giovedì 23 luglio 2015

Gli equivoci sull’austerità



Si sente spesso dire, da parte di parecchi commentatori dell’Eurocrisi (compresi molti eurocritici) che un certo livello di austerità era comunque inevitabile. Questa affermazione ha degli elementi di verità, ma va meglio qualificata.

Prendiamo il caso greco, ovviamente il più eclatante ed esasperato. Prima della crisi Lehman scoppiata nel 2008, la Grecia aveva raggiunto livelli di deficit – sia pubblico che commerciale – superiori al 10%.

Concentriamoci sul deficit commerciale, che è quello realmente rilevante per supportare l’affermazione che un determinato paese “vive al disopra dei propri mezzi”. Il deficit commerciale indica che la spesa totale del paese supera la produzione: questo comporta la crescita dell’indebitamento netto verso l’estero.

Nel momento in cui non è più possibile finanziare il debito estero, e salvo l’improbabile eventualità di elevare di colpo la produzione interna, il riequilibrio dei saldi commerciali richiede, evidentemente, la riduzione della spesa totale.

A partire dal 2009, una minore spesa – meno consumi e meno investimenti – era, effettivamente, inevitabile per la Grecia. Ma era necessario che crollassero anche produzione e occupazione ?

La risposta è negativa. In situazioni simili, paesi dotati della propria moneta (vengono in mente, per esempio, i paesi asiatici nel 1997-8, ma anche, su scala meno accentuata, l’Italia nel 1992) hanno messo in atto un mix di interventi restrittivi sui consumi unitamente al riallineamento del cambio.

In questo modo hanno immediatamente recuperato competitività. La domanda interna è scesa ma i saldi commerciali esteri sono passati da una situazione di deficit a una di surplus. In pratica si è sostituita domanda interna con domanda estera (più export e sostituzione di importazioni con produzioni interne).

Un intervento del genere implica che la popolazione residente abbassi la spesa, ma se ben condotto ha impatti molto più contenuti (potenzialmente anche nulli) sul PIL e sull’occupazione.

In pratica il cittadino del paese che deve riequilibrare i saldi commerciali esteri (cioè tornare a “vivere al livello dei propri mezzi”) spende un po’ meno (quindi risparmia un po’ di più) ma lavora come prima. Mantiene la sua occupazione ma compra qualche auto straniera in meno, fa le vacanze in patria e non all’estero, eccetera.

Questo è un meccanismo di aggiustamento che, se correttamente gestito, non produce nessun effetto drammatico né sull’economia né sul benessere della popolazione.

Il riallineamento del cambio è un elemento molto utile in questo processo di aggiustamento, ma in effetti è possibile attuarlo anche nell’ambito di un’unione monetaria.

La Grecia, per esempio, a partire dal 2009 non avrebbe dovuto adottare un mix di politiche tutte restrittive – più tasse e tagli di spesa. Avrebbe dovuto abbinare interventi restrittivi dei consumi interni – agendo per esempio sull’IVA – con una serie di incentivi (viene in mente per prima cosa una forte riduzione del cuneo fiscale) alla produzione domestica.

A grandi numeri, se prima della crisi la Grecia produceva 100 e spendeva 110, l’aggiustamento doveva condurre a mantenere la produzione invariata nonostante un calo della spesa: sostituendo, come si diceva sopra, domanda netta estera alla minore domanda interna.

Spesso si legge che tutto questo non è possibile (e che non funzionerebbe neanche la svalutazione, se la Grecia reintroducesse la dracma) perché la Grecia ha un settore manifatturiero modesto e poca capacità di esportazione.

Ora, certamente la Grecia non possiede il potenziale industriale della Germania e neanche dell’Italia. Ma ha un export (compresi i servizi, che includono il turismo) di 50 miliardi di euro all’anno su un PIL di 180 e un saldo commerciale estero oggi all’incirca in pareggio. Naturalmente questo pareggio riflette un crollo delle importazioni dovuto alla pesantissima caduta della domanda interna. Ma ciò non toglie che, con una moneta non più sopravvalutata, o anche con azioni di riduzione del carico fiscale che grava sulle produzioni interne, la Grecia potrebbe espandere (rispetto a oggi) domanda, produzione e occupazione mantenendo in equilibrio i saldi commerciali esteri.

