giovedì 30 dicembre 2021

Il sei per mille di Amato

 

Riaffiora il nome di Giuliano Amato come possibile prossimo presidente della repubblica, e Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa commenta tra le altre cose che gli viene imputato “il prelievo forzoso del sei per mille sui depositi bancari che – insieme a una finanziaria da 93mila miliardi – servivano a salvare l’Italia dalla bancarotta e dall’isolamento”.

Vicenda questa avvenuta nel luglio del 1992. Il prelievo del sei per mille colpì molto – in negativo – l’immaginazione collettiva perché aveva tutta l’aria di una sgraffignata avvenuta con il favore delle tenebre.

In realtà si trattò di un’azione molto più di immagine che di sostanza. Difficilmente una famiglia media, a quei tempi, teneva in banca sui conti più di una decina di milioni di lire. La liquidità la si parcheggiava in BOT e CCT, felici di portarsi a casa rendimenti del 7%, 10%, 12% (lo lascio come informazione storica a beneficio dei fenomeni che ripetono come un disco rotto “ma chi mai comprerebbe titoli di Stato in lire ?").

Il sei per mille di dieci milioni sono 60.000 lire, trenta euro odierni; che a potere d’acquisto attuale corrispondono a 50-60.

Se ti sfilano di tasca cinquanta o sessanta euro non sei felice, ma è difficile pensare che qualcuno abbia avuto difficoltà economiche per una cosa del genere. Certo, in quel periodo non mancarono storie dell’orrore di chi prese una legnata perché aveva trecento milioni sul conto, dovendosi recare due giorni dopo dal notaio a rogitare l’acquisto di una casa. Ma furono episodi del tutto isolati (non che questo consolasse chi ne fu colpito, ovviamente…).

Impattarono molto meno l’immaginazione, ma molto di più il portafogli, altre azioni attuate in quel fatidico 1992. Per esempio, l’introduzione dell’ICI (poi diventata IMU).

Quella che trovo desolante, tuttavia, è l’affermazione della giornalista, secondo la quale tutto ciò sarebbe stato necessario per “salvare l’Italia dalla bancarotta e dall’isolamento”.

MA ANCORA QUI, SIAMO ?

L’Italia non era minimamente a rischio bancarotta nel 1992. Il debito pubblico era in lire e ovviamente la nostra banca centrale era totalmente in grado di assicurarne il rifinanziamento.

Le azioni di Amato non servivano a evitare nessuna bancarotta. Tentavano di evitare un’altra cosa: la rottura dello SME, cioè del sistema di cambi fissi che legava le varie monete europee.

Obiettivo fallito. Dato che la Banca d’Italia poteva emettere lire ma non poteva emettere marchi o fiorini o franchi francesi, le azioni attuate nel luglio del 1992 non servirono affatto ad evitare l’uscita dallo SME e il riallineamento valutario, che infatti avvenne nel settembre 1992. Solo due mesi dopo.

Tutto questo sprofondò l’Italia nell’”isolamento” ? ovviamente no. Tra l’altro, dallo SME uscirono, insieme all’Italia, parecchi altri paesi, tra cui Regno Unito e Svezia.

Regno Unito e Svezia che fecero poi tesoro dell’esperienza – e non entrarono nell’euro. Senza che tutto questo li abbia isolati da nulla, peraltro.

Questa è una storia così nota e analizzata che trovo letteralmente sbalorditivo come chi scrive sui giornaloni paludati, su Stampubblica o sul Corsole, faccia finta di ignorarla.

O magari la ignora sul serio. Che non è un’attenuante.

 

martedì 28 dicembre 2021

L’economista eurista non conosce la partita doppia

 

L’ho notato già altre volte. Più sfondoni macroeconomici prendi, più hai possibilità di far carriera nel magico mondo delle istituzioni eurozoniche.

Qui abbiamo un articolo di Ignazio Angeloni, non proprio un quisque de populo dato che è un membro del supervisory board della BCE.

La tesi dell’articolo di per sé è straordinariamente strampalata. Dato che, dice il nostro Ignazio, lo stato di salute delle banche sembra, nonostante la pandemia, tutto sommato decente; e dato che è così perché il settore pubblico ha fornito ampi sostegni; occorre affrettarsi a rimuoverli (i sostegni) perché altrimenti dopo “sarebbe troppo tardi”.

Come dire, ti hanno ingessato un piede però riesci bene o male a camminare perché ti hanno dato una stampella. “Quindi” butta via la stampella ADESSO, perché se no quando ti toglieranno il gesso…

Se no, cosa ?

Mi pare opportuno, comunque, mettere in evidenza un passaggio dell’articolo che rispetto al resto potrebbe passare inosservato. La seguente frase: “finanziare il credito aggiuntivo non è stato un problema, per i massicci interventi della BCE e per il fatto che famiglie e imprese, non potendo spendere, hanno versato i loro soldi in banca”.

Le parole in corsivo (corsivo mio) costituiscono lo stesso tipo di castroneria che ho segnalato parecchie volte, analizzando dichiarazioni di politici e giornalisti. I quali politici e giornalisti quantomeno hanno l’attenuante di non essere economisti di professione.

Angeloni invece lo è. E tuttavia non si rende conto di una cosa.

Certo, durante i lockdown sono stati stanziati sostegni e, in generale, incrementi di deficit pubblico. Certo, famiglie e imprese in buona parte li hanno risparmiati, essendo impossibilitati a spendere a livelli normali.

Ma se ne avessero spesi una maggior quota, i soldi “versati in banca”, ovvero i depositi presso il sistema bancario, non sarebbero diminuiti neanche di un centesimo.

Perché ? ma per l’elementare ragione che quando spendo, trasferisco soldi dal mio conto corrente al conto del beneficiario della spesa. Scende il mio conto ma sale quello di chi mi ha venduto un mobile, un’azione, una cena al ristorante – qualsiasi cosa.

I “soldi versati” nelle banche italiane sarebbero invece diminuiti (rispetto alla situazione attuale) se le famiglie e le aziende che hanno ricevuto i sostegni li avessero usati per incrementare i loro acquisti netti di beni, servizi o attività finanziarie estere.

