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domenica 6 novembre 2022

Inflazione e politiche per contrastarla

 

Nel dibattito tra sostenitori e oppositori della MMT, un tema rilevante è l’efficacia della politica fiscale per ridurre l’inflazione quando diventa troppo elevata.

Contrariamente alla versione caricaturale che qualcuno si ostina a far circolare, la MMT non ha mai affermato che i deficit fiscali possano crescere all’infinito. Sostiene invece che il limite c’è, ma non è un determinato livello numerico. È la disponibilità di risorse produttive (impianti e manodopera) inoperose, o comunque sottoutilizzate.

Se, tramite il deficit pubblico, mettiamo in circolazione capacità di spesa eccessiva rispetto alla capacità produttiva del sistema economico, non generiamo più produzione e più occupazione, ma solo eccessiva inflazione.

Ne segue che la maniera efficace per ridurre la domanda nel sistema economico, secondo la MMT, è ridurre i deficit quando c’è inflazione: ma in funzione appunto di quella, NON del fatto che il deficit sia del 3%, del 6%, del 10% o di qualsiasi soglia numerica prestabilita.

En passant, quanto sopra mostra come siano immotivate per non dire pretestuose le affermazioni di chi sostiene che "per la MMT lo spazio fiscale è infinito" o che "la MMT spinge sempre ad aumentare i deficit".

Tornando all'utilizzo della politica fiscale per ridurre l'inflazione, un’obiezione tipica degli MMT-critici è che questo può essere vero in teoria. In pratica però pacchetti di restrizione fiscale (tagli di spesa e aumenti di tasse) motivati da eccesso d’inflazione sono politicamente indigesti e quindi non vengono attuati.

Noi che in Italia abbiamo vissuto l’esperienza del 2011-3 la sappiamo purtroppo più lunga. Imporre austerità è risultato fin troppo facile. E il momento tra l’altro era COMPLETAMENTE sbagliato, perché non c’era, allora, nessun problema d’inflazione. C’era invece un problema di rifinanziamento del debito: derivante però SOLO dalla costruzione sbagliata dell’eurozona, che impedisce alla BCE di garantire incondizionatamente i debiti pubblici. E infatti solo il whatever it takes di Draghi, non certo l’austerità, ha tamponato questo problema.

Al di là dell’austerità eurozonica, però, sulla posizione degli MMT-critici si impone una riflessione. I tassi d’interesse redistribuiscono potere d’acquisto tra debitore e creditore. Se salgono, paga di più l’azienda indebitata, il debitore per il credito al consumo, chi deve rimborsare un mutuo, lo Stato per gli interessi sul debito pubblico. Ma percepisce di più il titolare del credito: la banca, il possessore di titoli di Stato, la società finanziaria.

Se il potere d’acquisto totale in circolazione non muta, non è quindi scontato che si crei un effetto di riduzione della domanda, e quindi indirettamente dei prezzi.

In realtà chi sostiene la restrizione monetaria fa affidamento anche su altri effetti, tipo la perdita di valore delle attività finanziarie (es. azioni), che però è di dubbio impatto, e la tendenza del sistema bancario a contrarre il credito quando i tassi salgono.

Vale la pena comunque di sottolineare che l’impatto restrittivo della politica monetaria non è così certo come viene presentato. E che, d’altra parte, la politica fiscale può esercitare un impatto anticiclico tramite stabilizzatori automatici che agiscono senza bisogno di approvazioni parlamentari e governative: la cassa integrazione, i sussidi di disoccupazione, l’imposta progressiva sul reddito e (se venissero adottati come propone la MMT) i programmi di lavoro garantito.

Tutto quanto sopra si applica a un contesto di inflazione da eccesso di domanda, a parità di offerta – cioè a pari capacità di produrre reddito da parte del sistema economico.

Ovviamente oggi stiamo vivendo un problema di inflazione che ha cause differenti. I problemi di approvvigionamento connessi alla ripresa post Covid e alle difficoltà di ripristinare le catene di fornitura prima; l’esplosione dei prezzi dell’energia causati dalla crisi ucraina poi.

E ho spiegato già da tempo che in questo caso la restrizione monetaria rischia di fare gravissimi danni senza risolvere nulla. La via è invece una politica fiscale espansiva non rivolta al sostegno della domanda ma all’abbattimento di imposte indirette e oneri accessori sui beni di prima necessità, unitamente a ragionevoli interventi di razionamento, in particolare sui consumi di gas.

 

mercoledì 3 novembre 2021

Alcuni temi su cui non ho (ancora) idee del tutto chiare

 

UNO - La politica monetaria è realmente necessaria ?

Nello specifico: è possibile

lasciare i tassi di riferimento della banca centrale a zero

non emettere debito pubblico (quindi finanziare il deficit pubblico con emissione diretta di moneta)

gestire le oscillazione del ciclo economico esclusivamente con la politica fiscale (aumentando o diminuendo il deficit pubblico in funzione delle circostanze) ?

