L’Eurosistema
odierno è ben diverso da quello a cui molti cittadini europei pensavano quando
hanno sentito parlare per la prima volta dell’euro come loro moneta unica.
L’euro doveva essere un simbolo (e un veicolo) di maggiore integrazione e
prosperità. In realtà è diventato il maggiore ostacolo al compimento di questa
visione: uno strumento di divisione, di conflitto e di inefficienza economica.
Per molti di
coloro che hanno coltivato questo sogno, il “piano A” consiste nel farlo
risorgere riformando le istituzioni dell’Unione Europea. Ma le divergenze degli
interessi in gioco e la complessità dei processi politici rendono altamente
improbabile che questa evoluzione si possa concretizzare.
Occorre invece
pensare a una serie di azioni attuabili dai membri dell’Eurozona per produrre
una reale, vigorosa ripresa economica; assicurare la stabilità finanziaria; e
creare, dove necessario o opportuno, le condizioni per un’uscita morbida
dall’Eurosistema. Un “piano B”, in pratica, che ha grosse possibilità di
rivelarsi quello realmente fattibile. Un piano che non richieda la riforma
integrale dell’Unione Europea, ma che nello stesso tempo eviti la complessità e
i pericoli insiti in una rottura deflagrante della moneta unica europea.
Produrre una
reale, vigorosa ripresa economica
Proponiamo che i
governi nazionali emettano titoli, denominati Certificati di Credito Fiscale
(CCF), che danno diritto al loro possessore di ridurre i pagamenti dovuti alla
pubblica amministrazione del paese emittente a partire da due anni dopo la loro
emissione.
I CCF possono
essere ceduti sul mercato finanziario in cambio di euro, incrementando la
capacità di spesa. Con ogni probabilità, il loro valore di mercato sarà analogo
a quello di un titolo di Stato zero-coupon a due anni.
Il governo
attribuirà (senza corrispettivo) CCF a cittadini e aziende. Ai cittadini,
saranno attribuiti privilegiando ceti sociali disagiate e lavoratori a basso
reddito. Per massimizzare l’impatto dell’assegnazione dei CCF sull’espansione
della domanda, potrà essere prevista una clausola di decadenza tali per cui i
CCF saranno annullati se non spesi entro un certo periodo di tempo (per
esempio, un anno).
Alle aziende, le
assegnazioni saranno attribuite in funzione dei costi di lavoro da esse
sostenute. Saranno inoltre privilegiati i settori maggiormente esposti alla
concorrenza internazionale, e le aziende che accresceranno maggiormente
investimenti ed occupazione.
L’attribuzione
di CCF alle aziende, correlata ai costi di lavoro sostenuti, ridurrà i costi di
lavoro effettivi, ne migliorerà immediatamente la competitività, ed eviterà
quindi che l’effetto espansivo sulla domanda interna crei difficoltà riguardo
ai saldi commerciali esteri.
Le emissioni
saranno tarate in modo tale da recuperare l’”output gap” prodotto dalla crisi.
Nel caso dell’Italia, potrebbero partire da un livello pari al 5% del PIL
annuo, aumentare gradualmente fino al 10% e successivamente essere modulate in
modo da assicurare alti livelli di occupazione senza ingenerare tensioni
inflazionistiche oltre il livello-obiettivo BCE del 2% o scompensi nei saldi
commerciali esteri.
Partendo dagli
attuali livelli di domanda depressa e di disoccupazione massiccia, la maggiore
disponibilità di potere d’acquisto genera maggior PIL in misura più che
proporzionale (il “moltiplicatore keynesiano”). Tenuto anche conto che l’utilizzo
dei CCF sarà possibile con un differimento di due anni dopo l’emissione, la
maggiori entrate fiscali prodotte (a parità di condizioni) dalle ripresa
compenseranno tale utilizzo, evitando di incrementare deficit e debito
pubblico.