Altrimenti detto, Angeloni avrebbe dovuto scrivere “finanziare il credito aggiuntivo non è stato un problema, per i massicci interventi della BCE e per il fatto che non si sono verificati peggioramenti della bilancia dei pagamenti italiana”.

A qualcuno sembrerà una pignoleria. Ma che un membro del supervisory board della BCE commetta un elementare errore di partita doppia, a me preoccupa.

Molto.

 

domenica 26 dicembre 2021

Regole fiscali UE: complicare per non risolvere

 

Pochi giorni fa, è uscito sul Financial Times un articolo a firma congiunta Draghi – Macron: argomento, la necessità di modificare il Patto di Stabilità e Crescita dell’Unione Europea.

La proposta Draghi-Macron dovrebbe trovare la sua applicazione tecnica in un paper redatto a otto mani da Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni e Charles-Henri Weymuller. Paper il cui link fa bella mostra di sé a fianco dell’articolo Draghi-Macron, nella medesima pagina del sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Beh, senz’altro qualcun altro (oltre a me) si prenderà la briga di leggerlo, approfittando anche del tempo libero tra Natale e Capodanno (chi non scia e chi non fa vacanze in posti esotici, quanto meno – in questo possono essere “d’aiuto” le restrizioni Covid, che non inducono a grandi spostamenti).

Io l’ho letto dicevo, e la lettura non mi ha confortato. Dove è andata a finire la volontà di semplificare regole e meccanismi ? qui abbiamo: la creazione di una European Debt Management Agency che dovrebbe assorbire l’incremento di debito pubblico generatosi durante la pandemia (ma forse anche durante la crisi Lehman 2008-9); l’estrapolazione dal calcolo del deficit di quelle che verrebbero considerate “spese per il futuro”; la separazione del debito in componenti “a rientro veloce” e “a rientro lento”; la distinzione tra investimenti green e tutto il resto; e altre amenità.

L’applicazione di un aggeggio di questo genere comporterebbe difficoltà e incertezze interpretative forse, probabilmente, anche peggiori dell’assetto attuale. Da risolversi, alla fine – come è sempre avvenuto in passato – con discutibilissime decisioni che la Commissione Europea non mancherà di prendere sulla base della maggiore o minore “simpatia” che le ispirano i singoli governi.

Ed è difficilissimo capire che livello di spazio fiscale incrementale, cioè di maggior deficit pubblico consentito nelle varie circostanze di ciclo economico, ogni paese otterrà (ammesso che lo ottenga).

Tutto questo per (provare a) risolvere un problema creato dal nulla. Il deficit pubblico è una modalità per immettere moneta nel sistema economico, e il debito uno strumento offerto ai privati per impiegare il risparmio privato che il deficit INEVITABILMENTE produce. Avendo trasformato in debito “da sottoporre al giudizio dei mercati” quello che tutti gli altri paesi del mondo possono, quando gli pare e piace, far acquistare dalla loro Banca Centrale, l’Eurozona si trova impigliata in un groviglio di meccanismi che la pongono in una situazione di pesante svantaggio competitivo nei confronti di USA, Cina e resto del mondo in genere.

In pratica, la visione del paper è da "keynesiani da salotto". Sì, cerca di correggere le assurde prescrizioni di austerità implicite nell’attuale governance dell’Eurosistema, ma sempre avendo in mente che deficit e debito pubblico impoveriscono il paese che li pone in atto.

Il che è semplicemente falso. Il deficit immette potere d’acquisto nell’economia, e il debito offre un impiego ai risparmiatori privati. Vanno gestiti per evitare eccessi d’inflazione, ma NON bisogna partire dal presupposto che deficit e debito impoveriscano il paese che li attua. ASSOLUTAMENTE NO.

E, en passant, BASTA ripetere che “l’Italia è un paese ad alto debito”. L’Italia è CREDITRICE NETTA SULL’ESTERO. Debito pubblico e altre passività finanziarie detenute da residenti esteri sono d’importo INFERIORE agli attivi verso l’estero dei residenti italiani.

Tornando al paper, quanto ipotizzato sostituirebbe un sistema ferraginoso, inefficiente, e fondato su principi sbagliati con un altro che invece pure. Un modesto passo avanti forse – forse – lo può produrre; ma insufficiente.

Sarebbe bello che Draghi e Macron mettessero invece sul tavolo comune di discussione qualcosa di molto più semplice, e di realmente risolutivo.

Come la Moneta Fiscale.

 

domenica 19 dicembre 2021

La politica “che non sa dare risposte”

 

Mi fanno sorridere le affermazioni che si leggono / sentono tutti i giorni, in merito ai successi di Mario Draghi. I quali successi sarebbero l’indicazione che “la politica non sa dare risposte, ci è voluto un non politico per ottenere dei risultati”.

Sui risultati in effetti sarebbe lecito smorzare un po’ gli entusiasmi (come, bisogna riconoscere, Draghi stesso non manca di fare).

Il PIL nel 2021 è rimbalzato, ma ha recuperato solo in parte il calo del 2020. E il rimbalzo l’hanno fatto due cose: le riaperture e la liquidità immessa nel sistema economico con i vari DL ristori, sostegni ecc. Inclusa la molto significativa, anche se parziale, applicazione della Moneta Fiscale attuata con il Bonus 110.

Tutte cose che, è corretto ammettere, aveva avviato e in larga misura attuato il governo Conte 2.

Lasciamo poi perdere il PNRR e il Recovery Fund. Non solo perché pure quelli sono stati varati durante il governo precedente, ma anche e soprattutto perché da lì sono arrivati pochissimi spiccioli – sostanzialmente a debito e fortemente vincolati e condizionati – che, è lecito sospettare, all’economia italiana faranno più male che bene. E che comunque non hanno avuto impatto sui risultati 2021.

Mi astengo dal giudicare i risultati del contrasto al Covid. Limitandomi a constatare che il problema non è risolto, nonostante le restrizioni (la cui efficacia è perlomeno discutibile).

Di meglio rispetto a Conte, di sicuro, Draghi ha l’immagine promossa dai media paludati. Questo però non significa che Draghi sia meglio o peggio di Conte. Significa che è apprezzato dall’establishment, perché è uno di loro.

Il che mi conduce a una semplice constatazione. Anche volendo ammettere (e, come visto, ancora la prova provata non c’è) che Draghi, da non politico, sia in grado di ottenere risultati che i politici non conseguono, la ragione è (sarebbe) che Draghi ha spazi d’azione che ai politici non vengono concessi.

