sabato 2 aprile 2016

L’Italia non è cresciuta a debito

Frequentemente, quando si parla di Eurocrisi e di temi connessi, sento ripetere un’affermazione del tipo “il problema dell’Italia è che per tanti anni l’economia è cresciuta “dopandosi” con il debito, i guai sono nati quando non ha più potuto farlo”.

E’ un’affermazione senza fondamento, che nasce dalla confusione tra debito pubblico e debito estero.

Un paese può, effettivamente, svilupparsi utilizzando risorse finanziarie provenienti dall’esterno. Ma la misura in cui questo avviene non è data dal debito delle sue amministrazioni pubbliche.

Il dato rilevante è l’indebitamento verso l’estero, o più precisamente la “Net International Investment Position” (NIIP), corrispondente al saldo netto tra attività estere possedute dai residenti nel paese, e passività dei residenti stessi nei confronti di soggetti non domestici.

Qui di seguito è riportato il rapporto NIIP / PIL a fine 2014 di alcuni paesi, nonché il dato medio dell’Eurozona (fonti: FMI ed Eurostat).

Giappone            74,8%
Germania            36,4%
Cina                    17,1%
Eurozona             -12,7%
Francia                -19,5%
Regno Unito        -24,8%
Italia                    -27,7%
USA                    -39,7%
Spagna                -94,5%
Irlanda                 -106,7%
Portogallo            -111,6%
Grecia                  -121,9%

Tre economie di grandi dimensioni, con una forte vocazione esportatrice – Giappone, Germania e Cina – hanno un rapporto NIIP / PIL positivo (sono creditori netti verso l’estero, in altri termini).

L’Italia ha invece una NIIP negativa in rapporto al PIL, ma a livelli moderati e comunque analoghi a quelli di altre tre grandi economie: poco più alti rispetto a Francia e Regno Unito, più bassi rispetto agli USA.

Una NIIP fortemente negativa, vicina o superiore al 100% del PIL, caratterizza invece gli altri quattro PIGS – Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia. Per questi paesi è corretto affermare che la crescita ottenuta fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008 è stata prodotta, alimentata, se vogliamo “dopata” da flussi di capitale esteri. Ma non per l’Italia.

Gli altri quattro PIGS hanno accumulato, fino al 2011, enormi saldi commerciali passivi, ed era inevitabile che a un certo punto dovesse verificarsi un riequilibrio per il tramite di un certo livello di contenimento della spesa interna (anche se non, detto en passant, dell’occupazione e del PIL - come spiegavo qui).

Per l'Italia, al contrario, il problema non è mai stato costituito da alti livelli di deficit commerciale o di debito netto estero.

L’Italia ha, come ci sentiamo ripetere ennanta volte al giorno, un rapporto debito pubblico / PIL elevato: oltre il 130%. Ma il debito pubblico è in larghissima misura finanziato da risparmio privato interno. Appunto perché non esiste una forte esposizione netta sull’estero, l’alto risparmio privato interno e l’alto debito pubblico sono in effetti, in larghissima misura, due facce della stessa medaglia – due lati di un'identità contabile.

Dal 2011 in poi, l’Unione Europea ha “prescritto” all’Italia massicce dosi di austerità a causa dei timori causati dal debito pubblico: non dal debito estero.

Questi timori sarebbero stati infondati se il debito fosse stato espresso, com’era fino al 1999, in moneta nazionale, e fosse stato garantito dalla potestà statale di emettere moneta.

Con l’avvento dell’euro, il problema della garanzia sui debiti pubblici diventa, al contrario, reale. In buona sostanza, questa garanzia è fornita dalla BCE (in seguito all’ormai celebre “whatever it takes” di Draghi – luglio 2012 - e all’introduzione del programma OMT).

A fine 2011, è stato inoltre varato il Fiscal Compact, trattato che impone ai firmatari di raggiungere (nell’arco di alcuni anni) il pareggio strutturale del bilancio pubblico nonché la tendenziale diminuzione del rapporto debito pubblico / PIL, fino al 60%.

Il combinato disposto dell’OMT e del Fiscal Compact equivale a dire che la BCE è impegnata a garantire i debiti pubblici, a condizione che non salgano in valore assoluto (azzeramento dei deficit annui) e che scendano in rapporto al PIL.

