Questo documento
l’ho scritto nel luglio dell’anno scorso. NON si parla di Certificati di Credito Fiscale… in quel momento il progetto era ancora in fase di gestazione semi-inconscia.
Parla del come e perché l’euro non funziona (così-com’è) e al 95% abbondante mi
pare ancora attuale.
Non è scritto in
forma esoterico-millenaristica (cfr Barnard) o sarcastica-sferzante (cfr
Bagnai). Quando scrivo sono pacato (dal vivo un po’ meno, o quantomeno non
sempre). Spero non soporifero. Comunque può essere un utile ripasso per
conversazioni con “euristi semi-pentiti”, quelli che hanno “quasi” capito ma
dicono “insomma quanto si agitano questi anti-euro…”
CHE
COSA NON FUNZIONA NELL’EURO ?
Perché l’euro è all’origine della crisi economica
europea ?
I cambi di conversione delle varie monete nell’euro
sono stati fissati l’1.1.1999 (anche se l’euro come moneta fisica è stato
introdotto nel 2002).
Nel 1999 la conversione fu effettuata a cambi di
mercato che riflettevano, in modo sostanzialmente corretto, la realtà economica
dei vari paesi.
In questi tredici anni, però, le dinamiche dei vari
paesi sono state difformi. La Germania e gli altri paesi dell’ex “area marco”
(soprattutto Olanda, Lussemburgo, Austria e Finlandia) hanno tenuto meglio
sotto controllo i loro costi interni (in primo luogo il costo del lavoro)
rispetto ai paesi mediterranei.
Si è creata una differenza di costi e di produttività
del 20-25% circa.
Non è un fenomeno nuovo: i paesi del nord Europa
tendono a essere più disciplinati e meglio controllati dei latini. Infatti in
passato il marco, il fiorino ecc. si sono gradualmente rivalutati rispetto alla
lira, alla peseta, e anche al franco francese.
La flessibilità dei cambi permette di riallineare la
competitività dei vari paesi, e fino all’introduzione dell’euro ha evitato la
formazione di scompensi nelle bilance dei pagamenti.
Con la moneta unica, il prezioso meccanismo del
riallineamento dei cambi è venuto meno.
Nei primi anni dall’introduzione dell’euro, le
differenze di costi e di produttività erano modeste ma sono gradualmente
cresciute.
Dal 2004 in poi, i paesi “teutonici” hanno
costantemente avuto un surplus commerciale pari a circa 150-200 miliardi di
euro all’anno, esattamente pari al deficit dei “latini”. In totale circa 1.500
miliardi (a tutt’oggi). I saldi commerciali della zona euro nel suo complesso
rispetto al resto del mondo sono invece in equilibrio.
Se un’area è costantemente in surplus rispetto
all’altra, cioè se vende più di quanto compra, la contropartita evidentemente è
la formazione di crediti finanziari.
Se questi crediti continuano ad aumentare, a un certo
punto la solvibilità dei debitori diventa dubbia o addirittura viene del tutto
meno.
I debiti dei paesi dell’Europa mediterranea, di
conseguenza (sia governativi che del settore privato) sono sempre più difficili
da rimborsare e da rifinanziare, nonostante non siano mediamente più
elevati rispetto agli altri paesi economicamente avanzati.
Ma la crisi non è stata invece provocata dal
fallimento Lehman del 2008 ?
Il fallimento Lehman è stato il punto culminante della
crisi del credito, che è nata nel settore immobiliare americano e si è poi
estesa a tutti i principali paesi occidentali.
Si è trattato dello scoppio di una bolla speculativa:
anni di crescita economica costante e di continuo aumento dei valori
immobiliari hanno spinto le istituzioni finanziarie a concedere credito con
facilità via via crescente.
Ai primi segnali di rallentamento dell’economia, i
finanziatori si sono trovati con un numero crescente di debitori non in grado
di far fronte agli impegni.