Io mi auguro, ad esempio, che Draghi (se resterà al governo ancora per tutto il 2022) possa ottenere la revisione del Patto di Stabilità e delle regole di funzionamento dell’Eurozona che sono (e lo dice lui per primo) assolutamente indispensabili. Ma vi ricordate gli psicodrammi mediatici, l’Italia messa alla berlina come irresponsabile sfasciacarrozze, i populisti brutti e cattivi additati come pericoli per la stabilità finanziaria europea se non mondiale, quando si discuteva se il deficit pubblico potesse arrivare all’1,8%, al 2,4%, al 2,04% ?

Draghi è “uno di loro” (loro essendo l'establishment, non i populisti...) quindi ha spazi di azione e forse (forse) può ottenere dei risultati.

I politici, abbiano o non abbiano buone idee, semplicemente non hanno leve di azione, perché sono ingabbiati dagli infernali euromeccanismi e vincolati in tutte le direzioni dalle élites.

Si può discutere se la politica italiana sappia o non sappia “dare risposte”. Ma il punto non è quello. Il punto è che va al governo con poteri molto più di forma che si sostanza.

Non è così da oggi, è sempre più così da quando esiste l’euro e in particolare da dieci anni in qua, da quando la crisi dei debiti sovrani ha portato alla rimozione di Berlusconi.

Intendiamoci, meglio lo scaltro Draghi che il catastrofico Monti. Però se abbiamo Draghi, e se molti (me compreso) trovano che il meglio, o il meno peggio, sia che continui a condurre le danze, il motivo non è che non esiste (in teoria) un direttore d’orchestra alternativo. È che il direttore alternativo si troverebbe senza bacchetta, senza spartito e senza orchestra.

Ve la dico ancora più chiaramente: il punto non è se la politica sappia o no dare risposte. Il punto è che la politica, gradualmente ma in maniera sempre più spinta, in particolare da dieci anni a questa parte, è stata espropriata del suo ruolo.

A qualcuno farà piacere. A me no. Non perché provi sconfinata ammirazione nei confronti di un particolare politico, ma perché vedo cos’era l’Italia 30, 20, 10 anni fa, e vedo cos’è oggi.

 

martedì 14 dicembre 2021

Un chiarimento sui Conti di Risparmio

 

Nell’ambito del pacchetto di disegni di legge attualmente sotto esame da parte della Commissione Finanze del Senato, oltre a vari provvedimenti che costituiscono applicazioni della Moneta Fiscale, c’è anche la proposta di introdurre Conti di Risparmio gestiti dal MEF.

I Conti di Risparmio (CdR) sono a volte anche denominati Moneta Elettronica del Tesoro. In pratica si tratta di offrire la possibilità di aprire conti correnti a vista presso il MEF, senza scadenza.

Il titolare potrebbe in qualsiasi momento chiedere il rimborso del suo CdR in euro, come farebbe con un normale deposito bancario. Ma sarebbe anche possibile utilizzare i CdR per effettuare pagamenti nei confronti di altri soggetti, purché la controparte sia disponibile ad accettarli. A tutti gli effetti pratici, l’idea è di creare conti correnti simili a quelli bancari, ma presso il MEF e non presso una banca.

I CdR sarebbero, senza alcun dubbio, debito pubblico, perché si tratterebbe di una passività dello Stato di cui può essere richiesto il rimborso in euro. Costituirebbero in effetti un canale diretto di finanziamento della spesa pubblica. Per esempio, un dipendente statale potrebbe essere assunto con l’accordo che lo stipendio gli venga pagato in CdR. Idem per un’integrazione pensionistica, un sussidio, eccetera.

Inoltre può essere concessa, ai possessori di titoli di Stato, la facoltà di convertirli in CdR. L’idea è fare meno affidamento sui BTP – strumento  d’eccellenza per il trading speculativo, condizionato dalle oscillazioni dello spread – e più su una forma di canalizzazione del risparmio privato al dettaglio, tendenzialmente stabile.

Fin qui tutto OK. L’equivoco che vorrei chiarire, tuttavia, è il seguente. Alcuni dei proponenti apparentemente sono convinti che i CdR consentirebbero allo Stato di accedere a risorse finanziarie supplementari. Come ? offrendo CdR a risparmiatori non contro conversione di titoli di Stato in circolazione, ma fronte di euro.

In pratica si tratterebbe di dire al titolare di un normale conto corrente bancario: preleva 1.000, 10.000, 100.000 euro dalla tua banca e depositali presso il MEF, sotto forma, appunto, di CdR.

Si può fare, ma in questo modo si aumenta automaticamente il debito pubblico – perché i CdR sono debito. E se gli euro raccolti vengono spesi, aumenta anche il deficit.

Non ci sono quindi soldi in più da spendere, a meno che non vengano modificati i limiti di deficit e di debito. Ma qui il tema è la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, non l’emissione di CdR.

E per la revisione del PSC, sapete come la penso. La via da percorrere è la Moneta Fiscale.

domenica 12 dicembre 2021

Ma il PD vuole il male dell’Italia ?

 

Dico il PD ma potrei scrivere “l’establishment europeista”. Quest’ultimo ovviamente non si identifica totalmente con il PD, che però ne costituisce il nocciolo, il “nucleo duro”. Quindi scrivo PD, che è anche una comoda (in quanto sintetica) sigla identificativa.

Allora, la mia opinione non è che il PD voglia il male dell’Italia. Sono convinto che il PD sia composto da gente mediamente e prevalentemente per bene. Non da serial killer, non da sociopatici.

Semplicemente, il PD desidera il bene dell’Italia, ma lo desidera come obiettivo subordinato, non come obiettivo prioritario.

L’obiettivo prioritario è la cessione di poteri all’Unione Europea. Che ha il non sgradito effetto collaterale, beninteso, di garantire incarichi e carriere agli esponenti del PD ("non sgradito" da loro stessi, s’intende).

Un obiettivo subordinato non è un obiettivo di poca importanza. Ha solo il difetto di essere, inevitabilmente, messo da parte quando entra in conflitto con l’obiettivo prioritario.