Tornando a quanto è accaduto dal 2009 in poi, l’austerità in una certa misura serviva, ma da un lato è stata adottata in misura del tutto eccessiva, dall’altro in forma estremamente male impostata. Fatti pari a 100 il PIL e a 110 la spesa pre-crisi, la Grecia poteva mantenere il primo a 100 e abbassare la spesa allo stesso livello, senza ridurre l’occupazione.

Invece sia il PIL che la spesa sono state abbattute a 75, e la disoccupazione dall’8% è esplosa al 25%.

In Italia, dal 2011 in poi (lettera BCE e avvento del messia Monti…) è avvenuto qualcosa di simile, anche se su scala meno esasperata. Va precisato tuttavia che in Italia il deficit commerciale non era su livelli confrontabili a quelli greci: non ha mai superato, dall’introduzione dell’euro in poi, il 3% annuo.

Quando si afferma che “l’Italia ha vissuto al disopra dei propri mezzi” si introduce un livello di confusione ulteriore. Il problema dell’Italia non è mai stato un alto deficit commerciale, e di conseguenza un elevato debito netto verso l’estero (che è pari al 30% circa del PIL, livelli simili a USA, Regno Unito e Francia).

L’Italia ha, notoriamente, un debito pubblico (non un debito estero) elevato rispetto al PIL. Questo non significa che come paese spendiamo sistematicamente più di quello che produciamo. Significa che in passato sono stati alti i deficit delle amministrazioni pubbliche, finanziati peraltro in larghissima misura da risparmio interno. In pratica, gli italiani hanno prestato allo Stato quello il governo non raccoglieva in tasse.

Nel 2011, si è venuta a creare una situazione di tensione (la famigerata “crisi dello spread”) non perché il deficit pubblico italiano fosse alto, ma perché si è cominciato a temere che l’euro potesse spaccarsi, e che quindi i titoli italiani potessero venire ridenominati in lire, svalutandosi rispetto a quelli tedeschi.

Tanto è vero che lo spread è stato riportato sotto controllo non a seguito delle azioni restrittive del governo Monti, ma (a luglio 2012) dal “whatever it takes” di Draghi: dall’impegno, in altri termini, della BCE a garantire illimitatamente il debito pubblico degli stati membri.

Nel 2011, l’Italia avrebbe potuto di conseguenza (anche senza prendere in considerazione l’ipotesi di uscita dall’euro) adottare un mix di politiche molto più efficaci e sensate. Poteva attuare alcune azioni di riduzioni dei consumi interni unitamente a un consistente abbassamento del cuneo fiscale, nella misura necessaria a riportare i saldi commerciali esteri in equilibrio: da -3% a zero, in pratica, ma senza penalizzare produzione interna e occupazione.

Quanto ai conti pubblici, l’azione decisiva (in regime di unione monetaria, quindi di debito che l’Italia non può garantire, essendo denominato in una moneta che l’Italia non controlla) poteva effettuarla soltanto la BCE: il “whatever it takes”, appunto.

La BCE, si dice, era disponibile a farlo solo a condizione che il saldo spese / incassi della pubblica amministrazione fosse stato riportato al di sotto di determinati livelli. Ma anche in questo caso esistevano altre modalità d’azione: per esempio introdurre prelievi fiscali compensati da Certificati di Credito Fiscale – prelievi di euro, in pratica, a fronte di erogazioni di titoli che danno diritto a sgravi fiscali futuri, secondo le modalità qui delineate.

Era possibile, in altri termini, ribilanciare il saldo tra entrate e uscite pubbliche in euro con un impatto enormemente meno depressivo e deflattivo sulla domanda interna, e con conseguenze molto ma molto meno drammatiche su PIL e occupazione.

11 commenti:

  1. cattaneo non tiene conto che la produzione greca privata (gran parte) era "finta privata" ma dipendeva solo dal pubblico che andando in crisi per i motivi che cattaneo ha spiegato ha affondato anche il "finto privato". la stessa situazione l'avete in italia con almeno 1-2 milioni di persone (nessuno ne conosce il numero) che risultano "privati" ma di fatto lavorano solo per il pubblico e quindi se si colpisse lo stato come in grecia andrebbe in crisi anche questo enorme contenitore privato che è nato in passato perché non potendo assumere più nello stato si sono costruiti contenitori privati che però di fatto esistono solo se lo stato li finanzia. ed essendo l'economia chiusa non esistono alternative se non appunto farsi assumere dallo "stato" o a lavorare per esso con un appalto o una commessa. questo schema è una bolla assistenziale socialista che grava sullo stato stesso e non "volendo" fermarsi da sola viene tenuta a stecchetto con l'austerità che però manda in crisi il vero privato che vive di mercato creando enorme disoccupazione. il problema quindi non è tanto stampare soldi o ccf per risolvere il problema, bensì il problema è appunto negare il problema stesso. e infatti nella proposta ccf ci sono solo soldi e nessuna riforma. cioè la negazione del problema e l'utopia di risolverlo stampando all'infinito moneta pensando che il popolo sia fesso.