Lehman, importante banca d’affari USA, è fallita nel
settembre 2008 dopo che fino all’ultimo si era sperato in un salvataggio che
evitasse l’insolvenza. Tutte le principali istituzione creditizie mondiali sono
improvvisamente apparse a rischio: nessuno era più in grado di valutare
l’affidabilità di nessun altro.
Il mercato interbancario si è paralizzato e per alcune
settimane non c’è praticamente stata circolazione del credito all’interno delle
varie economie.
Il blocco del credito ha fatto cadere ordini,
produzione e consumi e deteriorato la situazione patrimoniale delle aziende.
La “crisi Lehman” è stato affrontata con forti
iniezioni di liquidità a favore delle banche, e con incrementi dei deficit dei
bilanci pubblici. I metodi sono stati imperfetti e a volte discutibili;
comunque a partire da fine 2009, la caduta dell’attività economica si è fermata
ed è iniziata una ripresa, sia pur lenta e graduale.
La crisi dell’euro è un fenomeno ben distinto dalla
crisi Lehman: nasce da scompensi di bilancia dei pagamenti all’interno
dell’area euro, a loro volta prodotti dagli andamenti difformi di produttività
e costo del lavoro e dall’assenza di un meccanismo equilibratore (la
fluttuazione dei cambi).
Le crisi dell’euro sarebbe comunque avvenuta.
Certo, il suo scoppio in un momento in cui l’economia mondiale era ancora
convalescente dagli effetti della crisi Lehman ne ha reso ancora più pesanti
gli effetti.
Gli eurobond e l’unione fiscale sarebbero una
soluzione ?
La proposta degli eurobond nasce dalla considerazione
che, se guardiamo Eurolandia nel suo insieme, la situazione della finanza
pubblica – misurata sulla base di rapporti quali debito pubblico / PIL e
deficit pubblico / PIL - è migliore di quella, per esempio, degli USA.
Se il debito pubblico di Eurolandia fosse
collettivamente garantito da tutte le economie dell’area euro, non c’è quindi
motivo di pensare che si avrebbero difficoltà di finanziamento o addirittura
insolvenze, come sta invece avvenendo per i paesi europei “periferici”.
Gli eurobond vanno di pari passo con il concetto di
unione fiscale. Se il debito dei vari paesi dell’area euro viene
“collettivizzato”, è logico che debbano diventare collettive anche la decisioni
in merito a tassazione e spesa pubblica.
Almeno sotto il profilo economico, si completerebbe
quindi la creazione di un effettivo stato unico europeo.
Il problema dell’unione fiscale è che, a causa della
moneta unica, alcuni paesi europei sono strutturalmente in surplus e altri
costantemente in deficit.
L’unione fiscale comporta quindi un flusso costante di
trasferimenti finanziari da nord a sud Europa. E’ comprensibile che i paesi in
surplus, e specialmente la Germania, siano contrari.
Ma l’unione fiscale abbinata alla moneta unica è da
rigettare soprattutto perché lascia i paesi meno efficienti in una situazione
di sottosviluppo e di dipendenza finanziaria, che si perpetua nel tempo.
Ne è un esempio proprio l’Italia, che dopo 150 anni di
unione fiscale non è riuscita a risolvere il problema del ritardo di sviluppo
del Mezzogiorno.
Ma simile è la situazione del Regno Unito (Inghilterra
– Scozia), del Belgio (Fiandre – Vallonia), della Germania (Ovest – ex
Repubblica Democratica).
L’unione fiscale eliminerebbe la crisi dei debiti
pubblici degli stati periferici. Condannerebbe però questi stati a una carenza
di competitività permanente. E’ una situazione da evitare: alimenta
inefficienza, corruzione legata ai trasferimenti di fondi, cultura di
dipendenza.
Perché il break-up dell’euro risolverebbe la crisi ?