Tutto ciò fermo restando che quando i tassi arrivano a zero la politica monetaria perde di trazione ed è quindi inevitabile, comunque, fare affidamento sulla politica fiscale: come dimostrato dalla scarsissima efficacia del Quantitative Easing nel rilanciare inflazione e occupazione.

NB L’obiezione di Milton Friedman (pratica, non teorica) è che la politica monetaria è di più rapida ed efficiente attuazione (le banche centrali si muovono più velocemente di governi e parlamenti). Ma è un’obiezione superabile predisponendo gli strumenti adeguati: tra cui il rafforzamento degli stabilizzatori automatici, ad esempio (anzi forse principalmente) con i programmi di lavoro garantito proposti dalla MMT.

 

DUE - Se si lasciano i tassi perennemente a zero, quali sono le conseguenze sui valori delle attività finanziarie, in particolare sui valori di borsa ?

NB2 Se è vero che il premio per il rischio dell’investimento azionario è un valore costante rispetto all’inflazione, i tassi d’interesse sono ininfluenti sui valori di borsa: ma è realmente così ? l’esperienza storica sembra suggerire altro. Anche oggi quell'ipotesi implica che la borsa USA è parecchio sopravvalutata, del 40% abbondante, ma se l’alternativa è investire in reddito fisso a tassi reali, se non addirittura nominali, nulli o negativi, che si fa ? non si è praticamente costretti ad esporsi sul mercato azionario, anche a valori (secondo quell'ipotesi) sopravvalutati ?

 

lunedì 9 dicembre 2013

Reddito di cittadinanza o programmi di lavoro garantito ?


Il recupero della sovranità monetaria e di un sistema monetario flessibile è fondamentale per ottenere l’uscita dall’eurocrisi, ma è una condizione necessaria – non sufficiente.

Si deve accompagnare a una forte azione di sostegno della domanda. Occorre mettere cittadini, aziende e pubblica amministrazione nelle condizioni di rilanciare la loro spesa.

Riguardo alle aziende, come sottolineato varie volte, l’azione proposta nell’ambito del progetto CCF è incentrata sulla riduzione del carico fiscale che grava sui costi di lavoro. Si ottiene, in tal modo, anche un riallineamento della competitività italiana nei confronti dei paesi europei più efficienti (leggi Germania), rafforzando l’export netto ed evitando che il recupero della domanda si indirizzi in modo eccessivo verso le importazioni. E si evitano così squilibri nei saldi commerciali con l’estero.

Su un totale di 200 miliardi previsti come dimensione delle emissioni annue di CCF, circa 80 sono stati preliminarmente allocati a questa azione, 70 alla riduzione del carico fiscale sui lavoratori e 50 ad altre azioni non specificamente identificate.

Quest’ultima componente può includere, tra le altre cose, due tipi di sostegno della domanda non collegati al carico fiscale sul lavoro (e non necessariamente incompatibili tra di loro): il reddito di cittadinanza (RC) e i programmi di lavoro garantito (PLG).

C’è un motivo chiaro ed evidente per preferire una o l’altra di queste due fattispecie ?

Il RC ha il vantaggio di poter essere attivato in tempi molto rapidi.

Tra le controindicazioni, si citano a volte:

la minore spinta, per chi oggi non ha lavoro, a intraprenderne uno – su questo tema non sono un esperto, ma mi pare che il livello di reddito garantito non sarebbe comunque tale da disincentivare chi ha un’opportunità lavorativa dal perseguirla, e

il rischio che il reddito potrebbe essere in buona parte risparmiato e non speso – ma mi sembra una preoccupazione di scarso rilievo, partendo da un contesto di domanda depressa come quello odierno.

I PLG sono invece spesa pubblica, e vanno quindi direttamente a innalzare il PIL. Naturalmente questo è vero a livello statistico, poi esiste il problema che le attività svolte potrebbero essere di scarsa utilità effettiva. Paradossalmente, questo NON renderebbe i PLG inefficaci: dare soldi a persone inoccupate per fare qualcosa di inutile (il famoso paradosso keynesiano dello scavare buche e riempirle) o addirittura di distruttivo (la spesa bellica) è comunque una forma di sostegno della domanda positiva a livello macroeconomico, in quanto i soldi vengono poi spesi da chi li riceve e avviano un processo di recupero dell’economia.

Alla peggio i PLG finirebbero per essere, in effetti, una forma surrettizia (e male organizzata) di RC.

Partendo dal ragionevole presupposto che con i PLG qualcosa di utile si farebbe, la loro controindicazione maggiore sono forse i tempi di messa in moto del programma, più lunghi (per ragioni di organizzazione) rispetto al RC.

In sintesi quindi non vedo, sul piano macroeconomico, ragioni forti per preferire una soluzione all’altra. Potremmo definire il RC un meccanismo “liberale” (in quanto fornisce risorse ai privati spostando su di loro le decisioni di spesa) e i PLG una via “dirigista” (perché la sua attuazione è gestita dal settore pubblico).

Mi appaiono entrambi, comunque, metodi validi per rimettere in moto la domanda, la produzione e i consumi e dare un sostanziale contributo al superamento dell’attuale depressione economica.