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    1. Nella proposta CCF ci sono soldi e miglioramento immediato della competitività delle aziende mediante riduzione del cuneo fiscale. Una volta ristabilita domanda e competitività, lasciamo fare agli imprenditori e ai singoli individui. Che, mi creda, se non li si costringe a lavorare con il freno a mano tirato, sanno cosa fare molto più di qualsiasi elaboratore di riforme e piani industriali.

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    2. impossibile. perché in assenza di riforme la produzione in più e il margine in più è automaticamente prelevato dallo stato per ingrassare se stesso e per risolvere la disoccupazione che avendo solo lo stato come datore di lavoro (assenza di mercato) chiede ad esso di essere assistito.

      molte aziende vanno via dall'italia pur essendo in utile proprio per mettere al sicuro gli utili e impedire che lo stato (ormai fuori controllo) li espropri. possono lasciare capannoni e produzioni in italia ma le tasse e la testa le portano all'estero. in questo caso lo stato "affamato" non potrà espropriare le aziende e gli utili ma al massimo dei capannoni.

      questi due dinosauri statali e privati si stanno facendo la guerra proprio perché pressati dalla disoccupazione e dall'immigrazione dilaganti che loro hanno provocato.

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    3. La riforma che conta, in questo contesto, è la riduzione della fiscalità effettiva. Che il progetto CCF prevede.

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  2. la riduzione fiscale non crea posti di lavoro così come una città non crea abitanti se impedisce l'allargamento della stessa. l'inflazione (senza mercato) è lo stesso errore che vi apprestate a fare così come i vostri bisnonni lo fecero a weimar.

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    1. Immettere potere d'acquisto in un sistema economico che sta operando al di sotto della sua capacità produttiva crea occupazione, eccome.

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    2. crea occupazione assistenzializzata e non di mercato. per un posto che vive sul mercato ne nascono due statali o "finti privati". appena arriverà la crisi succederà quello che è successo in grecia. non essendoci mercato, se salta lo stato salta l'assistenza stessa legata allo stato. oppure viene imposta una tale austerità che distrugge totalmente il tessuto sociale e produttivo. la distruzione è creativa solo quando si distruggono i valori dei mezzi produttivi (svalutazione del mercato) e non i mezzi produttivi in sé (deindustrializzazione).

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    3. In presenza di potenzialità produttive inutilizzate e di bisogni insoddisfatti, la produzione e l'occupazione hanno solo bisogno che esista un adeguato livello di potere d'acquisto per incrementarsi. Nulla a che vedere con l'assistenzialismo.

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    4. il potere di acquisto non serve a nulla se i prezzi salgono non essendoci mercato e concorrenza che li tenga a bada oppure il controllo statale dei prezzi come nei paesi comunisti. a quel punto solo producendo all'estero (delocalizzazioni) si riesce a vendere prodotti in italia a prezzo adeguato al potere di acquisto degli italiani avendo un margine.

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  3. Vorrei chiedere all'anonimo commentatore, che definisce "bolla assistenziale socialista" la spesa pubblica verso imprese che servono la pubblica amministrazione, come la definirebbe se questa spesa fosse di natura privata. Forse "bolla assistenziale capitalistica"? Perché il nodo implicito della questione, ciò che connota l'aggettivo "assistenziale", è l'inutilità a fini produttivi. Se le persone impiegate fossero produttive, infatti, non avrebbe senso definire la bolla assistenziale. E se lo stesso numero di persone venisse impiegato dal settore privato, allo stesso livello di produttività, dovremmo inevitabilmente chiamare assistenziale la stessa bolla, anche se originata dal sistema capitalistico, senza l'intervento dello stato.
    Immagino che però l'anonimo commentatore suppongo che il mercato lascerebbe a casa i lavoratori inutili. Oppure che li faccia produrre di più. Vediamo che succederebbe...