Per esempio: credo che la maggior parte dei membri del PD, quantomeno tra quelli che possiedono un minimo di cultura economica, si rendano conto che la governance dell’Eurozona è, diciamo così, “carente”.

E credo che siano assolutamente sinceri nel desiderare di cambiarla.

Però l’obiettivo prioritario fa sì che il cambiamento, se non è accettato da Bruxelles, non possa essere perseguito. “Che ci volete fare, io glielo dico, ma quelli niente… però ci riprovo, tranquilli…”.

Sono passati dieci anni dall’esplosione dell’Eurocrisi, c’è stata pure una pandemia mondiale, ma qui ancora siamo.

E non va bene, al PD (a tutti gli altri sì), neanche la Moneta Fiscale, perché riporta all’interno degli Stati una serie di leve di controllo dell’economia.

Non hanno reali obiezioni. È inutile chiedere che cosa c’è che non funziona, nella Moneta Fiscale e nei CCF.

Funziona tutto meno (dal punto di vista del PD) una cosa sola: l’obiettivo subordinato è subordinato, e l’obiettivo prioritario è prioritario.

 

giovedì 9 dicembre 2021

Correzione del mercato azionario ?

 

Chiacchierando su Facebook con Paolo Cardenà, mi trovo in sintonia con le sue opinioni in merito ai livelli della borsa USA.

Il consensus tra noi due si può riassumere, a mio parere, come segue:

UNO, c’è una sopravvalutazione.

DUE, facendo riferimento alla “costante di Siegel” misurata come differenza media storica tra rendimenti del mercato azionario e inflazione, la sopravvalutazione può essere stimata nel 40-50% circa.

TRE, non è una sopravvalutazione esasperata quanto la bolla del 2000, che può essere tranquillamente valutata intorno al 100%. Peraltro quello è stato il peggior episodio di overpricing, quantomeno degli ultimi cent’anni o giù di lì.

QUATTRO, una correzione anche significativa è possibile se i tassi d’interesse saliranno. Eventualità però, sottolineo io, non scontata in quanto anche chi teme che l’inflazione sia persistente comincia a capire che alzare i tassi per contrastarla rischia di essere inefficace. Soprattutto perché la salita dei prezzi è un fenomeno in parte significativa dovuto a strozzature di offerta: e alzare i tassi non fa magicamente comparire capacità produttiva di semiconduttori, componenti, materie prime, trasporti eccetera.

CINQUE, interessante osservazione di Paolo: i tassi reali potrebbero salire, anche se i tassi nominali non venissero aumentati, proprio se e in quanto l’inflazione si modera. E questo potrebbe non far bene ai valori azionari. Controintuitivo, ma plausibile: oggi la spinta a mettere soldi sul mercato azionario, nonostante le elevate valutazioni, deriva molto dal fatto che la liquidità rende zero in termini nominali e perde valore in termini reali. Se l’inflazione scende, la “pena” di tenere soldi liquidi diventa un po’ meno acuta, e l’incentivo a investire sull’azionario, quindi, potrebbe diminuire.

martedì 7 dicembre 2021

Che senso ha pagare interessi sul debito pubblico ?

 

La banca centrale, o più precisamente l’istituto di emissione (che non ha nessun bisogno di essere una banca: la sua funzione potrebbe benissimo essere svolta da un dipartimento del ministero dell’economia) può fissare a suo piacimento i tassi d’interesse sul debito pubblico. Lo può fare perché è in grado di creare moneta, e di comunicare al mercato che si impegna ad acquistare i titoli in circolazione a un determinato prezzo. Impegno credibile per un soggetto emittente della moneta in cui sono denominati i titoli.

E in effetti non è neanche indispensabile che lo Stato emetta titoli. Se controlla l’istituto di emissione, può spendere moneta di nuova creazione. In tal modo, crea risparmio privato: la moneta emessa con la spesa pubblica rimane nel sistema economico.

L’offerta di titoli di debito pubblico non è, quindi, necessaria per finanziare lo Stato. Svolge invece un’altra funzione: offrire ai privati una forma di impiego a basso rischio del risparmio che si è generato, appunto, tramite la spesa pubblica netta (cioè per effetto dei deficit pubblici).

Che senso ha, quindi, pagare interessi sul debito pubblico ?

Ci sono due finalità. La prima è, appunto, garantire ai risparmiatori privati un minimo di rendimento sul proprio risparmio. Un titolo a breve scadenza (o anche un deposito in conto corrente presso il ministero dell’economia) potrebbe ad esempio offrire un rendimento pari al tasso d’inflazione corrente, in modo da garantire la stabilità del potere d’acquisto del risparmio.

La seconda è fissare un tasso soglia di rendimento. Soglia nel senso che questo tasso dovrà, come minimo essere garantito dal sistema bancario al risparmiatore. E sarà anche il tasso minimo richiesto dagli istituti di credito a chi prende a prestito.

Perché questo ? perché non ha senso lasciare depositi in banca a tassi inferiori a quelli a cui è possibile comprare titoli di Stato a breve termine (o depositare presso l’istituto di emissione). Né ha senso, per una banca, erogare credito a un tasso inferiore a quello garantito dall’acquisto di titoli di Stato.

Pagare interessi sul debito pubblico ha quindi almeno due finalità, senz’altro legittime. Il punto da aver chiaro, tuttavia, è che uno Stato che emette la propria moneta NON ha un vincolo di mercato che impone di contenere la spesa, il deficit, il debito “perché altrimenti gli investitori ci penalizzano chiedendo maggiori interessi”. Il tasso d’interesse è una scelta di POLITICA ECONOMICA. Politicamente, si decide che quota di spesa pubblica destinare a remunerazione del risparmio. Politicamente, si decide come intervenire, rendendola più o meno oneroso, sull’erogazione di credito privato.

Tutti gli articoli che leggete sui giornaloni paludati, che praticamente ogni giorno lanciano strali e ammonimenti sui rischi derivanti dai tassi d’interesse che “non potranno rimanere così bassi all’infinito”, e che “potrebbero schizzare se l’indisciplina prendesse piede nella gestione della finanza pubblica” nascono SOLO da un assetto economico-monetario disfunzionale. Dal fatto che l’Italia usa una moneta straniera.

