venerdì 29 aprile 2022

L’euro e il macchinone in leasing

 

Ancora per la serie “il fantastico mondo degli euroausterici”. I sostenitori dell’euro, perlomeno quelli in buona fede (all’inizio erano in molti, e qualcuno ne circola ancora) erano genuinamente convinti che passare dalla lira alla moneta comune europea avrebbe arricchito il paese.

L’euro è una moneta più forte della lira, giusto ? e i paesi con economia solida hanno anche una moneta forte, no ?

Una parte grossa dell’equivoco sta in quell’”hanno”.

I paesi forti hanno una moneta forte, certo. Il punto è che l’Italia non “ha” l’euro. L’Italia si è vincolata a usare l’euro, ma non lo emette.

L’euro è una moneta presa a prestito.

Dire “uso l’euro quindi sono forte” è come dire “ho una macchina da 100k quindi sono ricco”.

Se la macchina non avevo di che comprarla, l’ho presa in leasing, e poi non riesco a pagare bollo, carburante e rate, non sono diventato ricco, mi sono rovinato.

Non diventi economicamente forte perché usi una moneta forte. Se hai un’economia forte, è forte la TUA moneta. Il rapporto causa-effetto gira esattamente nell’altro senso. SOLO nell’altro senso.

La moneta straniera più forte della tua economia, se ti vincoli a usarla, è un cappio al collo. Come il macchinone in leasing che non ti puoi permettere.

È sbalorditivo che ancora qualcuno lo neghi.

 

mercoledì 27 aprile 2022

Il problema di spingere in ventisette

 

“La risposta al problema dev’essere europea”, questo è uno dei ritornelli preferiti degli eurofili / euroentusiasti. Alla domanda “europea perché ?” (fatto salvo che per “Europa” intendono, come di consueto, “UE”) la risposta è chiara, semplice e sbagliata.

La risposta dev’essere unita e determinata (dicono) da parte di ventisette paesi che agiscono “come un sol uomo”, perché è ovvio, è chiaro, è incontrovertibile che in ventisette uniti si ottengono cose che in ventisette separati non sarebbero possibili.

La risposta è chiara, semplice, ma sbagliata, per almeno un paio di ragioni.

Quando ci si mette insieme in parecchi, A VOLTE (non sempre) si crea un effetto di sinergia, ma ALTRE VOLTE (anzi sempre) si creano problemi di coordinamento. Detto altrimenti, se anche c’è la volontà di spingere tutti nella stessa direzione, parecchio tempo deve essere dedicato a fare in modo che gli sforzi siano effettivamente incanalati in modo da ottenere effetti migliori, per ognuno dei singoli, di quelli conseguibili da soli. E non necessariamente ci si riesce.

Ma, peggio ancora, spesso e volentieri la volontà di spingere tutti nella stessa direzione non c’è, perché opinioni, interessi e volontà politica divergono. L’euro è una moneta debole per la Germania e avvantaggia la competitività tedesca, è una moneta forte per l’Italia e svantaggia la competitività italiana. L’immigrazione clandestina è un problema grave per i paesi UE di frontiera, molto meno per gli altri. L’(eventuale) embargo al gas russo sarebbe un danno pesantissimo per tedeschi e italiani, decisamente meno per i francesi che hanno il nucleare.

Il ruolo della UE, in altri termini, dev’essere sussidiario e non predominante. La UE deve agire quando è chiaro al di là di ogni ragionevole dubbio che il suo intervento consente di ottenere cose che a tutti i ventisette interessano, e che in ventisette uniti e compatti si ottengono meglio rispetto ad agire isolati.

SOLO a queste condizioni attivare la “risposta europea” ha un senso.

Altrimenti la UE finisce per restare quello che è sempre stata: un potentissimo strumento per creare burocrazia, diseguaglianze e inefficienze.

lunedì 25 aprile 2022

L’euro e lo zaino di sassi sulle spalle

 

Molti confronti di opinioni in merito alle conseguenze dell’euro sull’economia italiana atterrano (si spiaggiano a mo’ di balena, si potrebbe dire) su un’”argomentazione” ricorrente.

Ricorrente, intendo, sulla bocca di chi difende il sistema, o quantomeno lo giustifica, o cerca di farlo passare per un problema secondario.

L’”argomentazione” è molto semplice. Molte cose sono cambiate dall’introduzione dell’euro in poi. Sono passati trent’anni dalla firma del trattato di Maastricht, venticinque dalla decisione “irreversibile” di entrare nell’euro, ventitré dalla partenza ufficiale, venti dalla conversione di monete e banconote.

