lunedì 15 aprile 2013

Euroexit: possibili danni collaterali ? i CCF li evitano

Ho spiegato qui perché ritengo che la riforma “morbida” del sistema monetario europeo mediante introduzione dei Certificati di Credito Fiscale possa essere una via più facile da applicare rispetto all’uscita “secca” dall’euro, e perché possa anche risultare maggiormente accettabile dall’opinione pubblica italiana, dai mercati finanziari e dagli altri membri dell’eurozona.

In sintesi, al contrario dell’euroexit: non dobbiamo attuarla di sorpresa; non costringiamo la Germania a rivalutare; e non svalutiamo i crediti degli investitori internazionali (e neanche dei risparmiatori italiani).

C’è un ulteriore punto da considerare. Gli effetti dell’euroexit vengono generalmente esaminati e discussi avendo in mente soprattutto l’esperienza dell’uscita dell’Italia (e anche di altri paesi, tra cui Regno Unito e Spagna) dal sistema monetario europeo (SME) nel settembre 1992.

Si verificò una rapida svalutazione della lira nei confronti del marco tedesco, con un cambio che passò da 750 lire circa a oltre 1.200, per poi recuperare e assestarsi al livello (990) del 1998. Il 1° gennaio 1999 furono fissate le “parità irrevocabili” e costituito l’euro.

La svalutazione della lira contro marco fu quindi alla fine del 32%, superiore a quanto si stima avverrebbe oggi in caso di ritorno, sia dell’Italia che della Germania, a monete nazionali. Le ipotesi più accreditate, basate sulle dinamiche dei costi interni per unità di prodotto, prevedono un riallineamento del 20% circa.

E’ assolutamente vero che l’Italia nel 1992 ottenne un forte e rapido recupero dei saldi import-export, della produzione e dell’occupazione. Inoltre, non si verificò nessun incremento dell’inflazione, a riprova che l’impatto delle materie prime acquistate in valuta (tipicamente dollari) è modesto. Nessun rischio di fare la spesa con la carriola di banconote, di pagare un mese di stipendio per un litro di latte e amenità simili.

C’è però un tema un po’ più sottile da considerare. Aziende e istituzioni finanziarie italiane hanno una pluralità di rapporti di debito e credito con controparti estere, che nel 1992 erano in parte in lire e in parte in valuta estera.

Ogni operatore economico la cui attività non sia puramente domestica si preoccupa della sua bilancia valutaria, cioè di non rischiare conseguenze negative per effetto di un riallineamento dei cambi, o di contenerle entro livelli accettabili.

Si cerca quindi di avere attività in valuta per importi corrispondenti all’incirca a quelli delle passività nella stessa valuta (matching). Va anche tenuto conto che un’azienda esportatrice in caso di svalutazione avrà un beneficio dal conseguimento di maggiori flussi di cassa netti nella valuta in cui esporta. Questo rende appropriato, entro certi limiti, un maggior livello di passività denominate in quella valuta. Possono poi essere adottati strumenti di gestione del rischio di cambio, mediante vendite o acquisti a termine di valuta, opzioni eccetera.

Nel 1992 le aziende italiane sapevano che il cambio della lira poteva variare e si erano quindi preoccupate di gestire il rischio di cambio. Qualcuna l’aveva fatto bene, altre meno ma in definitiva la rottura dello SME fu assorbita senza traumi, appunto perché il rischio era ben delineato. Dalla svalutazione della lira in poi, quindi, l’effetto di gran lunga più importante fu il recupero di competitività delle aziende italiane, e non ci furono rilevanti “danni collaterali”.

Se oggi si verificasse l’euroexit italiana, la situazione è piuttosto diversa perché è meno chiaro che cosa succede alle varie categorie di attivi e di passivi. Generalmente si ritiene che i contratti stipulati sulla base del diritto italiano sarebbero automaticamente convertiti in nuove lire, e quelli di diritto internazionale invece rimarrebbero in euro. Ma quante aziende produttive e quante banche hanno effettuato una precisa gestione del loro rischio valutario avendo chiara questa distinzione ?

Tra l’altro non è chiaro come reagirebbero gli (ex) partner dell’eurozona. Per esempio un’azienda italiana ha debiti verso un fornitore tedesco e il contratto è di diritto italiano. A quel punto dice “ti pago in nuove lire” svalutate del 20%. Ma se l’azienda ha anche crediti verso clienti tedeschi, che cosa ipotizza ? che questi crediti rimarranno in euro ? o la Germania attuerà una misura di ritorsione (e protezione) delle sue aziende e pretenderà di pagare nuove lire e non euro ? Nel primo caso l’azienda italiana ha un vantaggio patrimoniale, nel secondo (se i crediti sono più alti dei debiti) un danno.

Credo che nessuna organizzazione abbia impostato una gestione del rischio di euroexit sulla base di questi ragionamenti. Anche perché gli scenari sono aleatori ed è prevedibile che nascano contenziosi legali.

E’ veramente difficile stimare quanto possa pesare questo elemento di alea, quanta confusione in più possa creare all’indomani dell’euroexit. E non mi risulta che siano state elaborate analisi in merito, riferite al complesso della situazione italiana o europea.

Così com’è oggi, il sistema euro sta producendo una profondissima crisi economica in mezza Europa. I possibili “danni collaterali” che ho descritto, per quanto difficili da stimare, sono di una dimensione sicuramente inferiore. Non costituiscono quindi una ragione per non attuare il break-up dell’euro, se non ci fossero alternative.

Però l’alternativa “morbida”, i Certificati di Credito Fiscale, esiste ed evita completamente questi “danni collaterali”. Un motivo in più per ritenerla molto, molto interessante.

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