Emettendo la propria moneta, non si è soggetti a vincoli di finanza pubblica. Emettendo la propria moneta, ci sono limiti all’espansione monetaria e al sostegno al potere d’acquisto della collettività, ma sono dati dall’inflazione, non dai mercati finanziari.

sabato 4 dicembre 2021

Panico per l’inflazione ? anche no

 

L’indice dei prezzi al consumo ha raggiunto tassi d’incremento molto alti (in confronto all’esperienza storica recente). I dati preliminari per novembre 2021, armonizzati come da metodologie UE, mostrano per l’Italia un livello (fatta pari a 100 la media 2015) di 107,4: +4,0% rispetto a novembre 2020. Una variazione che non si vedeva dal 1997, se non vado errato. Quasi un quarto di secolo.

Prima di farsi prendere dal panico, però, suggerisco qualche brevissima riflessione.

Il livello a novembre 2019, poco prima che scoppiasse il Covid, era 103,6.

Il livello di novembre 2020, 103,3.

Certo, abbiamo registrato un +4,0% negli ultimi dodici mesi. Ma questo dopo un -0,3% nei dodici mesi precedenti.

La media annua della variazione per il periodo novembre 2019 – novembre 2021 è il 2% (qualche centesimo di meno per essere pignoli). Il famoso livello-obiettivo BCE, niente di più. E un periodo di due anni è più significativo di periodo di dodici mesi. Perché è più lungo, e perché confronta una situazione di normalità con una in cui le cose alla normalità (perlomeno a livello di produzione e di consumi) stanno tornando.

In altri termini, fin qui abbiamo visto semplicemente un recupero del trend precedente. Un rimbalzo dei prezzi dopo un anno di inflazione pressoché azzerata dalle restrizioni all’attività economica.

Stesso discorso se ragioniamo sulle medie per anno solare. Tra 2019 e 2020 si passa da 103,2 a 103 (-0,2%). La previsione per il 2021 (ormai quasi finale, visto che siamo a dicembre) è 105. Ancora +2%.

È legittimo pensare che quando tra qualche anno guarderemo al periodo 2019-2021, i grafici non indicheranno altro che un annetto di appiattimento della curva dei prezzi, seguito dal ritorno alla normalità.

Questo è anche il ragionamento che stanno facendo in BCE, il che spiega la riluttanza ad azzerare il QE, per non parlare ad aumentare i tassi d’interesse.

Può darsi che si sbaglino. Ma i dati, che pure fanno impressione e producono titoli di giornale alquanto vistosi, non dimostrano che su questo argomento la BCE sia in errore.

mercoledì 1 dicembre 2021

Le criptovalute non risolveranno l’eurocrisi

 

Wolfgang Munchau, opinionista molto impegnato a descrivere e commentare le vicissitudini dalla UE e dell’Eurozona, segue anche con parecchio interesse lo sviluppo delle criptovalute. E leggerlo è spesso interessante. Non riesco però a condividere l’opinione espressa in questo articolo, secondo la quale le cripto potrebbero non solo sconvolgere il sistema monetario mondiale, ma anche risolvere l’eurocrisi. Come ? sostituendo progressivamente e quindi rendendo (in pratica) inutile il disfunzionale euro.

Non riesco a condividere le sue opinioni in primo luogo perché non è vera l’affermazione che “bitcoin is a volatile asset, for sure, but remember that this volatility only exists because we reference the value of a bitcoin to the dollar. Volatility only ever exists against some reference”.

Eh no. Certo, il valore oscilla bilateralmente: il bitcoin è volatile contro dollaro così come il dollaro è volatile contro bitcoin. Ma il problema è che il bitcoin è volatile anche contro un paniere di beni e servizi. Il dollaro e l’euro, anche in questo periodo di ripresa dell’inflazione, oscillano nei confronti della media dei beni di consumo del 4-6% su base annua. Negli ultimi anni (e probabilmente nei prossimi, altrimenti le autorità fiscali e monetari dovranno intervenire) dell’1-3%.

Il valore del bitcoin può invece variare del 50%, in più o in meno, nell’arco di pochi mesi. Contro dollaro, contro euro, e contro il conto della spesa. Pagare il supermercato in bitcoin appare alquanto scomodo, eufemismo per non dire del tutto impraticabile: la moneta corrente deve mantenere un rapporto di valore sufficientemente stabile nei confronti dei prodotti per il cui acquisto viene quotidianamente utilizzata. Le criptovalute non rispettano minimamente questo requisito.

Più avanti, nell’articolo leggiamo che “during the euro area’s sovereign debt crisis, economists in Greece and Italy toyed with the idea of a parallel currency, in the disguise of a short-term debt instrument. In Italy, they were known as minibots. They were a clever idea, but ultimately doomed because they were subject to institutional support and legal constraints. A parallel criptocurrency would be a much more flexible instrument”.

Munchau non è molto al passo: non sa che gli sconti fiscali negoziabili, quali i CCF, non sono debito; che sono uno strumento molto più versatile ed efficiente dei minibot; e che nel frattempo hanno già preso parzialmente, ma significativamente, piede, in Italia, con i vari bonus fiscali (tra cui soprattutto il bonus immobiliare 110%).

Ma il punto è un altro. La Moneta Fiscale è uno strumento che ridà leve d’azione alla politica economica degli Stati perché può essere emessa fiat. Le criptovalute, al contrario, derivano il loro valore (a torto o a ragione: io ho i miei dubbi che questo supporto di valore abbia un senso logico, e sia destinato a durare – ma questo è un altro discorso) dalla scarsità. C’è un numero massimo di bitcoin che può essere prodotto mediante mining, ed è un limite assoluto, invalicabile.

Il bitcoin come strumento di politica economica anticiclica, in grado di promuovere il pieno impiego, è proprio per questo una contraddizione in termini. Nasce per essere scarso, e la sua scarsità è più rigida e assoluta – MOLTO più rigida e assoluta - di quella dell’euro. Come si fa ad attuare politiche economiche anticicliche utilizzando i bitcoin ? Come posso rilanciare l’economia e farla uscire da una depressione, usando un’attività finanziaria che non posso produrre in maggiori quantità ?

Forse le criptovalute sopravviveranno e forse no. Forse sorprenderanno ulteriormente chi, come me, sospetta che il loro straordinario successo sia una bolla destinata a scoppiare.

