sabato 19 settembre 2015

Eurozona: un piano B che deve diventare piano A


L’Eurosistema odierno è ben diverso da quello a cui molti cittadini europei pensavano quando hanno sentito parlare per la prima volta dell’euro come loro moneta unica. L’euro doveva essere un simbolo (e un veicolo) di maggiore integrazione e prosperità. In realtà è diventato il maggiore ostacolo al compimento di questa visione: uno strumento di divisione, di conflitto e di inefficienza economica.

Per molti di coloro che hanno coltivato questo sogno, il “piano A” consiste nel farlo risorgere riformando le istituzioni dell’Unione Europea. Ma le divergenze degli interessi in gioco e la complessità dei processi politici rendono altamente improbabile che questa evoluzione si possa concretizzare.

Occorre invece pensare a una serie di azioni attuabili dai membri dell’Eurozona per produrre una reale, vigorosa ripresa economica; assicurare la stabilità finanziaria; e creare, dove necessario o opportuno, le condizioni per un’uscita morbida dall’Eurosistema. Un “piano B”, in pratica, che ha grosse possibilità di rivelarsi quello realmente fattibile. Un piano che non richieda la riforma integrale dell’Unione Europea, ma che nello stesso tempo eviti la complessità e i pericoli insiti in una rottura deflagrante della moneta unica europea.

 
Produrre una reale, vigorosa ripresa economica

Proponiamo che i governi nazionali emettano titoli, denominati Certificati di Credito Fiscale (CCF), che danno diritto al loro possessore di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione del paese emittente a partire da due anni dopo la loro emissione.

I CCF possono essere ceduti sul mercato finanziario in cambio di euro, incrementando la capacità di spesa. Con ogni probabilità, il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di Stato zero-coupon a due anni.

Il governo attribuirà (senza corrispettivo) CCF a cittadini e aziende. Ai cittadini, saranno attribuiti privilegiando ceti sociali disagiate e lavoratori a basso reddito. Per massimizzare l’impatto dell’assegnazione dei CCF sull’espansione della domanda, potrà essere prevista una clausola di decadenza tali per cui i CCF saranno annullati se non spesi entro un certo periodo di tempo (per esempio, un anno).

Alle aziende, le assegnazioni saranno attribuite in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. Saranno inoltre privilegiati i settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale, e le aziende che accresceranno maggiormente investimenti ed occupazione.

L’attribuzione di CCF alle aziende, correlata ai costi di lavoro sostenuti, ridurrà i costi di lavoro effettivi, ne migliorerà immediatamente la competitività, ed eviterà quindi che l’effetto espansivo sulla domanda interna crei difficoltà riguardo ai saldi commerciali esteri.

Le emissioni saranno tarate in modo tale da recuperare l’”output gap” prodotto dalla crisi. Nel caso dell’Italia, potrebbero partire da un livello pari al 5% del PIL annuo, aumentare gradualmente fino al 10% e successivamente essere modulate in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza ingenerare tensioni inflazionistiche oltre il livello-obiettivo BCE del 2% o scompensi nei saldi commerciali esteri.

Partendo dagli attuali livelli di domanda depressa e di disoccupazione massiccia, la maggiore disponibilità di potere d’acquisto genera maggior PIL in misura più che proporzionale (il “moltiplicatore keynesiano”). Tenuto anche conto che l’utilizzo dei CCF sarà possibile con un differimento di due anni dopo l’emissione, la maggiori entrate fiscali prodotte (a parità di condizioni) dalle ripresa compenseranno tale utilizzo, evitando di incrementare deficit e debito pubblico.

Una quota dei CCF attribuiti nell’ambito del programma complessivo sarà inoltre utilizzata a sostegno di una serie di altre iniziative: un Piano del Lavoro finalizzato a realizzare opere di riassetto idrogeologico e di pubblica utilità in genere, sostegni ai ceti sociali disagiati, programmi di Reddito di Cittadinanza strutturati in modo da collegarsi a meccanismi di inserimento sul mercato del lavoro, eccetera.

Produrre una reale, forte ripresa economica è particolarmente vitale perché non solo, a sette anni di distanza dal fallimento Lehman, l’Eurozona si trova tuttora in un contesto economico depresso; ma anche perché i grandi fenomeni migratori non sono gestibili in presenza dei livelli di disoccupazione attuali. L’immigrazione, opportunamente gestita, può trasformarsi in una grande risorsa se si verifica nel contesto di un’economia e di un mercato del lavoro tonici. Rischia, al contrario, di innescare pericolose derive sociali se si innesta su una situazione di produzione e di occupazione depresse e stagnanti.

 
Assicurare la stabilità finanziaria
 
I CCF non sono una forma di debito. Il governo emittente non si impegna a rimborsarli, ma soltanto a concedere riduzioni di pagamenti fiscali nel momento in cui i CCF vengono utilizzati. Il governo non può quindi essere forzato ad andare in default sull’impegno assunto con l’emissione di un CCF.

Per paesi quali Italia, Spagna e Francia, che emettessero CCF per stimolare domanda interna e recuperare competitività esterna, non si verificherebbe alcun incremento di deficit anche con un moltiplicatore keynesiano leggermente inferiore all’unità – e se superasse l’unità, come i modelli econometrici indicano come probabile per economie in recupero da una situazione di domanda depressa, il programma genererebbe addirittura risorse fiscali incrementali.

In caso di difficoltà nel raggiungere gli obiettivi fiscali prestabiliti (ad esempio a causa di condizioni economiche esterne sfavorevoli) possono essere attuare una o più delle seguenti azioni compensative (“clausole di salvaguardia”):

1.     Sostenere sotto forma di CCF (e non di euro) alcune spese pubbliche.

2.     Effettuare incrementi di imposte ma compensare il contribuente mediante assegnazioni di CCF.

3.     Incentivare i possessori di CCF a differirne l’utilizzo, riconoscendo una maggiorazione di valore dei CCF posseduti (in pratica, un tasso d’interesse corrisposto in CCF).

4.     Collocare sul mercato CCF a scadenza più lunga (in cambio di euro)

Tutte queste azioni sono enormemente meno procicliche del tentativo di ridurre i deficit fiscali in contesti di recessione o di depressione economica (come è avvenuto soprattutto dal 2011 in poi in molti paesi dell’Eurozona) mediante puri e semplici tagli di spesa o incrementi di tassazione. Si evita infatti di drenare potere d’acquisto dall’economia: al contrario, un tipo di attività finanziaria (l’euro) viene sostituita con un’altra (i CCF), per valori sostanzialmente invariati.

L’introduzione dei CCF renderebbe anche più stabile il sistema bancario. Se le banche si trovano a detenere proporzionalmente più CCF e meno titoli di debito, gli eventuali rischi di default su quest’ultimo influenzano in misura minore la loro stabilità finanziaria.

 
Possibile uscita morbida dall’Eurosistema

Un alto livello di emissione di CCF dovuto, ad esempio, a un utilizzo frequente delle clausole di salvaguardia potrebbe causare una perdita di valore dei CCF emessi. Questo, tuttavia, non avrebbe impatti sugli altri stati membri dell’Eurozona, in quanto non svilirebbe il valore dell’euro (né dei CCF nazionali emessi da altri paesi).
 
Se la sovraemissione di CCF rendesse molto rilevante la loro circolazione in un determinato paese (rispetto a quella degli euro) si potrebbero verificare le condizioni per trasformare i CCF nazionali in una vera e propria moneta legale di quel paese. Questo equivarrebbe a un’uscita “morbida” dall’Eurosistema. Il meccanismo potrebbe anche essere definito e concordato a priori.

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