lunedì 8 dicembre 2014

Ancora sui moltiplicatori fiscali


Un intervento di rilancio dell’economia basato sull’immissione di potere d’acquisto, mediante spesa pubblica, sovvenzioni alla spesa privata, riduzioni di prelievo fiscale o una combinazione di tutti questi interventi (deficit spending), è tanto più efficace quanto più alto è il cosiddetto “moltiplicatore fiscale”, o “moltiplicatore keynesiano”.

Il moltiplicatore è il rapporto tra incremento del PIL e dimensione del deficit spending. La domanda che si pone è: il deficit spending produce una crescita del PIL più che proporzionale, meno che proporzionale o addirittura nulla (come a volte sostengono alcuni economisti critici del pensiero keynesiano) ?

La risposta dipende fortemente dalle caratteristiche dell’azione di deficit spending, nonché del momento in cui viene effettuata.

La spesa pubblica diretta contribuisce al PIL. Se lo stato effettua un’opera pubblica che altrimenti non sarebbe stata posta in atto, o se assume un dipendente che altrimenti sarebbe risultato disoccupato, il PIL risulta incrementato in misura pari al valore dell’opera o, rispettivamente, alla retribuzione del dipendente.

Questo è il primo effetto, che di per sé corrisponde a un moltiplicatore 1 tra deficit spending e incremento di PIL. Dopodiché si attiva un meccanismo amplificativo: il maggior reddito creato (perché l’opera pubblica ha generato produzione, quindi reddito, a beneficio delle aziende a cui sono stati appaltati i lavori, e il dipendente pubblico percepisce uno stipendio di cui prima non disponeva) avvia una catena virtuosa: consente ai soggetti che ne beneficiano di consumare di più, quindi crea domanda, stimola le aziende in grado di soddisfare questa domanda ad effettuare nuove assunzioni, eccetera.

Ci sono, di conseguenza, fondati presupposti per presumere che il deficit spending che prende la forma di maggior spesa pubblica diretta produca un incremento di PIL con un multiplo superiore a 1, sotto due condizioni.

La prima è che la maggior domanda si rivolga a beni di produzione interna, e non a importazioni.

La seconda è che non si verifichino effetti di “crowding out”, o spiazzamento. Se lo stato, ad esempio, avvia un investimento pubblico, che tuttavia induce le aziende appaltatrici a posporre altre attività per eseguirlo – perché non hanno la capacità produttiva necessaria a sviluppare questa nuova commessa unitamente ad altre già in portafoglio – la produzione complessiva del sistema economico non aumenta. Casomai aumentano i prezzi, perché le aziende utilizzano la maggior domanda per ottenere condizioni economiche migliori, in quanto c’è più richiesta complessiva per le attività produttive da esse svolte.

Stesso discorso per l’assunzione di dipendenti pubblici: il “crowding out” non c’è se assumo disoccupati. Se il mercato del lavoro, invece, è già tonico, cioè se sostanzialmente chi vuole lavorare ha già la possibilità di farlo, il dipendente pubblico verrà assunto solo se gli verranno offerte condizioni migliori rispetto a quelle delle alternative di lavoro che il settore privato gli propone. L’effetto quindi sarà di aumentare le retribuzioni, e di conseguenza i prezzi, non l’occupazione.

Spesso si sostiene che il moltiplicatore della spesa pubblica è più elevato del moltiplicatore delle riduzioni di prelievo fiscale (o dei sostegni alla spesa privata). La motivazione di questa affermazione può essere sintetizzata come segue.

La spesa pubblica (sempre che non ci sia “crowding out” e che la maggior domanda si rivolga a produzione interna, e non a importazioni) già di suo, come visto, ha un moltiplicatore 1, e gli effetti indotti la porteranno quindi a un moltiplicatore più alto di 1.