Tanto tempo. Allora, come si fa ad affermare che “tutti” i problemi dell’economia italiana sono riconducibili all’euro ?

La prima risposta è che, naturalmente, quest’ultima affermazione non l’ha mai fatta nessuno. Che l’Italia, economicamente parlando, sarebbe il paradiso in terra se avesse tenuto la lira, ovviamente non è vero, e nessuno lo sostiene seriamente.

Ma è vero che il confronto tra le prestazioni economiche del paese prima e dopo, in assoluto così come rispetto agli altri paesi, in particolare europei occidentali, è impietoso. E per ragioni chiarissime, a chi le vuole vedere: aver adottato una moneta troppo forte per i nostri fondamentali, e, ancora peggio, aver convertito un (NON) debito in moneta propria in un debito VERO, in moneta straniera forte.

Immaginate di costringere qualcuno a camminare, muoversi, fare qualunque cosa portando costantemente sulle spalle uno zaino da cinquanta chili. Pieno di sassi. Quindi portando in giro un carico che spezza la schiena, senza la minima necessità o motivazione logica.

E poi di dirgli “tu stai sempre a lamentarti dello zaino, ma guarda che non è colpa dello zaino se la tua calvizie incipiente progredisce”.

Siamo a questi livelli.

venerdì 22 aprile 2022

I boomers che “non passano la mano”

 

Mi imbatto nell’ennesimo articolo che si lamenta dei boomers, i nati tra il 1946 e il 1964, “colpevoli” di non abbandonare le loro posizioni professionali e di bloccare l’ascesa dei più giovani.

Essendo del 1962, faccio parte del gruppo. All’estremo inferiore, quantomeno sono un giovane boomer. Ma ci rientro.

Lasciatemi quindi formulare una difesa della categoria, non d’ufficio ma molto sentita e penso anche motivata. 

Corre l’anno 2022, quindi i boomers sono persone che si situano tra i 58 e i 76 anni di età. È scandaloso che occupino posizioni di responsabilità, e non le lascino ?

Francamente non credo. Vero, molti di loro non ne avrebbero più bisogno – sul piano economico. Ma mi pare giusto che certe attività continuino a essere svolte da chi, in termini di capacità, salute e motivazione, è in grado di farlo.

Salute e motivazione possono venir meno, a una certa età – ma anche no. E se no, perché allora ci si dovrebbe rassegnare al pensionamento inattivo ? a sedersi sulle panchine del parco o a scrutare i cantieri da dietro le staccionate ?

Perché in questo modo si impedisce ai (relativamente) giovani di crescere ? il punto è che non è vero. 

Se i (relativamente) giovani hanno avuto meno occasioni, e in generale è vero che ne hanno avute meno, le ragioni sono altre. Io ho iniziato a lavorare nel 1985 e ho goduto di un ventennio abbondante di contesto favorevole, figlio della crescita economica, del mondo che pur tra tanti problemi si presentava pieno di opportunità.

Senza bisogno che si facessero da parte i 60enni, i 70enni, gli 80enni. L’uomo più potente della finanza italiana in quegli anni era Enrico Cuccia, classe 1907, che si è fatto da parte quando è morto, e non un minuto prima. Era un personaggio fuori da tutti gli schemi, certo; ma l’esempio è indicativo.

Dopo la crisi finanziaria mondiale e dopo la crisi dei debiti sovrani eurozonici le cose si sono fatte sicuramente più difficili. Fossi nato nel 1982, ed entrato nel mercato del lavoro nel 2005, avrei vissuto una situazione più “tosta”. Almeno restando in Italia.

Capisco il problema, mettendomi nei panni di un Marco Cattaneo con vent’anni in meno. Però al mio omologo quattro lustri più giovane tengo a precisare che le opportunità non gliele ho tolte io, ma un contesto esterno diventato molto meno favorevole.

E le ragioni, per chi segue questo blog, sono note. Sono un sistema di governance dell’economia che, specialmente, ripeto, in Italia, ha distrutto crescita e opportunità.

Non è una questione di numero di posti statico e di “attempati” che non si rassegnano a passar la mano. È questione di establishment che ha imposto regole antisviluppo. E mi riferisco naturalmente, in primo luogo, alle deliranti regole di governo dell'eurosistema.

