Uno dei motivi di
preoccupazione più infondati, nell’eventualità di una spaccatura dell’euro, è
costituito dai presunti effetti negativi di una svalutazione della moneta
italiana.
Ne ho parlato in
più occasioni. Qui, per esempio, spiegavo che le ipotetiche difficoltà dovute a
rincari delle materie prime sono pura fantasia. L’Italia è un’economia di
trasformazione e dipende dall’estero per una serie di input produttivi. Ma le
importazioni si pagano con l’export, o se questo è insufficiente con debiti
esteri. La moneta sopravvalutata impone di riequilibrare i saldi commerciali
con la compressione della domanda interna, oppure di indebitarsi in valuta
forte ed emessa da terzi. Guai grossi, certo: ma sono, appunto, causati dalla
moneta troppo forte, non dal suo riallineamento (che invece aiuta a risolverli).
Il nesso tra svalutazione e inflazione, a sua volta, è modesto, per non dire quasi
inesistente nelle condizioni attuali. In presenza di una domanda molto inferiore
alla capacità produttiva del sistema economico (com’è oggi) l’aumento dei
prezzi degli input importati viene assorbito dalla compressione dei margini
degli importatori, perché il mercato interno non regge aumenti di prezzi. I
prezzi salgono solo se contemporaneamente si effettuano azioni espansive della
domanda interna. Ma in aggiunta a ciò, l’inflazione parte solo dopo che si è
significativamente ridotto il sottoutilizzo di capacità; e comunque i fattori
chiave sono il rilancio della domanda e il riassorbimento dell’output gap, non la svalutazione.
Altro punto da
tenere in considerazione è la possibilità, emettendo moneta nazionale, di
attuare politiche di recupero di competitività, per esempio riducendo il cuneo fiscale sui costi di lavoro. Il che ridurrebbe, o eliminerebbe del tutto, la necessità di svalutare.
Ma prima ancora di
preoccuparci degli effetti di un’ipotetica svalutazione della “nuova lira”, la
domanda da porsi è: svalutazione contro
chi ?
Studi recenti
effettuati da varie organizzazioni, tra cui Morgan Stanley e il Fondo Monetario
Internazionale, sono concordi su quanto segue.
In condizioni
normali (cioè se tutte le principali economie mondiali fossero in situazioni
sufficientemente toniche, senza alti livelli di disoccupazione) il cambio di
equilibrio tra euro e dollaro sarebbe intorno a 1,25-1,30.
Ovviamente, uno
dei principali e più noti problemi dell’euro è l’essere troppo forte per vari
paesi, tra cui l’Italia, e troppo debole per altri, tra cui (principalmente) la
Germania.
Il cambio di
equilibrio (inteso come quello che in condizioni normali non creerebbe
particolari problemi a nessuno: che sarebbe, in altri termini, compatibile con
buoni livelli di occupazione in tutti i paesi, e con saldi commerciali in
equilibrio) è stimato intorno a 1,10 per l’Italia e a oltre 1,40, qualcuno dice
anche 1,50, per la Germania.
In caso di rottura
dell’euro, quindi, la moneta italiana non dovrebbe necessariamente perdere
ulteriore terreno contro il dollaro USA. La svalutazione contro dollaro è già avvenuta (oggi oscilliamo intorno
a 1,06) soprattutto a causa delle politiche di Quantitative Easing che la Fed
statunitense ha interrotto da tempo e che la BCE sta invece protraendo. E il
motivo per cui le protrae è chiarissimo: dato che l’architettura dell’Eurosistema
impedisce il rilancio della domanda interna, si cerca disperatamente di
tamponarne le disfunzioni scaricandole sul cambio, e recuperando sull’export
almeno un po’ della crescita che viene a mancare sul mercato domestico.
Un motivo in più
per non preoccuparsi della svalutazione, quindi, è che la svalutazione c’è già stata: contro dollaro il livello
attuale dell’ipotetica neolira non ha necessità di scendere ulteriormente. Tra
l’altro è in dollari che si pagano le materie prime (che peraltro non arrivano
dalla Germania, o dal Nord dell’Eurozona in genere).
E se la neolira
non ha bisogno di svalutare contro dollaro USA, non l’ha neanche nei confronti
del mondo non europeo – che viaggia su regimi monetari più o meno
esplicitamente agganciati al dollaro, non certo all’euro.
L’eventuale breakup
dell’euro non sarebbe una svalutazione della neolira, ma una rivalutazione del neomarco: il cambio medio ponderato
dell’Italia nei confronti della totalità dei suoi partner commerciali
cambierebbe ben poco.
Detto questo, la
mia soluzione favorita, come noto a chi segue questo blog, non è il breakup né
la svalutazione, ma la moneta fiscale parallela. Perché è molto più semplice da
applicare sul piano tecnico-operativo. E perché sarebbe ben più agevole, ritengo,
conseguire il necessario consenso politico.
Ma non sono certo le
(inesistenti) problematiche di un’ipotetica svalutazione a preoccuparmi.
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