Nel caso delle riduzioni di prelievo fiscale e dei sostegni alla spesa privata, si rendono disponibili maggiori mezzi finanziari al settore privato: questo maggior potere d’acquisto potrebbe essere in parte risparmiato, e non speso. Potrebbe quindi esserci un moltiplicatore inferiore a 1, almeno inizialmente, che supererebbe l’unità solo in seguito, grazie agli effetti indotti sopra descritti e presumibilmente con un ritardo temporale quantomeno di alcuni mesi.

Tutto questo ha portato a teorizzare il concetto del “moltiplicatore del bilancio pubblico in pareggio”. In pratica, aumentando la spesa e nello stesso tempo aumentando le tasse, si dovrebbe conseguire un incremento complessivo del PIL grazie al fatto che il moltiplicatore della spesa è superiore al moltiplicatore delle tasse (che in questo caso agisce in senso negativo). Questo, mantenendo nello stesso tempo in pareggio (nell’immediato, effetti successivi a parte) il saldo tra maggiori spese pubbliche e maggiori incassi fiscali.

Quest’ultima teorizzazione, tuttavia, è a mio parere dubbia. Occorre ricordare che le azioni di spesa pubblica hanno tempi di attuazione generalmente più lunghi rispetto alle riduzioni di imposte (o ai sostegni alla spesa privata).

Tra delibera di effettuazione di un’opera pubblica e sua effettiva attuazione, intercorrono tempi che possono anche essere molto ampi, per la definizione dell’opera, gli appalti, la progettazione e l’esecuzione del lavori.

Più semplice e rapido è il caso dell’assunzione di dipendenti pubblici, che comunque richiede procedure amministrative, bandi, concorsi eccetera.

L’effetto di una riduzione d’imposte, o dell’erogazione di sostegni alla spesa privata, è probabilmente, in media, più veloce.

In sintesi, sugli effetti di un’azione di “deficit spending” appare legittimo affermare quanto segue:

UNO, è sicuramente ottenibile un moltiplicatore superiore a 1, e forse anche largamente superiore, in presenza di un elevato livello di sottoutilizzo delle risorse produttive (com’è oggi il caso nell’Eurozona in generale, e in Italia in particolare).

DUE, questo non sarebbe il caso in presenza di un contesto economico tonico, in cui predominerebbero gli effetti di “crowding out”.

TRE, quanto menzionato al punto UNO richiede che la maggior domanda attivata dalle politiche di “deficit spending” si rivolga a produzione interna e non a incremento delle importazioni nette. Questo è ragionevole se l’azione di “deficit spending” si accompagna a un miglioramento del cambio effettivo, che può essere ottenuto in almeno due modi: un riallineamento valutario (che richiede un sistema di cambi flessibili), oppure l’utilizzo di una parte sufficiente dell’azione di “deficit spending” per migliorare il cuneo fiscale a beneficio delle aziende che producono sul territorio nazionale.

QUATTRO, non è scontato che il moltiplicatore della spesa pubblica sia più alto del moltiplicatore delle riduzioni di imposte (o di altre forme di sostegno alla spesa privata). Il beneficio della prima è più diretto ma questo potrebbe essere compensato da tempi più lunghi per l’attivazione delle decisioni di spesa.

14 commenti:

  1. Direi analisi ben svolta e corretta.Una noticina: l'effetto moltiplicatore della riduzione fiscale dipende da quale misura le tasse vengano ridotte.Forse ,il range a disposizione per tale riduzione non consente una gran libertà di manovra che sia incisiva(per ovvii motivi) come potrebbe essere invece per il deficit spending..

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    1. Beh questo era effettivamente un rischio ai tempi di Keynes, quando il prelievo fiscale (e la spesa pubblica) incidevano forse per il 20% del PIL. Oggi siamo vicini al 50%: direi che ci sono ampi margini...

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    2. certo,se si applicasse una flat tax del 20%,come senti dire in giro,direi che sicuramente è ampio lo spazio di manovra rispetto al 43-45% attuale...solo che mi sembra poco probabile una tale riduzione....peraltro ,diminuire la pressione fiscale di un paio di punti,servirebbe a poco....magari una combinazione,un mix tra riduzione fiscale e deficit spending,forse sarebbe la strada più efficace...è solo una ipotesi.