Mettere in panchina gli “attempati” non risolve il problema. Il problema non è ridistribuire tra le generazioni una torta fissa di opportunità professionali, ma far crescere la torta.

E questo lo capiscono i boomers meglio di chi è arrivato dopo, appunto perché per 20 o 30 anni hanno vissuto dall’interno un mondo differente. Molto differente.

 

martedì 19 aprile 2022

Jean-Paul Fitoussi

 

Come un triste fulmine a ciel sereno, è giunta pochi giorni fa la notizia improvvisa della scomparsa di Jean-Paul Fitoussi.

Economista insigne e squisito gentleman, personaggio che l’establishment non poteva ignorare anche se le sue posizioni erano di critica radicale e senza sconti alla follie dell’euroausterità.

L’ho incontrato una sola volta in vita mia, a un gradevolissimo (e gustosissimo) pranzo a Roma nel settembre scorso, insieme a Stefano Sylos Labini.

L’ho incontrato una sola volta ma nelle settimane e mesi successivi siamo stati in contatto quasi quotidiano, via telefono, email e whatsapp. Jean-Paul era venuto a conoscenza del Progetto Moneta Fiscale grazie ai contatti con vari esponenti (alcuni poi fuoriusciti) del M5S, in particolare Pino Cabras e Dora di Caprio.

Jean-Paul ha letto con grande attenzione il materiale da noi predisposto in questi anni di attività, e ne abbiamo ampiamente discusso, superando dubbi, discutendo chiarimenti e miglioramenti, e quant’altro.

Si è fatto promotore di una tavola rotonda presso il Festival dell’Economia di Trento, il prossimo 4 giugno alle 9.30. Noi avremmo esposto, lui avrebbe moderato, e si stava adoperando per ottenere la partecipazione alla tavola rotonda di nomi di prim’ordine.

Saremo comunque a Trento. La tavola rotonda è confermata. Senza di lui non sarà la stessa cosa, ma quantomeno sarà un omaggio postumo in più, che si aggiunge ai tantissimi pervenuti in questi giorni (molti sinceri, moltissimi paurosamente ipocriti, da parte di politici ed alti burocrati che hanno riconosciuto il valore delle sue idee, nello stesso tempo lavorando a pieno regime per andare nella direzione opposta).

Conto che un giorno non lontano gli si possa dedicare qualcosa, anzi molto, di più: il pieno successo, la piena implementazione della Moneta Fiscale.

 

mercoledì 13 aprile 2022

Francia: l’elettorato è diventato anti-establishment ?

 

I risultati del primo turno delle presidenziali francesi hanno dato luogo a diverse interpretazioni.

Da un lato, si è sottolineato lo spostamento degli elettori verso posizioni anti-establishment.

Dall’altro, si fa notare che dei tre principali candidati – Macron, Le Pen e Mélenchon – è proprio Macron, il candidato establishment per eccellenza, ad aver ottenuto la maggior crescita di consensi. 

In effetti Macron è salito dal 24% al 27,8%, Marine Le Pen dal 21,3% al 23,2% e Mélenchon dal 20% al 22%.

Quest’ultimo punto è corretto, ma non racconta tutta la storia. La crescita di Macron è stata, in buona sostanza, prodotta dalla devastante erosione dei consensi subita dai due tradizionali “pilastri del sistema”, i repubblicani (crollati dal 20% al 4,8%) e i socialisti (dal 6,4% all’1,8).

Marine Le Pen è invece salita nonostante la comparsa sulla scena di Zemmour, che pur ottenendo un risultato inferiore alle attese ha comunque raggiunto il 7,1%.

Una riflessione più completa può essere effettuata sommando i voti di tutti i candidati classificabili come anti-establishment.

Nel 2017 avevamo:

Anti-establishment di destra: Le Pen + Dupont-Aignan + Asselineau = 21,3% + 4,7% + 0,9% = 26,9%

Anti-establishment di sinistra: Mélenchon + Poutou + Arthaud + Cheminade = 19,6% + 1,1% + 0,6% + 0,2% = 21,5%.

Quindi anti-establishment 48,4%, establishment (per differenza) 51,6%.

Nel 2022 la situazione è diventata:

Anti-establishment di destra: Le Pen + Zemmour + Dupont-Aignan = 23,2% + 7,1% + 2,1% = 32,4%.

Anti-establishment di sinistra: Mélenchon + Roussel + Poutou + Arthaud = 22,0% + 2,3% + 0,8% + 0,6% = 25,7%.

Quindi anti-establishment 58,1%, establishment 41,9%.