La crisi dell’euro nasce dallo squilibrio delle bilance
dei pagamenti. Tornando a una pluralità di valute, i paesi più efficienti
vedrebbero le loro rivalutarsi rispetto alle altre.
Per esempio un Nuovo Marco varrebbe circa il 20-25% in
più rispetto alle valute dei paesi mediterranei. Aumenterebbero la ricchezza e
i redditi dei cittadini tedeschi, che potrebbero acquistare beni e servizi, a
condizioni più convenienti, dai paesi del Sud Europa.
In altri termini, invece di cedere beni contro crediti
(a causa dei saldi commerciali sbilanciati) il Nord Europa cederebbe beni
contro beni.
Si avrebbe un rapido recupero di produzione e di
occupazione nei paesi europei periferici, e aumenterebbe drasticamente la loro
capacità di rimborsare i debiti.
Quindi: per il Nord, maggior capacità di consumo e
maggior sicurezza del recuperare i crediti verso il Sud.
Per il Sud, maggiore produzione, occupazione e
tranquillità nel ripagare i debiti (pubblici e privati).
Sul piano giuridico, l’Italia può emettere una sua
valuta ? come avverrebbe in pratica l’uscita dall’euro ?
Uno stato sovrano è libero di definire in quale moneta
le obbligazioni contratte da un suo residente debbano essere soddisfatte. E’
proprio quanto è avvenuto quando i vari membri dell’unione monetaria europea
hanno adottato l’euro.
L’Italia potrebbe quindi emanare un provvedimento
legislativo tale per cui tutti i crediti, i titoli obbligazionari, i contratti
in essere con corrispettivo monetario ecc. regolati dal diritto italiano vengono
ridenominati da euro a Nuove Lire.
Resterebbero invece denominati in euro i contratti di
diritto internazionale.
Con riferimento al debito pubblico italiano, in
particolare, va tenuto conto che solo il 20% circa del suo ammontare è a fronte
di obbligazioni emesse sulla base del diritto internazionale.
Per motivi di ordine pratico, è opportuno che attività
finanziarie, contratti eccetera vengano convertiti da euro a Nuove Lire sulla
base di un rapporto 1:1. Una retribuzione di 3.000 euro mensili diventerebbe
quindi pari a 3.000 Nuove Lire, un deposito bancario di 100.000 euro si
trasformerebbe in 100.000 Nuove Lire, eccetera.
A questo punto, la Nuova Lira verrebbe lasciata libera
di fluttuare liberamente nei confronti dell’euro, posizionandosi a un valore
coerente con la competitività del paese.
E’ possibile stimare il cambio Nuova Lira / euro dopo
il break-up ? e gli effetti sull’inflazione ?
I fattori in gioco sono numerosi, ma una prima
considerazione è che con ogni probabilità a uscire dall’euro sarebbero –
insieme all’Italia – i vari paesi mediterranei che oggi soffrono di problemi
analoghi (su scala anzi più accentuata, se pensiamo a Grecia, Portogallo e
anche Spagna).
La differenza di produttività e di costo del lavoro
unitario che si è creata tra paesi “teutonici” e paesi “latini” dal 1999 a oggi
è, si è detto, del 20-25% circa.
Se il cambio euro / dollaro prima del break-up è pari
a 1,23, l’Euro “residuo” – che a questo punto diventerà la valuta della vecchia
“area marco” - si posizionerebbe a 1,40 circa e la Nuova Lira a 1,10 circa. Analoghe
o maggiori svalutazioni si avrebbero per la Nuova Dracma, il Nuovo Escudo, la
Nuova Peseta ecc.
Quanto all’inflazione, è significativo esaminare che
cosa avvenne dopo la rottura del sistema monetario europeo nel 1992.
Le monete dei vari paesi erano legate da un sistema di
cambi fissi, che dovette essere abbandonato in quanto – per motivi analoghi
agli attuali – le parità erano diventate incoerenti con i costi interni e la
competitività dei vari paesi.
