazione del fatto che la manovra espansiva sia finanziata con indebitamento del settore pubblico.

Se invece viene emessa moneta, o un titolo a utilizzo fiscale che non rientra nel debito pubblico (come i CCF, che non sono parte del “Maastricht Debt”, ovvero del debito pubblico come definito da trattati e regolamenti UE), il maggior debito non si viene a creare, neanche nella fase iniziale della manovra espansiva.

Questo (dovrebbe essere ovvio, ma repetita iuvant…) non significa che una manovra espansiva sia sempre giustificata. Se non c’è un rilevante output gap, quindi un grave sottoutilizzo della capacità produttiva del sistema economico (che significa anche alti livelli di disoccupazione e sottoccupazione) la manovra espansiva non produce crescita ma inflazione.

Ma nella situazione italiana odierna, l’inflazione non è un problema (anzi lo è in quanto troppo bassa, non in quanto troppo alta) e la disoccupazione, al contrario, sì. Un forte impulso espansivo sull’economia è quindi sia giustificato che necessario.

Ciò premesso, è bene riassumere perché un impulso espansivo produce un’accelerazione della crescita non solo nel momento in cui viene attuato, ma anche dopo.

Primo, più reddito induce più spesa. Se lo Stato costruisce un ospedale utilizzando mezzi e persone altrimenti inattivi, le aziende e i loro dipendenti vengono pagati e spendono una parte del loro reddito. Non solo quindi il PIL aumenta in misura pari al valore dell’ospedale (e una parte del maggior PIL tra l’altro produce subito maggior gettito fiscale), ma l’aumento è ancora superiore perché c’è un effetto indotto di crescita della spesa privata.

Secondo, la produttività delle aziende aumenta perché attualmente la loro capacità è sottoutilizzata. L’incremento di produzione non richiede un incremento dei costi fissi, fino al momento in cui non si torna a un normale livello di utilizzo della capacità produttiva. Aumenta quindi la produttività sia del lavoro che delle strutture fisiche.

Terzo, ripartono gli investimenti aziendali con il riavvicinarsi alla normalità dell’utilizzo della capacità produttiva. Maggior domanda significa più utili per le aziende, quindi più soldi da investire, e maggior incentivo ad espandere il potenziale produttivo. Questo non avviene immediatamente, ma gradualmente, a ritmi sempre più rapidi, via via che il sistema economico si riporta verso il pieno utilizzo delle proprie risorse produttive.

Quarto, si riavvia anche il credito privato, in quanto aziende e lavoratori migliorano i loro redditi e le banche sono quindi maggiormente incentivate a finanziare investimenti produttivi, acquisti immobiliari eccetera. Mentre in condizioni di domanda depressa il credito non solo si fa fatica a concederlo, ma c’è anche scarso desiderio di richiederlo. Chi non ha redditi tende, ovviamente,  a non pianificare investimenti.

Quinto, la ripartenza degli investimenti produce un rinnovo tecnologico della capacità produttiva. Il nuovo macchinario oltre ad ampliare la capacità fisica del vecchio è, naturalmente, più efficiente e più produttivo.

Tutti questi fattori del resto li abbiamo visti all’opera – ma sciaguratamente nella direzione contraria – durante la fase di contrazione dell’economia italiana prodotta, tra metà 2011 e inizio 2014, dalle catastrofiche politiche di “aggiustamento” prescritte dalla UE. Tredici trimestri consecutivi di calo del PIL reale (che già partiva da una situazione convalescente perché non si erano certo ancora esauriti gli effetti della crisi Lehman, di cui giusto in questi giorni ricorre il decennale).

Abbiamo avuto, in quel periodo, tutti gli effetti sopra descritti – ma in senso inverso. Contrazioni di spesa pubblica e di trasferimenti, e aumenti di tasse, hanno abbattuto il PIL, sia direttamente che a seguito del calo successivamente indotto nella spesa privata. Le aziende hanno contratto gli investimenti, e le banche il credito. E la produttività delle aziende ne ha pesantemente risentito.


E tutto questo ha “risanato la finanza pubblica” ? il rapporto debito / PIL è salito dal 116% al 129%, “grazie” al crollo del denominatore...

I Cottarelli, i Galli, i Gros, hanno plaudito alle azioni di politica economica attuate in quel periodo appunto perché sono partiti dal presupposto che le azioni di politica economica (azioni restrittive, in quel caso) avessero effetti limitati al periodo in cui venivano effettuate. Quindi si sarebbe dovuta ottenere una riduzione del deficit a fronte sì di un calo del PIL, ma solo nel periodo in cui veniva effettuato l’”aggiustamento”.