Ma per risolvere l’eurocrisi, meglio guardare altrove. Meglio guardare ai CCF e alla Moneta Fiscale.

 

sabato 27 novembre 2021

Un’ulteriore disfunzione dell’euro risolvibile con la Moneta Fiscale

 

La più grave disfunzione dell’eurosistema è, ritengo, costringere gli Stati a mettere in atto deficit pubblici utilizzando una moneta che gli Stati medesimi non controllano e che devono reperire indebitandosi sui mercati finanziari. Questo impedisce, in varie occasioni, di attuare le necessarie politiche macroeconomiche di stabilizzazione e di supporto alla crescita, e può creare effetti deflagranti quando devono essere contrastati shock macroeconomici. Il caso della crisi dei debiti sovrani, nei primi anni della decade 2010, è stato emblematico.

Forse al secondo posto in ordine di gravità delle disfunzioni, ma con distacco breve, c’è però la seguente. È estremamente difficile, anzi in moltissimi casi impossibile, definire una politica monetaria, un set di condizioni di tasso d’interesse e di accesso al credito, che funzioni in modo adeguato per diciannove paesi in condizioni strutturali e cicliche tra loro differenti.

Altrimenti detto, una politica troppo espansiva per alcuni finisce per essere contemporaneamente troppo restrittiva per altri.

Se vogliamo rendere omogenee le condizioni dei vari Stati, in misura tale da ottenere una politica monetaria centralizzata che sia sufficientemente adeguata per tutti, occorre diversificare le politiche fiscali. In altri termini, portare tutti gli Stati al pieno impiego delle risorse produttive – il che richiede politiche più espansive in alcuni paesi, e meno in altri.

Le politiche fiscali non possono quindi essere basate sul principio di contenere deficit e debiti pubblici sotto determinati livelli. Un paese può avere un alto debito pubblico ma crescita e inflazione troppo basse: è stata la situazione dell’Italia praticamente per tutta la decade 2010, e la causa è stata proprio l’imposizione di austerità fiscale motivata dalla (presunta) necessità di contenere il debito, ritenuto arbitrariamente “troppo alto”. Debito che non avrebbe creato assolutamente alcun problema se fosse rimasto denominato in lire.

Il consenso politico per modificare i trattati in modo da risolvere questa situazione non esiste. Non vedo quindi altre vie se non introdurre la Moneta Fiscale nei paesi che hanno necessità di politiche fiscali più espansive di altri, in quanto caratterizzati da inflazione più bassa e disoccupazione e sottoccupazione più elevata. Oggi (ma in realtà da molti anni) è in questa situazione l’Italia, rispetto alla Germania e alla media dell’Eurozona.

L’utilizzo della Moneta Fiscale rende possibile portare tutti i paesi al pieno impiego. A questo punto, ma SOLO a questo punto, una politica monetaria centralizzata può funzionare.

Una volta di più, si evidenzia che la Moneta Fiscale RISOLVE le disfunzioni dell’euro.

 

martedì 23 novembre 2021

Da chi dipendono le banche centrali

 

Secondo alcune opinioni, molto diffuse (anche se probabilmente oggi un po’ meno in che passato), l’indipendenza delle banche centrali sarebbe un bene prezioso, da difendere con le unghie e con i denti.

Una posizione che mi ha sempre lasciato estremamente perplesso.

Il potere di emettere e gestire la moneta è un fattore assolutamente di primaria importanza nella conduzione delle economie e degli Stati.

Può essere lasciato nelle mani di un organo autoreferenziale, svincolato da meccanismi di designazione e controllo, avulso da processi di scelta democratici ?

Il punto non è se le banche centrali debbano essere indipendenti o meno. Chiaramente, i banchieri centrali sono influenzati, quindi nei fatti sono dipendenti, da qualcuno.

Il punto è stabilire chi debba essere questo “qualcuno”.

Le alternative in ultima analisi si riconducono alle due seguenti.

La prima è considerare la banca centrale un organo dello Stato, la cui designazione e la cui azione debba rispondere a criteri di scelta e di vigilanza da parte delle istituzioni, e di conseguenza (se crediamo nella democrazia), da parte (almeno indirettamente) del corpo elettorale.

La seconda, è svincolare le banche centrali da tutto questo.

Se le svincoliamo da tutto questo, i banchieri centrali tenderanno a essere fortemente condizionati, quindi nei fatti diventeranno dipendenti, dalle grandi istituzioni finanziarie.

Per quale motivo ? perché i banchieri centrali sono corrotti ? no, perché provengono da quel mondo, sono legati a quel mondo, in molti casi al termine del loro mandato torneranno in quel mondo.

Intendiamoci, le grandi istituzioni finanziarie, i grandi interessi economici, esercitano una notevolissima influenza sui banchieri centrali anche se la banca centrale è al cento per cento dipendente dallo Stato.

A maggior ragione, questo legame, questa dipendenza dallo Stato, deve esistere: anzi ne è assolutamente indispensabile il rafforzamento.

Perché se il legame esiste, si crea una dialettica, sufficientemente equilibrata (si può sperare) tra esigenze dei poteri economici ed esigenze della popolazione, tra ortodossia monetaria e sviluppo economico inclusivo, tra tutela dei sistemi finanziari e salvaguardia dell’occupazione. E si genera una distribuzione del reddito e delle opportunità accettabilmente equa.

Altrimenti…

L’”altrimenti” l’abbiamo toccato con mano negli ultimi decenni.

giovedì 18 novembre 2021

Una domanda agli euroausterici tedeschi

 

A partire da quando Mario Draghi, nelle sue vesti (allora) di presidente BCE, ha pronunciato il famoso whatever it takes, e a maggior ragione da quando è stato avviato il Quantitative Easing, in Germania ci si lamenta a voce spiegata per l’erosione di potere d’acquisto di cui soffre il risparmiatore tedesco.

Tra le tante disfunzioni dell’Eurosistema, non è in effetti la più grave. Però è probabilmente quella più sentita dall’opinione pubblica a nord delle Alpi.

E in effetti non è un problema da poco. Per un risparmiatore che non vuole correre rischi, essere in grado di preservare quantomeno il potere d’acquisto, e magari ottenere un modesto rendimento reale, appare un obiettivo legittimo.