Lo spostamento verso l’anti-establishment effettivamente c’è, ed è tutt’altro che marginale: dieci punti.

Tutto questo fa differenza ? con ogni probabilità, non sul risultato finale delle elezioni presidenziali. Al ballottaggio, come cinque anni fa si sfideranno Macron e Le Pen. L’esito sarà più equilibrato rispetto al 2017, quando finì 66,1% a 33,9%.

Ma non fino al punto da ribaltare l’esito. Marine Le Pen, al 32,4% dell’anti-establishment di destra potrà aggiungere – si stima – forse un terzo dell’anti-establishment di sinistra. Diciamo otto-nove punti, che la porterebbero al 41%.

Forse un altro 8% dell’anti-establishment di sinistra potrebbe astenersi al ballottaggio. Col che il 41% di Marine Le Pen salirebbe automaticamente a 41 / 92 = 44,5% circa.

Non è da escludere che un 1-2% arrivi dai Repubblicani, crollati al primo turno, come detto, al 4,8% (rispetto al 20% ottenuto da Fillon nel 2017). E sul piano aritmetico una piccola spinta a Marine Le Pen potrebbe essere fornita da tassi di astensione più alti, presso l’elettorato filo-establishment, rispetto all’anti-establishment di destra.

In definitiva, anche la combinazione di fattori, tra quante ragionevolmente possibili, più sfavorevole a Macron lo vede vincente. Con qualcosa tipo quattro punti di margine, 52% - 48%.

Per ipotizzare un esito finale diverso bisogna immaginare un’ondata lepenista maggioritaria presso i melenchoniani. E francamente questo mi sembra fuori dalla realtà.

Certo, Macron si è indebolito. Certo, il suo indebolimento potrebbe produrre una maggioranza fragile in occasione delle elezioni parlamentari, che si terranno a giugno, e quindi difficoltà nella sua futura azione di governo.

Ma avremo comunque – cioè avranno i francesi – Macron per altri cinque anni. Anche se una percentuale di elettori nettamente maggioritaria, e in forte crescita rispetto al 2017, preferirebbe di gran lunga un presidente diverso. Ma funzionerà ancora, a suo favore, la spaccatura dell’anti-establishment tra destra e sinistra.

domenica 10 aprile 2022

L’inflazione odierna e i suoi equivoci

 

L’inflazione, misurata sugli indici dei prezzi al consumo e ancora di più alla produzione, ha raggiunto livelli che la maggior parte degli economisti e dei commentatori non si attendevano. Io tra questi.

Abbondano quindi, comprensibilmente, le interpretazioni della situazione attuale che la attribuiscono all’”eccesso di stampa di moneta”. E qui vale però la pena di chiarire alcune cose.

“Stampare moneta” è qualcosa che in tutto il mondo occidentale si fa in modo massiccio e ininterrotto da quasi tre lustri (ancora di più in Giappone). In pratica, a partire dalla crisi finanziaria mondiale (fallimento Lehman Brothers) del 2008.

Chi afferma che l’inflazione è dovuta alla “stampa di moneta” dovrebbe spiegare (ma non è in grado di farlo) perché l’inflazione non sia assolutamente stata un problema fino al 2020. Anzi, le banche centrali, Federal Reserve e BCE per prime, continuavano a lamentarsi e a preoccuparsi perché l’inflazione era troppo BASSA, e perché non raggiungeva mai su base stabile il target del 2%.

Le banche centrali, a dispetto dei fatti, continuano a ragionare come se la famosa affermazione di Milton Friedman, “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario”, fosse una verità conclamata. Quindi se l’inflazione è troppo bassa bisogna immettere più moneta nell’economia e abbassare i tassi d’interesse. Viceversa se è troppo alta.

La ricetta non ha funzionato quando si puntava ad alzare l’inflazione. Lascia molto perplessi che venga riproposta (con segno opposto) adesso che si tratta di abbassarla.

Il punto, molto chiaro e semplice (ma apparentemente non per molti che lavorano alla Fed o alla BCE) è che la creazione di base monetaria NON genera inflazione di per sé. Non è la “moneta prodotta” a creare magicamente il rialzo dei prezzi.

Il rialzo dei prezzi è generato dal disequilibrio tra domanda e offerta. Tra disponibilità di potere d’acquisto e capacità produttiva del sistema economico.