Le loro ipotesi di lavoro erano totalmente errate. E oggi, però, ripropongono lo stesso schema di analisi. Il consolidamento fiscale, dicevano allora, avrebbe avuto modesti e temporanei effetti di contrazione dell’economia reale. L’espansione fiscale, dicono oggi, produrrebbe al massimo un temporaneo innalzamento del PIL, ma nessun impatto sulla crescita a medio e lungo termine.

Si sono tragicamente sbagliati allora, e per l’Italia le conseguenze sono state un paio di milioni in più di persone in povertà assoluta e qualche decina di migliaia di aziende fallite.

Continuano a sbagliarsi, completamente, oggi. Per fortuna la popolazione e l’elettorato italiano hanno, adesso, le idee molto più chiare in merito a questi argomenti.


mercoledì 12 settembre 2018

Deficit spending, crescita e il ministro Tria


Un giudizio più compiuto sul Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sarò in grado di fornirlo tra poche settimane, dopo la presentazione della proposta di legge di bilancio 2019.

Nel frattempo comunque mi sento di dire che ne ammiro molto la sottigliezza delle dichiarazioni e delle argomentazioni: eccellenti esercizi di equilibrismo dialettico.

Una dote certamente utile in questa fase, in cui Tria si propone di contenere i fenomeni speculativi sul mercato del debito pubblico italiano (e quindi il famigerato spread: con ottimi risultati, in questi ultimi giorni).

Ma senza, nello stesso tempo, smentire che il programma economico del governo M5S – Lega (meno tasse, sostegno alle fase sociali disagiate, rilancio della domanda e della crescita) sia realizzabile. Sia pure – ma questo personalmente lo ritenevo evidente fin dall’inizio – diluendo gli interventi nell’arco di alcuni anni, in un orizzonte di legislatura quindi.

Un esempio è una frase pronunciata in pubblico pochi giorni fa: “la carenza di crescita non si risolve con il deficit spending”.

Frase interpretata da qualcuno come indicativa del fatto che Tria non creda alla valenza di immettere nell’economia più potere d’acquisto, tramite più spesa pubblica, più trasferimenti, o minori tasse.

E dagli operatori di mercato finanziario come un’indicazione che non ci si lancerà in programmi di spesa “folli e incontrollati” (cosa che ovviamente, in realtà, non aveva mai proposto nessuno: ma non guasta chiarire il fraintendimento una volta di più piuttosto che una di meno).

Chiarire l'equivoco è semplice. Il deficit spending, o più esattamente, appunto, l'incremento del potere d'acquisto immesso nell'economia, non incrementa, di per sé e direttamente, il tasso di crescita potenziale dell'economia.

Ma svolge un’altra, fondamentale, funzione: riduce l’output gap, cioè il minor livello di produzione rispetto alle capacità del sistema economico, nel momento in cui questa minore produzione è dovuta a una pesantissima e conclamata carenza di domanda.

Detto in soldoni: se l’automobile sta viaggiando a 80 kmh mentre ha una velocità di crociera ottimale di 130, il deficit spending (nel senso sopra definito) non la porta (la velocità di crociera) a 150. Ma equivale a schiacciare l’acceleratore, salendo appunto da 80 a 130.

E per l’automobile / sistema economico, raggiungere la velocità di crociera significa sfruttare al meglio le risorse produttive e abbattere la disoccupazione.

Sul potenziale di crescita, peraltro, raggiungere e mantenere la velocità di crociera ha tutta una serie di benefici indiretti, non istantanei ma evidenti già a breve-medio termine. Tornare a un livello ottimale di occupazione migliora enormemente anche la redditività e la produttività delle aziende e dà loro le risorse, nonché l’incentivo, a innovare, a fare ricerca, e a investire.

Quindi la carenza di crescita non si risolve – direttamente – con il deficit spending. Ma la disoccupazione e il sottoutilizzo di capacità delle aziende sì.

E l’innalzamento del potenziale produttivo del paese viene di conseguenza.


lunedì 10 settembre 2018

I disallineamenti di interessi che la Moneta Fiscale risolve


A ulteriore chiarimento dell'ultimo post ed elaborando alcuni commenti di Biagio Bossone, va sottolineato che il progetto Moneta Fiscale / CCF risolve due fondamentali disallineamenti d’interessi: quello tra l’Italia e i mercati finanziari, nonché quello tra l’Italia e la UE.

Il progetto MF / CCF consente infatti di rilanciare la crescita italiana e nello stesso tempo di bloccare definitivamente l’incremento del Maastricht Debt: il debito su cui il paese emittente può essere forzato al default, in quanto è denominato in una moneta emessa da terzi.

Incrementare il Maastricht Debt aumenta la dipendenza dai mercati finanziari, e i rischi connessi. Questo pone gli interessi italiani in contrapposizione rispetto a quelli dei mercati.