In particolare, il cambio lira / marco tedesco passò
da circa 750 a circa 1.000 (inizialmente anche 1.200, ma avvenne poi un
assestamento).
A fronte di una rivalutazione del marco pari al 33%
(superiore quindi a quanto si può prevedere che avverrebbe oggi) non ci fu nessun
incremento dell’inflazione italiana. Anzi la tendenza fu a una graduale discesa
rispetto al livello precedente (circa 5%).
Anche oggi non c’è da temere una significativa
crescita dell’inflazione per varie ragioni:
·
La domanda
interna è oggi fortemente inferiore alle capacità produttive dell’economia.
·
I costi interni
manterrebbero gli stessi valori di prima dell’uscita dall’euro.
·
I produttori
stranieri che esportano in Italia accetterebbero almeno in parte di sacrificare
margine per non perdere quota di mercato, praticando quindi incrementi di prezzo
inferiori alla svalutazione della Nuova Lira.
·
Le materie prime
tipicamente sono denominate in dollari. La rivalutazione del dollaro rispetto
alla Nuova Lira avverrebbe in misura percentualmente inferiore a quella
dell’euro “Nuovo Marco” (probabilmente 10-15%, non 20-25%).
I cittadini italiani non sarebbero fortemente
impoveriti per effetto dell’uscita dall’euro ?
In assenza di una significativa ripresa
dell’inflazione, il potere d’acquisto di salari e pensioni verrebbe preservato.
Quanto alle attività patrimoniali e finanziarie:
·
Gli immobili
valgono in primo luogo in funzione del loro valore d’uso, che naturalmente non
viene modificato da fenomeni monetari.
·
Per i valori
azionari si verificherebbe probabilmente un forte recupero. Oggi i
valori (basti guardare alla borsa) sono fortemente compressi dalla violenta
contrazione del credito che è stata prodotta dalla crisi dell’euro, e che
verrebbe a questo punto meno.
·
I titoli
obbligazionari a lungo termine (BTP e altri) salirebbero anch’essi di
quotazione. Oggi i corsi sono compressi a causa dell’alto livello dello spread
BTP / Bund, che sconta il timore che l’Italia non sia in grado di rimborsare il
debito, o sia costretto a rimborsarlo in una valuta diversa dall’euro. Il
recupero di sovranità monetaria da parte dall’Italia elimina, di fatto,
il rischio di default.
·
Depositi bancari
e attività a reddito fisso a breve termine resterebbero invariate in termini
numerici. Verrebbero ridenominate da euro a Nuove Lire e, in assenza di
rilevanti fenomeni inflattivi (che, come visto sopra, non sono da prevedersi)
il loro potere d’acquisto interno non verrebbe penalizzato.
In pratica, non ci sarebbe nessun depauperamento
riguardo al potere d’acquisto interno di salari, pensioni e valori patrimoniali
(questi ultimi anzi in parecchi casi crescerebbero).
Perché gli Stati Uniti d’America utilizzano una moneta
unica senza che ne nascano problemi ?
La dimensione dell’economia USA e la popolazione sono
dello stesso ordine di grandezza di Eurolandia. Ma gli USA sono realmente uno
stato unitario. Tassazione e spesa pubblica sono prevalentemente stabiliti dal
governo federale.
Esiste inoltre un’identità culturale, nazionale e
linguistica che l’Europa non possiede. Ci si sente prima statunitensi e poi
texani o californiani; da noi, prima olandesi o spagnoli e poi europei.
Inoltre, gli organi esecutivi e legislativi sono
direttamente o indirettamente eletti da tutta la popolazione, non da quella dei
singoli stati.
Questo significa che trasferimenti finanziari interni
sono accettati molto più facilmente di quanto avverrebbe in un’ipotetica
“transfer union” europea. Per lo stesso motivo, sovvenzioni massicce vengono accettate
(anche se non senza problemi) tra Nord e Sud Italia, tra Germania Ovest e
Germania Est (ma non tra Olanda e Portogallo).