Ma, in un contesto di domanda depressa a causa dei postumi della “crisi Lehman” del 2008, il tentativo di raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact ha contratto la domanda ed esacerbato la depressione, con pesanti effetti negativi su occupazione e PIL.

La soluzione è introdurre un titolo fiscale – un diritto di riduzione sulle tasse future: il CCF o Certificato di Credito Fiscale.

Il CCF non costituisce debito in quanto non è soggetto a essere rimborsato e non richiede quindi alcuna forma di garanzia da parte della BCE. 

Il CCF può essere assegnato gratuitamente ad aziende o cittadini per rilanciare domanda e PIL. I possibili meccanismi di funzionamento della soluzione CCF e il modo in cui garantiscono il raggiungimento degli obiettivi di OMT e Fiscal Compact sono sinteticamente delineati qui.

7 commenti:

  1. Italia: -26,7% a fine 2015, miglioramento pari a 1%.

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  2. Grande articolo.

    Primo Gonzaga

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  3. Lettura molto interessante e da approfondire. Complimenti

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  4. C'è una cosa che non torna: la stessa ue nei suoi report annuali non manifestava nessuna preoccupazione per il debito pubblico italiano, classificato come il più sostenibile.
    Lo stesso monti confessa candidamente che le sue manovre servivano per distruggere la domanda interna ed essere più competitivi.
    Si vede che in realtà il saldo estero italiano era decisamente un problema.

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    1. Ma i dati non supportano questa ipotesi. Il saldo commerciale estero non è mai stato passivo per più del 2% circa, e attualmente è positivo per oltre il 3%.

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    2. I saldi cumulati in 20 anni sembrerebbero raccontare un'altra storia.
      Tra l'altro noto una piccola contraddizione, una volta si cita il niip, quando qualcuno fa notare che c'è qualcosa che non va si passa al saldo commerciale, sempre restando sul singolo dato annuale e mai al cumulato in 20 anni di cambio fisso.
      Tra l'altro se il saldo estero non è un problema non lo è nemmeno la competitività, quindi perché tutta questa necessità di abbassare il clup usando i ccf?
      Alla fine tutto il ragionamento resta nella logica liberista per cui:
      A- il problema è sempre il debito pubblico.
      B- gli interventi si fanno sempre dal lato offerta, cioè prezzi, cioè costo del lavoro ( Giuseppe Rossi)

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    3. No, sia i dati annuali che quelli cumulati raccontano storie analoghe. Vedi ad esempio quanto riportato in uno dei link dell'articolo, che per comodità riporto qui :tra il 1999 e il 2012 l'Italia ha avuto deficit cumulati delle partite correnti pari al 16% del PIL, e a fine periodo la posizione finanziaria netta estera era negativa per il 25%. Per la Spagna, ad esempio, dati analoghi erano 64% e 91% - molto più alti quindi.
      E dopo il 2012 la situazione italiana è migliorata perché le partite correnti sono diventate attive (quelle spagnole no). L'Italia non aveva particolari problemi di squilibri commerciali esteri: l'austerità è stata imposta proprio perché veniva percepito come problematico il debito pubblico (erroneamente come si spiega nell'articolo, certo: ma questa è stata l'assunzione da cui ci si è mossi).
      Ciò detto, non è vero che se il saldo estero non è un problema allora non lo è nemmeno la competitività. L'Italia ha avuto bassi deficit esteri perché è cresciuta meno (per esempio) della Spagna anche prima del 2012, ed è andata in surplus dal 2013 perché ha fatto molta più austerità. Ma l'introduzione dei CCF serve appunto a mettere fine all'austerità rilanciando la domanda interna. A questo punto si avrebbe un'erosione del conseguente beneficio sul PIL perché salirebbero le importazioni. Per compensarlo, una parte dei CCF vengono assegnati alle aziende per abbassare il cuneo fiscale e quindi il costo del lavoro lordo. L'obiettivo non è una politica mercantilista di espansione a oltranza del surplus estero, ma una politica keynesiana di rilancio della domanda interna con impatto neutro sui saldi esteri.

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