D’altra parte, il Maastricht Debt italiano è sostenibile solo a condizione di ridurlo, in modo graduale ma continuo, rispetto al PIL. Se questo non avviene il rischio di default, o di rottura dell’Eurozona, è sempre presente. Ed entrambe queste possibilità sono altamente rischiose, oltre che per i mercati, anche e soprattutto per la UE.

La UE insiste quindi sul contenimento del Maastricht Debt, ma se questo ha come conseguenza (come è accaduto, pesantissimamente, nel 2011-2013) la compressione del PIL, il rapporto aumenta invece di diminuire.

Occorre quindi uno strumento di espansione della domanda, della produzione e dell’occupazione che agisca senza incrementare il Maastricht Debt. Identificare e utilizzare questo strumento è indispensabile per l’Italia, ma è anche una via estremamente appropriata per ridurre i fattori di instabilità che continuano a caratterizzare l’Eurozona.

Il progetto MF / CCF ha le caratteristiche necessarie per raggiungere questo obiettivo.


venerdì 7 settembre 2018

Moneta Fiscale: più che una terza via, una strada obbligata


Un recente articolo di Giorgio La Malfa sintetizza il dilemma in cui si trovano attualmente molti sinceri europeisti. Nelle sue parole:

“La moneta unica, così come è stata pensata, è stata uno sbaglio perché essa richiede e richiederebbe una solidarietà sostanziale tra i paesi che ne fanno parte che non vi potrà essere… Se si vuole creare una terza posizione che si frapponga tra i due opposti estremismi di chi non vuole andare avanti e di chi vuole andare indietro bisogna dire con chiarezza che si prende atto che l’Unione Monetaria va ripensata dalle fondamenta poiché i paesi membri dell’Unione Monetaria hanno visioni radicalmente opposte di quello che significa un passo in avanti… Bisogna fare in modo di tranquillizzare i tedeschi che non saranno chiamati a pagare i debiti ma nello stesso tempo bisogna consentire che un paese possa fare una politica di sostegno della crescita e dell’occupazione senza passare per dei vincoli europei senza contropartite… Bisogna studiare il modo, in contropartita di minori impegni di solidarietà, di concedere una maggiore possibilità per i singoli paesi di fare politiche economiche indipendenti”.

La Moneta Fiscale è stata concepita esattamente per risolvere questo dilemma.

Un punto chiave di qualsiasi riflessione in merito è che non esiste il consenso politico necessario affinché la Banca Centrale Europea garantisca incondizionatamente i debiti pubblici degli stati dell’Eurozona. La garanzia introdotta dall'OMT è vincolata all’attuazione di politiche da definire caso per caso, ma comunque basate su principi che portano a compressioni della domanda, dell’attività economica e dell’occupazione. Non è su queste basi che l’Eurosistema può raggiungere condizioni di efficienza e di sostenibilità.

La logica della Moneta Fiscale – da attuarsi ad esempio nella forma (operativamente di semplice e rapida attuazione) dei Certificati di Credito Fiscale – si riassume come segue.

Il debito pubblico che deve essere collocato e rifinanziato, e rispetto al quale l’andamento dei mercati può forzare l’emittente al default (quello che è regolamentato con precisione dai trattati di governo dell’Eurosistema, e che per questo motivo viene denominato “Maastricht Debt”) smette definitivamente di incrementarsi. L’Italia definisce un livello soglia corrispondente per esempio all’attuale – circa 2.350 miliardi di euro – e non lo incrementa più, neanche di un centesimo.

Tutte le politiche macroeconomiche necessarie ad incrementare la domanda interna, migliorare la competitività delle aziende (per esempio riducendo gli oneri fiscali e contributivi a loro carico), nonché a ripristinare il pieno impiego, vengono attuate emettendo CCF.

Il CCF è un titolo accettato dallo Stato emittente, a partire da una data futura prestabilita (la proposta è due anni dopo l’emissione) per ridurre pagamenti altrimenti dovuti nei suoi confronti. Ma non sussiste alcun obbligo di rimborsarlo in cash. E il CCF non rientra nel Maastricht Debt.

Non potrà quindi mai accadere che lo Stato emittente sia forzato a dichiarare default su un CCF. Potrà al massimo accadere che l’emittente ne emetta una quantità eccessiva, rendendo in pratica problematico utilizzare tutti i CCF in possesso del pubblico nel momento in cui giungono a maturazione. Si allungherebbero quindi i tempi di utilizzo, il che svilirebbe il valore del titolo.

Ma questo rischio è in pratica remoto, perché i CCF non supererebbero mai, anche in scenari pessimistici, una modesta frazione degli incassi pubblici lordi a fronte dei quali sono utilizzabili.

E i titolari del debito pubblico italiano constaterebbero che il Maastricht Debt del paese cessa completamente di incrementarsi e diminuisce costantemente in proporzione al PIL, via via che la crescita dell’economia e un minimo di inflazione innalzano il PIL reale e (ancora di più) il PIL nominale.