La popolazione USA è poi fortemente mobile. Se non c’è
lavoro in Oregon vado a trovarmelo nell’Illinois. Se faccio il camionista in
Sicilia e non ho clienti, mi aiuta poco che la DHL cerchi trasportatori in
Finlandia (naturalmente su tutto ciò incide parecchio il fattore linguistico).
Ultimo e più importante: anche in conseguenza di
quanto sopra, la distribuzione geografica del reddito negli USA è molto più
omogenea che in Eurolandia. Per esempio, consideriamo quali stati USA hanno un
reddito pro-capite inferiore del 20% o più rispetto alla media nazionale. Sono
solo tre: Mississippi, Arkansas e West Virginia, per un totale di 9 milioni di
residenti (meno del 3% del totale nazionale).
In Eurolandia, sono in questa situazione Spagna,
Portogallo, Grecia e tutti i piccoli stati di recente ingresso: oltre il 20%
della popolazione totale, che sale a più del 25% se consideriamo distintamente
regioni di dimensione media simile agli stati USA (entrerebbe a questo punto
nel computo l’Italia meridionale).
Una distribuzione del reddito omogenea garantisce che
gli sbilanci finanziari interni siano di modesto importo. Questa è la
situazione USA, non quella di Eurolandia.
Chiaramente, gli USA sono una cosiddetta “area
valutaria ottimale”: una regione dove i vantaggi dell’adozione di una moneta
unica superano nettamente gli svantaggi. Per Eurolandia, è vero il contrario.
Non è giusto che la Germania goda i vantaggi della sua
efficienza ?
Certo che è giusto ! l’economia e l’industria tedesca sono di prim’ordine ed è
assolutamente corretto che il cittadino tedesco goda, in media, di un tenore di
vita elevato.
Ma questo sarebbe ancora meglio assicurato proprio
dall’adozione, da parte della Germania, di una moneta rivalutata. Redditi e
patrimoni dei cittadini tedeschi aumenterebbero il loro potere d’acquisto nei
confronti del resto del mondo e in particolare dell’Europa del Sud. Questo
darebbe loro una maggior capacità di spesa e di consumo.
Oggi invece la competitività tedesca, in parte “drogata”
dall’assenza di un sistema di cambi flessibili, produce (invece di maggior
benessere e capacità di consumo) accumuli di crediti finanziari: che non
migliorano il benessere oggi, e rischiano di vanificarsi in futuro via via che
l’Europa del Sud viene gradualmente spinta verso l’insolvenza.
In un’economia aperta, il benessere è tanto più
elevato quanto più è condiviso. Questa non è certo la situazione di Eurolandia
oggi, e al di là delle apparenze non è un vantaggio nemmeno per la
Germania.
E’ giusto affermare che i paesi in maggiore difficoltà
hanno avuto, in passato, comportamenti inadeguati o non virtuosi ?
E’ una semplificazione così grossolana e
approssimativa che si può a buon diritto definirla fuorviante. Per
esempio, Spagna e Irlanda sono entrati in crisi con parametri di bilancio
pubblico (deficit e debito) nettamente migliori della media dell’area euro.
L’Italia ha mantenuto il suo rapporto debito / PIL allo stesso livello (121%)
del 1995. Nello stesso periodo, la Germania è salita dal 56% all’81%.
Chiaramente i paesi che si sono rivelati meno
efficienti avrebbero potuto e possono far meglio varie cose. Ma parlare in
termini pseudomoralistici di “colpe” e di “virtù” non è né corretto né utile.
Per ogni debitore in difficoltà c’è un creditore che l’ha affidato
incautamente: se c’è colpa, è dai due lati (come ha dimostrato una volta di
più, peraltro, la crisi del credito che ha portato al fallimento Lehman nel
2008).