Nel 2020, all’inizio dell’emergenza Covid, la pandemia ha spinto i governi ad immettere nel sistema economico potere d’acquisto, mediante ristori e sostegni. Era ovviamente necessario per evitare che la crisi sanitaria portasse al collasso dell’economia.

Momentaneamente questa incrementata disponibilità di potere d’acquisto non si è tradotta in maggiore domanda né in crescita dell’inflazione, per il semplice motivo che la popolazione, subendo restrizioni ai movimenti e alla circolazione, aveva meno occasione di spendere. Ha quindi, forzatamente, risparmiato.

Con l’allentamento delle restrizioni, la domanda di beni e servizi è gradualmente ripartita. Non mi aspettavo che questo producesse una significativa accelerazione dell’inflazione perché via via che la domanda risaliva, riprendevano a lavorare a ritmo normale impianti e aziende. Domanda e offerta sarebbero quindi rimaste in equilibrio.

Quello che è sfuggito a me, e per la verità a molti altri, è che le catene di fornitura e approvvigionamento di componenti e materie prime si sono “disassate”. Quando una catena di fornitura si blocca, al momento del riavvio si rimette in modo al ritmo dell’anello PIU’ LENTO A RIPARTIRE. Il che significa che la domanda torna ai livelli precrisi, la capacità produttiva reale del sistema no.

Da qui l’inflazione: che però come si vede non è stata creata magicamente dalla “stampa di moneta”, ma (come sempre) da un disequilibrio tra domanda e offerta.

Le tensioni geopolitiche e, dal 24 febbraio 2022 in poi, la guerra in Ucraina, hanno ovviamente amplificato il problema.

Date queste premesse, tuttavia, è molto pericolosa l’attitudine attuale delle banche centrali, dove i “falchi” stanno riprendendo il controllo della situazione e stanno spingendo ad adottare la consueta ricetta. Inflazione troppo alta ? meno moneta, meno credito, tassi più elevati.

Azioni di questo tipo non risolvono le strozzature dal lato dell’offerta. Possono certo, ripristinare l’equilibrio con la domanda, ma solo al prezzo di una recessione pesantissima.

Le azioni da adottare sono altre. Mitigare l’impatto sui prezzi al consumo riducendo tasse e altri oneri che gravano su consumatori e aziende. Meno accise, meno IVA, meno oneri di sistema.

Spingere sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento di componenti, materie prime ed energia, con gli investimenti necessari. Mettendo in conto ovviamente che i tempi per ottenere risultati non sono immediati. Però bisogna cominciare.

E poi lasciare che alcune strozzature si risolvano da sé, cosa che in una certa misura avverrà. Le strozzature peraltro sono state aggravare da fenomeni di accaparramento, create dal panico generato via via che le aziende prendevano atto della situazione (“manca la roba !”). Panico amplificato dalla speculazione. Questi sono fenomeni che rientrano, in tempi non lunghissimi.

Come spiegavo in altra sede, non servono tassi d’interesse massicciamente più alti. Non servono pesanti restrizioni al credito. Anzi.

Servono MAGGIORI deficit di bilancio pubblico, per abbattere gli oneri fiscali su energia e beni alimentari (in primo luogo) e per incentivare gli investimenti in fonti di approvvigionamento alternative.

Serve POLITICA FISCALE ESPANSIVA (ben impostata e ben calibrata), non politica monetaria restrittiva.

 

venerdì 8 aprile 2022

La battaglia della Moneta Fiscale

Da un po' di tempo circolava, all'interno del Gruppo Moneta Fiscale, l'idea di pubblicare un libro in merito alle vicende che hanno portato all'elaborazione della proposta, ai risultati ottenuti, alle critiche, ai contrasti, ai passi effettuati e a quelli che verranno. Eccetera.

Stefano Sylos Labini ha rotto gli indugi e l'ha scritto e pubblicato.


Ne consiglio la lettura a tutti !

martedì 5 aprile 2022

A quali sacrifici sono disposto per la pace

 

Che cosa sarei disposto a sacrificare per la pace in Ucraina ? che cosa dovrebbero essere disponibili ad accettare, i cittadini dell’occidente ?

Da qualche giorno la domanda rimbalza con maggiore frequenza, sui media occidentali, dopo le notizie relative ai crimini di guerra russi a Bucha.

Una doverosa premessa è che per formarmi un’opinione su quanto è avvenuto, ritengo necessarie informazioni verificate da un’autorità neutrale la cui competenza e indipendenza sia al di sopra di ogni sospetto. Al momento abbiamo denunce occidentali e negazioni russe. Nessuna delle due fonti è affidabile, durante un conflitto nessuna fonte di parte lo è. Appunto per questo, una riedizione della fialetta di Colin Powell anche no, grazie.