    Nel primo caso, aumenterebbe la disoccupazione. Diminuirebbe quindi il potere di spesa dei cittadini. Diminuirebbe anche il gettito fiscale ma aumenterebbe la spesa pubblica per sussidi sociali. Essendoci meno disponibilità di moneta, la domanda interna crollerebbe. Le imprese vedrebbero quindi ridurre i loro fatturati. A meno che non esportino di più. Ma è chiaro che i paesi che importerebbero da noi sono quelli che faranno una politica opposta alla nostra, aumentando la domanda interna, altrimenti anche loro non avrebbero soldi per importare da noi. E se anche fosse, il risultato finale sarebbe che le imprese galleggiano o magari prosperano, a scapito però di una larga fetta di cittadinanza che perde lavoro e potere di acquisto. È questo ciò che si vuole ottenere?

    Nel secondo caso, le imprese manterrebbero l'occupazione ma avrebbero un surplus di produzione che potrebbero vendere solo diminuendo i prezzi. Ma se diminuiscono i prezzi, essendo i costi di produzione rimasti uguali, perdono profitti. E questo non garba agli azionisti. Allora diminuiranno gli stipendi, sotto minaccia di spostare l'attività all'estero. Questo ovviamente diminuisce l capacità di spesa dei cittadini, creando un paese di lavoratori sottopagati, che non possono permettersi ciò che producono e aziende votate ad esportare nei paesi esteri relativamente più ricchi.
    Chi dice che invece aumentando la produttività aumentano anche gli stipendi, non ha mai visto le statistiche e non ha mai fatto l'imprenditore. Perché se lo fai ci sarà sempre un'impresa che per rubarti una fetta di mercato non lo farà. E tu o ti adegui o chiudi.
    Anche in questo caso, è questo il modello di società che vogliamo ottenere?

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  4. Vorrei chiedere all'anonimo commentatore, che definisce "bolla assistenziale socialista" la spesa pubblica verso imprese che servono la pubblica amministrazione, come la definirebbe se questa spesa fosse di natura privata. Forse "bolla assistenziale capitalistica"? Perché il nodo implicito della questione, ciò che connota l'aggettivo "assistenziale", è l'inutilità a fini produttivi. Se le persone impiegate fossero produttive, infatti, non avrebbe senso definire la bolla assistenziale. E se lo stesso numero di persone venisse impiegato dal settore privato, allo stesso livello di produttività, dovremmo inevitabilmente chiamare assistenziale la stessa bolla, anche se originata dal sistema capitalistico, senza l'intervento dello stato.
    Immagino che però l'anonimo commentatore suppongo che il mercato lascerebbe a casa i lavoratori inutili. Oppure che li faccia produrre di più. Vediamo che succederebbe...

    Nel primo caso, aumenterebbe la disoccupazione. Diminuirebbe quindi il potere di spesa dei cittadini. Diminuirebbe anche il gettito fiscale ma aumenterebbe la spesa pubblica per sussidi sociali. Essendoci meno disponibilità di moneta, la domanda interna crollerebbe. Le imprese vedrebbero quindi ridurre i loro fatturati. A meno che non esportino di più. Ma è chiaro che i paesi che importerebbero da noi sono quelli che faranno una politica opposta alla nostra, aumentando la domanda interna, altrimenti anche loro non avrebbero soldi per importare da noi. E se anche fosse, il risultato finale sarebbe che le imprese galleggiano o magari prosperano, a scapito però di una larga fetta di cittadinanza che perde lavoro e potere di acquisto. È questo ciò che si vuole ottenere?

    Nel secondo caso, le imprese manterrebbero l'occupazione ma avrebbero un surplus di produzione che potrebbero vendere solo diminuendo i prezzi. Ma se diminuiscono i prezzi, essendo i costi di produzione rimasti uguali, perdono profitti. E questo non garba agli azionisti. Allora diminuiranno gli stipendi, sotto minaccia di spostare l'attività all'estero. Questo ovviamente diminuisce l capacità di spesa dei cittadini, creando un paese di lavoratori sottopagati, che non possono permettersi ciò che producono e aziende votate ad esportare nei paesi esteri relativamente più ricchi.
    Chi dice che invece aumentando la produttività aumentano anche gli stipendi, non ha mai visto le statistiche e non ha mai fatto l'imprenditore. Perché se lo fai ci sarà sempre un'impresa che per rubarti una fetta di mercato non lo farà. E tu o ti adegui o chiudi.
    Anche in questo caso, è questo il modello di società che vogliamo ottenere?

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