In realtà i paesi meno efficienti hanno potuto
accumulare (e finanziare) deficit commerciali per anni proprio in quanto si
affermava (senza fondamento giuridico né sostanziale) che l’appartenenza
all’area euro proteggeva i vari stati da rischi di default. Il caso Grecia ha
fatto piazza pulita di questa illusione.
Perché non è possibile risolvere la crisi con
l’austerità fiscale e la ristrutturazione delle economie meno efficienti ?
La linea d’azione che la Germania, per il tramite
dell’Unione Europea, ha imposto e sta continuando a sostenere nei confronti
degli altri paesi europei si fonda su due principi.
Da un lato, i debiti dei vari paesi europei, e in
primo luogo i debiti statali, sono troppo alti. Occorre quindi abbassare la
spesa pubblica e aumentare le imposte per ridurli.
Dall’altro lato, i paesi meno competitivi devono
ristrutturare le loro economie,
recuperare produttività, ridurre i costi e colmare il gap con i paesi
della vecchia “area marco”.
In pratica, soprattutto nei paesi mediterranei questo
si è tradotto in aumenti di tasse, riduzioni di prestazioni pensionistiche e
sanitarie e riforme della legislazione del lavoro. Una strategia cosiddetta di
“deflazione interna”: hai un gap di competitività del 20-25% ? riduci i tuoi costi
per pari importo. E siccome i debiti che hai accumulato a causa della tua
scarsa competitività sono in buona parte debiti governativi, aumenta le tasse e
taglia la spesa sociale per pagarli.
Ci sono due problemi fondamentali che minano alla
radice la strategia di “deflazione interna” via austerità. In primo luogo, il
gap di produttività del 20-25% medio (e più alto per le economie meno evolute,
quali la Grecia) si è formato in tredici anni e non si può certo colmare in un
anno o due. Le retribuzioni e i redditi notoriamente hanno vischiosità al ribasso:
varie categorie sono in grado di attivare protezioni e rendite di posizione che
rendono impossibile riduzioni violente in tempi brevi.
Inoltre, comprimendo i costi si riducono
inevitabilmente redditi, consumi e valori patrimoniali (ad esempio i prezzi
degli immobili). A questo punto si apre un grave problema per il sistema
bancario. Le banche hanno sempre più difficoltà a dare credito, o anche solo a
confermare quello in essere, ad aziende e a privati che soffrono cali di
reddito lordo e ancora di più (a causa della maggiore tassazione) di reddito
disponibile e di risparmio.
Si attiva così un circolo vizioso che diventa
rapidamente una spirale mortale: meno costi, meno redditi, meno consumi, più
tasse, meno risparmio, meno credito, meno produzione. Nonostante le maggiori
tasse il gettito non sale e – con il PIL in calo – i rapporti deficit / PIL e
debito / PIL non migliorano, anzi hanno prospettive di peggioramento.
Non mi risulta che una strategia di deflazione interna
via austerità abbia mai risolto i problemi di paesi penalizzati da un
sistema monetario mal concepito. Dopo anni di tentativi e sofferenze inflitte
inutilmente alla popolazione, tutti i principali paesi occidentali hanno finito
per abbandonare il “gold standard” negli anni Venti e Trenta; le parità del
sistema monetario europeo sono saltate nel 1992; l’Argentina ha rotto il cambio
fisso peso / dollaro nel 2001, ecc.
Tra l’altro l’esempio greco dimostra che, senza un
riallineamento valutario, diventa inutile anche il default sul debito pubblico.
Il debito greco è stato fortemente ridotto ma l’economia non è competitiva se
la Grecia continua a usare la stessa moneta della Germania. Non c’è ripresa e
anche il debito post-stralcio risulterà impossibile da rimborsare.
Gli interventi della BCE possono essere sufficienti
per superare la crisi ?