Ciò detto, per quanto mi riguarda non sono disposto a prendere in considerazione il blocco delle importazioni di gas dalla Russia in assenza di chiarimenti molto esaustivi su tre cose.

La prima: una dimostrazione convincente che l’eventuale blocco delle importazioni europee di gas dalla Russia aumenterebbe in modo significativo le possibilità di fermare Putin. Ho forti dubbi. Il gas russo lo possono vendere anche altrove. A un prezzo che probabilmente sarebbe più alto dell’attuale, perché il mercato reagirebbe con aumenti a ulteriori tensioni e discontinuità. E a privarsi di una risorsa essenziale sarebbe la UE, non la Russia.

La seconda: chiare e ben strutturate azioni di profonda revisione dell’eurosistema, anche mediante l’introduzione e il potenziamento di strumenti di Moneta Fiscale, per mitigare il più possibile i danni all’economia della UE, dell’Eurozona e soprattutto dell’Italia.

La terza: una precisa definizione e tempistica delle azioni per sostituire il gas russo. Con quali investimenti, con l’attivazione di quali approvvigionamenti alternativi, con quali tempi.

Se queste domande non ricevono risposte TOTALMENTE adeguate, un ipotetico blocco delle importazioni di gas è follia allo stato puro. Produrrebbe danni devastanti A NOI, senza aiutare in alcun modo l’Ucraina e senza avvicinare nemmeno di un minuto la conclusione delle ostilità.

sabato 2 aprile 2022

Incremento delle spese militari: i miei dubbi


I media di regime, i giornaloni paludati, sono totalmente allineati e coperti nel sostenere l'aumento delle spese per la difesa. Con piena adesione e supporto a Draghi, che in caso di dissenso parlamentare minaccia addirittura di dimettersi.

Sul riarmo dell’Italia, io sono molto perplesso, per un paio di ragioni.

L’Italia può anche dotarsi di un esercito più aggiornato tecnologicamente, e potenzialmente più efficace. Ma rimane un paese poco incline all’uso della forza militare. Vogliamo dire che siamo un popolo imbelle ? personalmente non lo ritengo un insulto. Il mondo sarebbe un posto migliore se l’umanità fosse, nel suo complesso, meno belligerante, meno violenta.

Il dato di fatto, comunque, è che anche se l’Italia fosse il paese meglio armato del mondo, non la vedo fare nulla di diverso rispetto alle azioni in cui è stata impegnata dopo il 1945. Supporto logistico, interposizione, peacekeeping. Mai veri e propri impegni in combattimento.

Certo, diceva Napoleone – non uno sprovveduto, specialmente in merito a questi argomenti – “se non vuoi pagare per il tuo esercito, pagherai per quello di un altro”. Ma nel caso dell’Italia la mia opinione è che siamo comunque destinati a pagare per il nostro E ANCHE per uno altrui. Perché il nostro in ogni caso non lo useremo. E non spaventeremo nessuno con la minaccia di usarlo. Quindi, al contrario di quanto si sente dire, non avremo maggior peso negoziale in chissà quali tavoli.

L’esercito italiano non farebbe paura neanche se fosse molto più attrezzato, perché a un’Italia aggressiva non si crede. Tanto vale allora non spenderci troppi soldi.

Il riarmo, tanto per essere chiari, ha tutta l’aria di essere una richiesta fortemente caldeggiata di chi le armi le produrrà e venderà. Che per pura coincidenza (beninteso) sono soggetti molto influenti nei confronti degli editori dei giornaloni paludati (quando non sono le medesime persone…).

Dalla perplessità però passo rapidamente all’indigeribilità, nei confronti delle proposte di riarmo, nel momento in cui Draghi e i suoi corifei la presentano come una necessità imprescindibile – NELLO STESSO MOMENTO in cui insistono a non avviare un grosso scostamento di bilancio pubblico per ALTRE finalità, queste sì necessarissime. Sostegni alle famiglie. Sostegni alle aziende. Mitigazione della crisi energetica e alimentare.

E mentre si continua a fare resistenza al potenziamento della Moneta Fiscale, uno strumento formidabile per ridare all’economia italiana le necessarie leve d’intervento.

Draghi si rivela molto, ma molto, ma MOLTO deludente. Sempre di più.