Invece, il rendimento dei bund è da anni in territorio negativo in termini nominali. Il che sembrava una distorsione insensata quando l’inflazione era bassa; figuriamoci oggi che in Germania supera il 4%.

Questo crea effettivamente una difficoltà al risparmiatore: non solo a chi compra bund a titolo personale, ma anche e soprattutto ai detentori di fondi e piani pensionistici (fondi e piani che sono i tipici grandi compratori di titoli a reddito fisso). Si rischia una pesante erosione, in termini di valore reale, delle rendite future.

Però… la domanda che mi pongo è: perché nessuno ha pensato a una semplice soluzione per risolvere, o quantomeno per mitigare fortemente, il problema ?

Che cosa impedisce al governo tedesco di aumentare il rendimento (o meglio il non-rendimento) dei suoi titoli di stato offrendo – ma SOLO ai cittadini tedeschi – una cedola integrativa, pari per esempio al 2% ?

Ovviamente questo incrementerebbe il deficit pubblico (a parità di condizioni).

Però in Germania dovrebbero quantomeno mostrare un po’ di coerenza. Piace avere i conti pubblici in pareggio, e il debito pubblico senza costi ovviamente in questo è di aiuto. Ma si desidera anche un po’ di rendimento finanziario per il risparmiatore.

Il fenomeno dei tassi nulli, o negativi, aiuta il primo obiettivo mentre ostacola il secondo. Ma è sempre lo stesso fenomeno.

Allora, cari amici tedeschi, non sarebbe il caso per una volta di prendere atto dei vantaggi (per voi, nella vostra opinione) del sistema, nel momento stesso in cui vi lamentate degli svantaggi ?

La mia proposta tra l’altro lascia la Germania in posizione di vantaggio netto, perché l’integrazione di cedola verrebbe assegnata solo ai cittadini tedeschi, mentre gli stranieri (che detengono una quota rilevante del debito pubblico tedesco) continuerebbero a subire i tassi negativi.

Perché è stato ignorato un meccanismo correttivo così semplice ? Spiegazioni di questo curioso strabismo dell’opinione pubblica e dei commentatori economici teutonici ? Boh. Non pervenute.

lunedì 15 novembre 2021

Che cosa piace alle élites

 

C’è un filo conduttore che collega una serie di azioni politiche. Le azioni che le élites amano perseguire, con un livello di entusiasmo sicuramente più spiccato rispetto a quello che suscitano nella maggior parte della popolazione.

In Italia, ad esempio, le élites sono fortemente convinte dell’utilità, per non dire della incontestabile necessità, di alcune cose tra loro (apparentemente) non collegate. Ad esempio, l’euro, il green pass e il green new deal.

Possono esserci valide motivazioni a sostegno della loro posizione. Ma anche non esserci. Personalmente ho alcuni dubbi (e anche alcune certezze, che vanno però in direzione esattamente opposta alla posizione delle élites. Vedi in merito all’euro).

Però, dicevo, c’è un filo conduttore innegabile.

Ritengo (a torto o a ragione) che la moneta unica sia necessaria, E ALLORA IMPONGO politiche economiche che devono rispettare una serie di vincoli.

Ritengo (a torto o a ragione) che il Covid possa essere sconfitto solo con una campagna di vaccinazione la più ampia possibile, E ALLORA IMPONGO il green pass.

Ritengo (a torto o a ragione) che l’umanità sia minacciata dal cambiamento climatico, E ALLORA IMPONGO l’auto elettrica, l’eliminazione delle plastiche e la decarbonizzazione integrale dell’economia.

Il filo conduttore è la parola “impongo”.

Le élites sono tali perché detengono autorità e potere. E chi detiene potere di regola vede con favore, in prima istanza, ogni motivo per esercitarlo e per incrementarlo.

Quindi ogni argomentazione che spinga verso la crescita dell’autorità e delle coercizioni tende a essere presa in considerazione con un occhio di riguardo, da chi fa parte del “circolo” che questa autorità la esercita.

Nei secoli scorsi, per ottenere questo risultato – per giustificare autorità e coercizioni – si utilizzavano, spesso e volentieri, le guerre.

Oggi si sono trovate altre vie e altri metodi (meno cruenti, e questo possiamo anche ottimisticamente giudicarlo un passo in avanti).

Ma le motivazioni e le finalità ultime, tanto diverse, in definitiva, non sono.

 

venerdì 12 novembre 2021

Inflazione, costi di produzione e redditi da lavoro

 

Ogni tanto qualcuno mi scrive / twitta / posta messaggi costernati, più o meno di questo tenore: “non ce la raccontano giusta ! dicono che l’inflazione è al 3% ! ma figurati ! ma lo sai quanto è cresciuto il gas / il petrolio / il legname / l’acciaio / la carta ! 50, 80, 100 per cento di rincaro !”

Bene, prima di dare la stura a teorie cospiratorie sull’Istat che falsifica i dati, invito a riflettere su quanto segue.

Il PIL italiano è pari a circa 1.800 miliardi. Le importazioni ammontano approssimativamente a 500. I redditi da lavoro (che sono costi, dal punto di vista delle aziende e dei datori di lavoro in genere) pesano intorno a due terzi del PIL, quindi 1.200 miliardi. 

I 500 miliardi di importazioni sono in parte, ma solo in parte, materie prime ed altri beni e servizi difficilmente sostituibili da produzioni interne. Gli input che l’Italia non può, o fa fatica a, rimpiazzare sono probabilmente stimabili in qualcosa come 100 miliardi, forse anche un po’ di meno.

I rincari che stiamo vedendo su tutta una serie di input produttivi raggiungono percentuali imponenti anche perché si confrontano con minimi raggiunti nel periodo di lockdown “duro”, primavera 2020.

Se ragioniamo sulle medie annue, le crescite rispetto al periodo pre-pandemia (2021 vs 2019) sono di un ordine di grandezza molto meno eclatante. A seconda dei casi, qualcosa che assomiglia al 10-20%, non al 50% o all’80%.

Il 10 o il 20% non è poco, naturalmente. Ma si applica a una parte decisamente minore dei costi produttivi totali dell’aziende.

Perché il grosso, i due terzi appunto, sono costi di lavoro. E se quelli non crescono, ne deriva quanto segue.