La Banca Centrale Europea (BCE) ha effettuato due tipi
principali di interventi “non convenzionali” (diversi cioè dalle modifiche dei
tassi d’interesse) per limitare gli effetti della crisi.
In primo luogo, ha acquistato grosse quantità di
titoli di stato italiani, spagnoli, greci, portoghesi e irlandesi per
sostenerne i prezzi. Se proseguita, questa strategia porterebbe alla “transfer
union” di cui si sono visti i limiti. Infatti è stata fortemente criticata
dalla Germania, che alla “transfer union” si oppone, fino a portare alle
dimissioni dal consiglio direttivo della BCE di due membri tedeschi (Weber e
Stark).
In secondo luogo, tra fine 2011 e inizio 2012 sono
state attivate operazioni di LTRO (Long Term Refinancing Operations) per circa
1.000 miliardi di euro. In pratica, la BCE ha erogato finanziamenti fino a tre
anni di durata e al tasso dell’1% a un ampio ventaglio di banche europee,
prendendo a garanzia attività finanziarie quali (principalmente) titoli di
stato dei vari paesi.
Le LTRO sono state utili perché molte banche europee
rischiavano di non riuscire a raccogliere fondi sul mercato intercreditizio o
tramite raccolta dal pubblico, e quindi di avere grossi problemi a rifinanziare
impegni in scadenza (tra cui prestiti obbligazionari). Si è quindi evitato il
fallimento di qualche grosso istituto.
E’ stato notato (e da molti criticato) che le banche
non hanno, con queste grandi masse di liquidità, espanso il credito, ma le
hanno lasciate “parcheggiate” (per la parte non necessaria a far fronte a
impegni in scadenza) in depositi presso la BCE.
Non è però corretto accusare le banche per questo. Le
politiche di deflazione interna via austerità, come visto, deteriorano consumi,
redditi, risparmio, valori immobiliari: tutti i fattori alla base della qualità
di credito di aziende e privati.
Di fronte a questa situazione, una banca non può adottare
politiche di espansione del credito. Lascia i soldi in deposito presso la BCE e
ci si aggrappa come a un salvagente, sperando che prima o poi la tempesta passi.
Gli LTRO hanno prodotto, nei primi mesi del 2012, un
incremento di valore dei titoli di stato soprattutto dei paesi periferici
(Italia e Spagna in primo luogo). Le banche li hanno comprati per avere
attività da dare in garanzia e ottenere i finanziamenti BCE. I tassi e gli
spread sono migliorati, il che ha prodotto l’illusione che la crisi fosse in
via di soluzione.
Ma già ad aprile 2012 è apparso evidente che il
beneficio degli LTRO era temporaneo: tassi e spread sono risaliti ai livelli di
ottobre – novembre 2011 e oltre.
La BCE ha un solo mezzo per far definitivamente
cessare la crisi dei debiti sovrani europei: garantire esplicitamente la
solvibilità di tutti gli stati. Una soluzione che equivarrebbe a trasformare
tutti i debiti pubblici in eurobond. Non è la soluzione giusta, non è
compatibile con il mandato attribuito alla BCE e naturalmente è totalmente
inaccettabile per la Germania.
La BCE, a onor del vero, non ha mai preteso che i suoi
interventi avessero natura di “soluzione permanente”. Ha affermato che erano
utili per “guadagnare tempo” e permettere ai governi di riformare e
ristrutturare le rispettive economie.
Il che riconduce alle politiche di “deflazione interna
via austerità”: è stato guadagnato tempo, sì, ma per fare le cose sbagliate…
Che cosa si può dire degli strumenti attivati
dall’Unione Europea (EFSF e ESM) ? e del “fiscal compact” ?
EFSF (European Financial Stability Facilities) ed ESM
(European Stability Mechanism) sono risorse messe a disposizione dei vari paesi
dell’area euro per sostenere le emissioni di debito degli stati in difficoltà.
