Nelle ultime
settimane, ho avuto modo di acquisire maggiori informazioni in merito ai
regolamenti Eurostat e Bankitalia che disciplinano la classificazione dei
crediti fiscali ai fini della determinazione del debito pubblico. Sono state
fondamentali, al riguardo, le interazioni con Massimo Costa (docente di
Ragioneria Generale all’Università di Palermo) e con Fabio Conditi (attivista
M5S).
A quanto pare il
tema è molto più semplice e più chiaramente disciplinato dalla normativa di
quanto io stesso ritenessi. I crediti fiscali si dividono in due categorie:
quelli che lo Stato si impegna a rimborsare cash entro un determinato periodo
di tempo (fatta salva la possibilità di utilizzarli prima che il rimborso
avvenga, compensandoli con imposte o con altri tipi di pagamento all’erario,
altrimenti dovuti) e quelli per i quali non è prevista alcuna forma di
rimborso, ma solo l’utilizzo in compensazione.
Nel primo caso,
abbiamo i cosiddetti “crediti fiscali pagabili”, che rientrano nel debito
pubblico. Nel secondo caso, i “crediti fiscali non pagabili”, che NON vi
rientrano.
La logica della
distinzione è semplice. Nel primo caso la pubblica amministrazione è impegnata
ad effettuare un pagamento. Nel secondo si verificherà invece, in un momento
futuro (non definito a priori, peraltro) un minor gettito erariale – a parità
di condizioni. Ma stiamo parlando di previsioni, non di un impegno di pagamento definito alla data in cui il “credito fiscale non pagabile” insorge.
Ad esempio, il
diritto tributario italiano (e di molti altri paesi) riconosce l’esistenza
delle perdite pregresse riportabili. Una società, o anche un privato cittadino
che abbia conseguito perdite per la sua attività d’impresa (o, nel caso del
privato, d’investimento) può utilizzarle per ridurre i pagamenti d’imposte
altrimenti dovuti negli anni successivi. Nessuno, a quanto ne so, si è mai
sognato di considerare le perdite pregresse riportabili (o per essere più
esatti, i conseguenti minori pagamenti d’imposta potenziali) una componente del
debito pubblico.
Tutto questo
aiuta a capire quanto è avvenuto nel momento in cui Mimmo Pisano, parlamentare
M5S, ha presentato una proposta di legge per introdurre i CCF al fine di
“cartolarizzare” i crediti d’imposta (utilizzabili nell’arco di dieci anni)
generati da spese per ristrutturazioni immobiliari e per riqualificazioni
energetiche. L’idea è di renderli monetizzabili mediante cessione sul mercato
finanziario, fornendo liquidità immediata ai beneficiari.
La proposta è
stata valutata positivamente da diversi gruppi parlamentari, e ha ottenuto un
parere positivo (entusiastico, addirittura) dall’ABI, che ha manifestato grande
interesse nel garantire la conversione di questo tipo di CCF in euro mediante
attualizzazione a un tasso annuo del 2,5% - 3% circa. E’ al momento ferma,
tuttavia, a causa di un parere negativo di Bankitalia, o per essere più esatti
a causa del fatto che Bankitalia ha espresso l’opinione che questi CCF concorrerebbero
alla formazione del debito pubblico.
Il motivo
diventa però chiaro alla luce del fatto che i “bonus ristrutturazioni” sono
pagabili se il titolare non li utilizza, prima delle scadenze di rimborso, a
compensazione di pagamenti verso l’erario. Rientrano quindi nella definizione
di crediti d’imposta pagabili.
I CCF del progetto Moneta Fiscale sono invece crediti d’imposta NON pagabili. A partire
da una data predefinita – nella proposta, due anni dopo l’assegnazione
originaria – i CCF sono utilizzabili a compensazione di qualsiasi tipo di
pagamento dovuto alla pubblica amministrazione italiana, nel senso più esteso
possibile. Non sono, al contrario, soggetti a essere rimborsati in euro, in
NESSUNA circostanza.
Il tema verrà
trattato estesamente da Massimo Costa in un’apposita sezione dell’ebook in fase
di pubblicazione, relativo al progetto Moneta Fiscale. E’ un punto di grande
interesse perché rafforza ulteriormente la valenza del progetto e sgombra il
campo da alcuni dubbi che periodicamente vengono sollevati in merito alla sua
attuabilità.
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