PRIMO, l’incremento di costo di alcuni input produttivi incide per una quota nettamente minoritaria dei costi di produzione totali.

SECONDO, dato che la domanda finale dipende dai redditi disponibili, in particolare dai redditi di lavoro, spazi per ribaltare sul consumatore finale gli incrementi di costo ce ne sono ben pochi. Le aziende devono assorbire gli aumenti di costo comprimendo i margini.

Altrimenti detto: è errata l’intuizione che la crescita dei costi produttivi possa automaticamente essere trasferita sul cliente. Se il cliente non ha soldi in più da spendere, non gli trasferisci nulla.

Fa eccezione chi produce un bene indispensabile e non sostituibile. In quel caso, il cliente dovrà accettare aumenti per QUEL bene. Ma se i suoi redditi nominali non crescono, sarà costretto a spendere meno per altri prodotti. Non ci sarà quindi aumento nel livello MEDIO dei prezzi al consumo.

L’inflazione, intesa come crescita dei prezzi medi per il consumatore, richiede che cresca la disponibilità di potere d’acquisto in misura tale da portare la domanda di beni e servizi oltre la capacità produttiva del sistema economico.

Finché questo non avviene, variazioni di costo anche molto elevate di ALCUNI input produttivi si traslano solo in misura molto, ma molto, parziale sull’inflazione generale.

 

mercoledì 10 novembre 2021

Elogio del populismo

 

Nel mondo odierno, nei sistemi politici attuali, è di fondamentale importanza, di enorme utilità, il ruolo delle forze comunemente definite “populiste”.

La ragione della loro utilità è semplice. Populista, nell’accezione corrente del termine, è chi si oppone alle tesi e alle politiche sostenute dall’establishment internazionale. 

Establishment che a sua volta è riconducibile ai grandi interessi economici e finanziari e alle organizzazioni sovranazionali, e le cui posizioni ispirano la linea degli organi di informazione “paludati”.

La ragione per la quale abbiamo bisogno del populismo non risiede nel fatto che le opinioni comunemente definite “populiste” siano sempre corrette. Non risiede nel fatto che i populisti necessariamente possiedano soluzioni valide per i problemi del mondo.

I populisti possono avere ragione o torto su vari temi, tra cui le cessioni di sovranità, il contrasto al Covid, l’immigrazione clandestina, il cambiamento climatico, l’austerità fiscale, l’indipendenza delle banche centrali.

Ma senza i populisti, le uniche opinioni, le uniche posizioni, che sentiremmo esprimere e che vedremmo applicate sarebbero, appunto, quelle dell’establishment. Che significa, in parole povere, le posizioni di chi ha i soldi in mano.

E se ci aspettiamo, da chi ha i soldi in mano, da chi detiene il potere economico, che persegua nobilmente l’interesse collettivo e non il proprio, temo che ci facciamo grosse, ma molto grosse, illusioni. Anzi non temo: ne sono certo.

Un populista a sua volta non è necessariamente, un cavaliere dell’ideale. Non è mediamente una figura più nobile o più disinteressata di qualsiasi altro essere umano.

Ma svolge una funzione di confronto, di contrapposizione dialettica, rispetto al potere.

E di questa contrapposizione abbiamo bisogno. Sarebbe un disastro se non esistesse. Dobbiamo rafforzarla, perché oggi è troppo debole.

domenica 7 novembre 2021

Le tasse danno valore alla moneta

 

Qualche commentatore esprime ancora scetticismo sul concetto espresso dalla MMT, ma prima ancora dal cartalismo, dove si afferma che una moneta ha valore nel momento in cui uno Stato impone di utilizzarla per pagare le tasse.

Dietro a questi scetticismi ci sono un paio di osservazioni errate.

In primo luogo, a volte si vede fare confusione tra due affermazioni che in realtà sono parecchio diverse.

La MMT non sostiene che “una moneta ha valore solo se lo Stato la impone per il pagamento delle tasse”.

La MMT sostiene che “l’utilizzabilità per pagare tasse attribuisce valore alla moneta”.

Dove sta la differenza ?

Nel fatto che sono sicuramente possibili monete che lo Stato non accetta per pagare tasse, ma che hanno comunque valore perché un gruppo di cittadini e aziende decide di servirsene, sulla base di un impegno contrattuale, assunto volontariamente. Vedi il caso dei circuiti di compensazione multilaterale, di cui l’esempio di maggior successo in Italia è il Sardex.

Ma questa è una via ulteriore, rispetto all’accettazione per pagare tasse, per dare valore a una moneta. Può assolutamente costituire la base di un progetto più che valido, ma con funzione complementare rispetto alla moneta di Stato, alla MONETA (accettata al fine dell’adempimento) FISCALE.

Complementare e di minor peso, per il semplice motivo che il settore pubblico è il soggetto economico più rilevante nell’ambito di qualunque Stato, dato che intermedia quote di PIL comprese tra il 30% e il 50% del totale.

In altri termini, le monete non fiscali esistono e possono benissimo funzionare, ma inevitabilmente hanno un ruolo accessorio rispetto alla moneta dello Stato, appunto perché quest’ultima è moneta fiscale.

L’altra osservazione errata è pensare che la moneta di Stato abbia valore anche o magari soprattutto perché il suo utilizzo è imposto per legge nelle transazioni tra privati.

In realtà lo Stato non impone nulla di tutto questo. Transazioni dove il corrispettivo è espresso in una moneta diversa da quella ufficiale dello Stato non sono affatto infrequenti. Se compro petrolio lo pago in dollari. Se compro un’azione giapponese la pago in yen. Un dipendente svizzero o britannico di una società con sede in Italia può benissimo negoziare un contratto dove lo stipendio è denominato in franchi o in sterline.

Ovviamente sono eccezioni rispetto alla totalità degli scambi di beni, servizi o attività finanziarie. Ma sono eccezioni rilevanti, e dimostrano l’infondatezza del presupposto.

La moneta più diffusa nell’ambito di uno Stato non può che essere quella che lo Stato accetta per onorare le obbligazioni fiscali. Non in teoria, ma in pratica, non può che essere così.

Taxes drive money. Non solo le tasse, ma fondamentalmente, prevalentemente le tasse. E questo è il presupposto del progetto CCF / Moneta Fiscale.