Una quota dei
CCF attribuiti nell’ambito del programma complessivo sarà inoltre utilizzata a
sostegno di una serie di altre iniziative: un Piano del Lavoro finalizzato a
realizzare opere di riassetto idrogeologico e di pubblica utilità in genere,
sostegni ai ceti sociali disagiati, programmi di Reddito di Cittadinanza
strutturati in modo da collegarsi a meccanismi di inserimento sul mercato del
lavoro, eccetera.
Produrre una
reale, forte ripresa economica è particolarmente vitale perché non solo, a
sette anni di distanza dal fallimento Lehman, l’Eurozona si trova tuttora in un
contesto economico depresso; ma anche perché i grandi fenomeni migratori non
sono gestibili in presenza dei livelli di disoccupazione attuali.
L’immigrazione, opportunamente gestita, può trasformarsi in una grande risorsa
se si verifica nel contesto di un’economia e di un mercato del lavoro tonici.
Rischia, al contrario, di innescare pericolose derive sociali se si innesta su
una situazione di produzione e di occupazione depresse e stagnanti.
I CCF non sono
una forma di debito. Il governo emittente non si impegna a rimborsarli, ma
soltanto a concedere riduzioni di pagamenti fiscali nel momento in cui i CCF
vengono utilizzati. Il governo non può quindi essere forzato ad andare in
default sull’impegno assunto con l’emissione di un CCF.
Per paesi quali
Italia, Spagna e Francia, che emettessero CCF per stimolare domanda interna e
recuperare competitività esterna, non si verificherebbe alcun incremento di
deficit anche con un moltiplicatore keynesiano leggermente inferiore all’unità
– e se superasse l’unità, come i modelli econometrici indicano come probabile
per economie in recupero da una situazione di domanda depressa, il programma
genererebbe addirittura risorse fiscali incrementali.
In caso di
difficoltà nel raggiungere gli obiettivi fiscali prestabiliti (ad esempio a
causa di condizioni economiche esterne sfavorevoli) possono essere attuare una
o più delle seguenti azioni compensative (“clausole di salvaguardia”):
1.
Sostenere
sotto forma di CCF (e non di euro) alcune spese pubbliche.
2.
Effettuare
incrementi di imposte ma compensare il contribuente mediante assegnazioni di
CCF.
3.
Incentivare
i possessori di CCF a differirne l’utilizzo, riconoscendo una maggiorazione di
valore dei CCF posseduti (in pratica, un tasso d’interesse corrisposto in CCF).
4.
Collocare
sul mercato CCF a scadenza più lunga (in cambio di euro)
Tutte queste
azioni sono enormemente meno procicliche del tentativo di ridurre i deficit
fiscali in contesti di recessione o di depressione economica (come è avvenuto
soprattutto dal 2011 in poi in molti paesi dell’Eurozona) mediante puri e
semplici tagli di spesa o incrementi di tassazione. Si evita infatti di drenare
potere d’acquisto dall’economia: al contrario, un tipo di attività finanziaria
(l’euro) viene sostituita con un’altra (i CCF), per valori sostanzialmente
invariati.
L’introduzione dei
CCF renderebbe anche più stabile il sistema bancario. Se le banche si trovano a
detenere proporzionalmente più CCF e meno titoli di debito, gli eventuali
rischi di default su quest’ultimo influenzano in misura minore la loro
stabilità finanziaria.
Un alto livello
di emissione di CCF dovuto, ad esempio, a un utilizzo frequente delle clausole
di salvaguardia potrebbe causare una perdita di valore dei CCF emessi. Questo,
tuttavia, non avrebbe impatti sugli altri stati membri dell’Eurozona, in quanto
non svilirebbe il valore dell’euro (né dei CCF nazionali emessi da altri
paesi).
Se la sovraemissione di CCF rendesse molto rilevante
la loro circolazione in un determinato paese (rispetto a quella degli euro) si
potrebbero verificare le condizioni per trasformare i CCF nazionali in una vera
e propria moneta legale di quel paese. Questo equivarrebbe a un’uscita
“morbida” dall’Eurosistema. Il meccanismo potrebbe anche essere definito e
concordato a priori.
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