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    3. Due punti troppo pochi, venti eccessivi... A mezza via c'è la dimensione di intervento giusta.

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  2. balle, nessuna di queste formulette ha mai funzionato. i soldi vanno in risparmi o in finanza. nell'economia reale ci vanno solo se le tasse sono basse e se la legge difende le imprese invece di massacrarle.
    anonimo35

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    1. Ah sì ? guarda caso, l'unica area economica in cui si continua a negare che le "formulette" funzionano è l'Eurozona. Ed è in crisi nera, e non riesce a uscirne.

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    2. infatti bisogna abbattere questa europa socialista, rimasuglio del passato, e fondare gli stati uniti d'europa basate sul libero mercato.

      il renzi-ciov e il merkel-ciov e i tentativi di salvare i socialismi europei come Gorbaciov tentò di salvare il comunismo dandogli una mano di vernice non funzioneranno.


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    3. Temo per lei che gli stati uniti d'Europa non siano alle viste. Proprio per niente.

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    4. ovvio ci vogliono ancora anni. a differenza di quanto crediate voi infatti, l'europa non è ancora caduta come l'america ma deve ancora cadere. la perestroika e la glasnost di bruxelles non riusciranno a salvare il socialismo europeo come non salvarono il comunismo sovietico. prima o poi dovranno stampare e sarà la fine.

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  3. "...e fondare gli stati uniti d'europa basate sul libero mercato." Buona questa....dove lo vede poi il gran socialismo europeo,è un mistero....!
    L'europa è già caduta da un pezzo,non conta nulla politicamente e militarmente nello scenario mondiale.....e gli Stati Uniti d'europa sono un controsenso storico e politico.....

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  4. ...magari pure con la Turchia e Israele....perestroika,glassnost di Bruxelles? mah....

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    1. i paesi europei sono tutti socialisti. tu sei confuso dal fatto che pensi che il socialismo sia comunismo. ma non è così. il socialismo è un ibrido tra comunismo e monarchia. le due anime storiche europee. che ancora oggi si insegnano nelle università europee. da una parte marx e dall'altra la scuola austriaca (diciamo pure tedesca). entrami non liberali e contro il mercato. non potendosi fare la guerra si sono accordati. impedendo proprio il mercato o tassandolo così tanto da renderlo in perdita per tutti tranne per le caste statali o private. se ci fosse mercato le caste finirebbero. ecco perché sentite parlare di privatizzazioni (lo stato svende alle caste) e non di liberalizzazioni (lo stato concede a tutti fi operare sul mercato con regole fisse).

      la tua incapacità sta nel non riconoscere queste due forme di privato accomunandole insieme. ma in realtà sono all'opposto.

      ciao

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    2. Se non seguiamo Marx e non seguiamo gli austriaci che cosa rimane ? Keynes...

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    3. esiste la via democratica del libero mercato che però prevede regole molto ferree e un sistema carcerario molto duro. ma esclude sia la monarchia e sia il comunismo ovvero le due anime europee.

      keynes lo puoi applicare durante le crisi in usa o in uk ma non nel resto d'europa dove gli stati gestiscono l'economia. cosa vuoi statalizzare ancora? l'aria? vuoi assistere tutti? vuoi nazionalizzare le imprese?
      diventi comunista. e non potendolo diventare perché le masse non lo vogliono ecco che ti tocca subire l'altra faccia del socialismo ovvero la monarchia, la scuola austriaca, l'austerità, i conti in ordine ecc.

      ma questa cosa è già successa in europa e per due volte ha scatenato guerre quindi prima o poi la "terza via" quella del libero mercato e di una tassazione bassa verrà adottata per necessità. seppure controvoglia.

      quello sarà il giorno in cui nasceranno gli stati uniti d'europa. molti anni e molti disastri lo precederanno. così come l'avvento della democrazia avvenne dopo disastri sociali.

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