Ho spiegato qui
perché ritengo che la riforma “morbida” del sistema monetario europeo mediante
introduzione dei Certificati di Credito Fiscale possa essere una via più facile
da applicare rispetto all’uscita “secca” dall’euro, e perché possa anche
risultare maggiormente accettabile dall’opinione pubblica italiana, dai mercati
finanziari e dagli altri membri dell’eurozona.
In sintesi, al
contrario dell’euroexit: non dobbiamo attuarla di sorpresa; non costringiamo la
Germania a rivalutare; e non svalutiamo i crediti degli investitori
internazionali (e neanche dei risparmiatori italiani).
C’è un ulteriore
punto da considerare. Gli effetti dell’euroexit vengono generalmente esaminati
e discussi avendo in mente soprattutto l’esperienza dell’uscita dell’Italia (e
anche di altri paesi, tra cui Regno Unito e Spagna) dal sistema monetario
europeo (SME) nel settembre 1992.
Si verificò una
rapida svalutazione della lira nei confronti del marco tedesco, con un cambio
che passò da 750 lire circa a oltre 1.200, per poi recuperare e assestarsi al
livello (990) del 1998. Il 1° gennaio 1999 furono fissate le “parità
irrevocabili” e costituito l’euro.
La svalutazione
della lira contro marco fu quindi alla fine del 32%, superiore a quanto si
stima avverrebbe oggi in caso di ritorno, sia dell’Italia che della Germania, a
monete nazionali. Le ipotesi più accreditate, basate sulle dinamiche dei costi
interni per unità di prodotto, prevedono un riallineamento del 20% circa.
E’ assolutamente
vero che l’Italia nel 1992 ottenne un forte e rapido recupero dei saldi
import-export, della produzione e dell’occupazione. Inoltre, non si verificò
nessun incremento dell’inflazione, a riprova che l’impatto delle materie prime
acquistate in valuta (tipicamente dollari) è modesto. Nessun rischio di fare la
spesa con la carriola di banconote, di pagare un mese di stipendio per un litro
di latte e amenità simili.
C’è però un tema
un po’ più sottile da considerare. Aziende e istituzioni finanziarie italiane
hanno una pluralità di rapporti di debito e credito con controparti estere, che
nel 1992 erano in parte in lire e in parte in valuta estera.
Ogni operatore
economico la cui attività non sia puramente domestica si preoccupa della sua
bilancia valutaria, cioè di non rischiare conseguenze negative per effetto di
un riallineamento dei cambi, o di contenerle entro livelli accettabili.
Si cerca quindi
di avere attività in valuta per importi corrispondenti all’incirca a quelli
delle passività nella stessa valuta (matching). Va anche tenuto conto che
un’azienda esportatrice in caso di svalutazione avrà un beneficio dal
conseguimento di maggiori flussi di cassa netti nella valuta in cui esporta.
Questo rende appropriato, entro certi limiti, un maggior livello di passività
denominate in quella valuta. Possono poi essere adottati strumenti di gestione
del rischio di cambio, mediante vendite o acquisti a termine di valuta, opzioni
eccetera.
Nel 1992 le
aziende italiane sapevano che il cambio della lira poteva variare e si erano
quindi preoccupate di gestire il rischio di cambio. Qualcuna l’aveva fatto bene,
altre meno ma in definitiva la rottura dello SME fu assorbita senza traumi,
appunto perché il rischio era ben delineato. Dalla svalutazione della lira in
poi, quindi, l’effetto di gran lunga più importante fu il recupero di
competitività delle aziende italiane, e non ci furono rilevanti “danni
collaterali”.
Se oggi si
verificasse l’euroexit italiana, la situazione è piuttosto diversa perché è
meno chiaro che cosa succede alle varie categorie di attivi e di passivi. Generalmente
si ritiene che i contratti stipulati sulla base del diritto italiano sarebbero
automaticamente convertiti in nuove lire, e quelli di diritto internazionale
invece rimarrebbero in euro. Ma quante aziende produttive e quante banche hanno
effettuato una precisa gestione del loro rischio valutario avendo chiara questa
distinzione ?
Tra l’altro non
è chiaro come reagirebbero gli (ex) partner dell’eurozona. Per esempio
un’azienda italiana ha debiti verso un fornitore tedesco e il contratto è di
diritto italiano. A quel punto dice “ti pago in nuove lire” svalutate del 20%.
Ma se l’azienda ha anche crediti verso clienti tedeschi, che cosa ipotizza ?
che questi crediti rimarranno in euro ? o la Germania attuerà una misura di
ritorsione (e protezione) delle sue aziende e pretenderà di pagare nuove lire e
non euro ? Nel primo caso l’azienda italiana ha un vantaggio patrimoniale, nel
secondo (se i crediti sono più alti dei debiti) un danno.
Credo che nessuna organizzazione abbia impostato una gestione del rischio di euroexit
sulla base di questi ragionamenti. Anche perché gli scenari sono aleatori ed è
prevedibile che nascano contenziosi legali.
E’ veramente
difficile stimare quanto possa pesare questo elemento di alea, quanta
confusione in più possa creare all’indomani dell’euroexit. E non mi risulta che
siano state elaborate analisi in merito, riferite al complesso della situazione
italiana o europea.
Così com’è oggi,
il sistema euro sta producendo una profondissima crisi economica in mezza
Europa. I possibili “danni collaterali” che ho descritto, per quanto difficili
da stimare, sono di una dimensione sicuramente inferiore. Non costituiscono
quindi una ragione per non attuare il break-up dell’euro, se non ci fossero alternative.
Però
l’alternativa “morbida”, i Certificati di Credito Fiscale, esiste ed evita
completamente questi “danni collaterali”. Un motivo in più per ritenerla molto,
molto interessante.
Nessun commento:
Posta un commento