Più che una terza via, questo percorso mi appare una strada obbligata per mettere l’Eurosistema in condizioni di funzionalità e sostenibilità.


mercoledì 5 settembre 2018

A volte mi sembra così banale...


L’Eurosistema ha dei difetti strutturali gravissimi.

Ma possono essere risolti, anche senza rompere l’euro:

Se al suo fianco si introduce uno strumento finanziario

che costituisce una riserva di valore

che può essere anche utilizzato come intermediario di scambio

e che non rientra nel debito pubblico ai sensi dei trattati e delle regolamentazioni dell’Eurozona.

Se questo strumento viene emesso dallo Stato nella misura necessaria per effettuare le necessarie politiche macroeconomiche: espansione della domanda interna e miglioramento di competitività delle aziende (ad esempio, riducendo il cuneo fiscale effettivo).

E se il Maastricht Debt, il debito che deve essere finanziato sui mercati perché soggetto a rimborso in una moneta (l’euro) che lo Stato italiano non emette, cessa di aumentare in valore assoluto e si riduce rapidamente in percentuale del PIL – via via che il PIL cresce.

Lo strumento necessario è stato definito in tutte le sue caratteristiche fondamentali, ed è la Moneta Fiscale, nella forma dei Certificati di Credito Fiscale.


lunedì 3 settembre 2018

Una legge di bilancio "tre volte tre"


La prima proposta di legge di bilancio del 2019 sarà presentata entro poche settimane. Secondo alcuni commentatori, il rischio da evitare è quello dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della commissione UE, se la previsione di rapporto deficit / PIL non sarà in calo rispetto al 2018 (anno per il quale l’obiettivo era l’1,6%, ma probabilmente a consuntivo sarà un po’ più alto).

Il problema è veramente quello ? la commissione UE, la procedura d’infrazione ? non ne sono convinto. Spagna e Francia sono stati in procedura d’infrazione per quasi dieci anni, ma su spread e tassi del loro debito pubblico la cosa è risultata del tutto irrilevante.

Il problema (visto che ci troviamo nella sciagurata situazione di aver convertito il nostro debito pubblico in un moneta che il nostro paese non emette) è l’atteggiamento dei mercati. La domanda da porsi è quindi un’altra: che cosa effettivamente si aspettano, o che cosa temono, i mercati finanziari.

Per i mercati i punti chiave non sono gli obiettivi di riduzione deficit previsti dal Fiscal Compact (che è da sempre ampiamente disatteso, e alla cui possibilità di realizzazione non ha mai creduto nessuno).

Per i mercati i punti chiave sono:

UNO, rispettare il limite originario del 3% per il rapporto deficit / PIL: limite che il Fiscal Compact sulla carta ha fatto decadere, ma tutti (data, appunto, l’irrealizzabilità del Fiscal Compact nell’ambito dell’attuale Eurosistema) hanno tuttora in mente. Anche perché le dichiarazioni degli esponenti dei partiti di maggioranza e del governo continuano a ruotare intorno a questo punto: rispettare o non rispettare il 3%.

DUE, vedere l’economia italiana che torna, finalmente, a crescere con vigore.

TRE, constatare che si riduce non il rapporto deficit / PIL, ma il rapporto debito / PIL.

Ora, come si argomentava qui, è assolutamente plausibile per l’Italia conseguire una crescita reale del 3% senza superare il rapporto del 3% per il deficit / PIL.

Anzi è possibile starne al di sotto se verranno almeno in parte attuate una o più delle seguenti proposte: sblocco di investimenti pubblici già conteggiati nei deficit degli anni scorsi ma non messi in atto, come propone il Ministro Tria; accelerazione degli investimenti da parte delle società partecipate dallo Stato (ENI, ENEL, Leonardo, Terna, Fincantieri ecc.) come propone il Ministro Savona; e attuazione anche solo parziale del progetto Moneta Fiscale.

Mantenendo comunque le ipotesi di crescita reale al 3%, crescita nominale al 4,5% (che richiede una modesta accelerazione dell’inflazione, più che plausibile se la crescita si incrementa) e deficit / PIL al 3%, che cosa accade al debito / PIL ?

A fine 2018 il rapporto sarà pari al 132% circa.

A fine 2019, il PIL passerebbe (fatto pari a 100 il dato 2018) a 104,5 (100 più 4,5), e il debito a 135 (132 più 3).

Il rapporto diventa quindi, in questa ipotesi, 135 / 104,5 = 129% circa.

Sarebbe una legge di bilancio “tre volte tre”: 3% di deficit, 3% di crescita reale, e tre punti in meno di rapporto debito / PIL.

Una legge di bilancio con queste (plausibili) previsioni non ci creerebbe nessun problema con i mercati. Anzi, applausi a scena aperta.