Gli stanziamenti totali sono dell’ordine di 1.000
miliardi di euro ed è stato affermato, da vari leader politici, che essi
costituiscono un “firewall”, una barriera protettiva contro “l’incendio”. La metafora
lascia intendere che le tensioni interne al sistema euro sono causate non da un
fattore strutturale ma da un qualche “piromane”.
In pratica si afferma: non è il sistema che è mal
costruito, i piromani o, fuor di metafora, la speculazione finanziaria lo
attacca per trarne profitti. Firewall sufficientemente alti e spessi
bloccheranno queste azioni.
In realtà le risorse che i mercati dei capitali
internazionali possono mobilitare, quando ravvisano un’incoerenza di prezzi che
crea un’opportunità di profitto, sono superiori alla capacità di difesa di
qualsiasi “firewall”.
L’unico “firewall” realmente adeguato sarebbe la
garanzia totale della BCE, che ha risorse infinite in quanto i soldi li stampa.
Ma qui si ricade nel tema transfer union, eurobond e tutto ciò che ne segue.
Il “fiscal compact” è un accordo tramite il quale 25
paesi (su 27) appartenenti all’Unione Europea (i 17 che usano l’euro e altri 8:
non hanno aderito, al momento, Regno Unito e Repubblica Ceca) si sono impegnati
a rispettare vincoli particolarmente rigorosi e stringenti in merito a deficit
e debito pubblico. Può essere considerato l’espressione in forma di trattato
della politica di “austerità deflattiva” ispirata dalla Germania e dall’Unione
Europea.
Va ricordato che il “fiscal compact” è l’erede di
vincoli di bilancio che esistevano già nel trattato di Maastricht con cui fu
istituita l’unione monetaria, e che la Germania (insieme alla Francia) fu uno
dei primi paesi a violare.
Può esserci un contributo alla soluzione da parte dei
paesi extra-euro, eventualmente tramite il Fondo Monetario Internazionale ?
Una partecipazione c’è stata, ad esempio in sede di
ristrutturazione del debito greco. Tuttavia i paesi extra-euro si sono
rifiutati di espanderla in maniera rilevante.
Perché infatti paesi esterni all’area euro dovrebbero
fornire risorse per permettere alle nazioni della vecchia area marco di ridurre
il loro impegno, quando sono questi ultimi i creditori dei paesi in difficoltà
?
E perché insistere a sostenere un sistema che appare
sempre più strutturalmente mal impostato ?
Inoltre: le economie emergenti, in primo luogo la
Cina, dovrebbero partecipare alla sovvenzione di nazioni europee che sono
tuttora ben più ricche di loro.
In questo contesto, che gli USA o i paesi emergenti
corrano al soccorso del sistema euro appare quindi non solo politicamente
difficile, ma anche poco logico.
Ma allora l’unico sistema perché le economie meno
evolute superino la crisi è la manipolazione della valuta ?
Definire un sistema di cambi flessibili “manipolativo
delle valute” è un luogo comune ricorrente ma infondato.
Se Germania e Italia hanno monete diverse, la
fluttuazione del cambio riflette le condizioni di fondo e i vantaggi o problemi
specifici che le rispettive economie incontrano nel tempo.
La flessibilità dei cambi è in realtà un meccanismo
stabilizzatore.
I cambi fissi e, a maggior ragione, la moneta unica
sono stati spesso definiti un elemento di stabilità: sono invece un fattore
di grave rigidità.
Svalutare non significa rinunciare alla stabilità
della moneta ? non alimenta l’inflazione ?
Una svalutazione sicuramente rende più costose le
importazioni, inclusi gli acquisti di materie prime. Ma l’impatto
sull’inflazione complessiva è molto inferiore a quanto spesso si pensa.
Nel 1992 il cambio lira / marco è passato da 750 a
1.000 (con punte transitorie anche a 1.200) ma l’inflazione italiana, allora
intorno al 5%, come visto, non è affatto salita. La maggior parte dei costi di
produzione di un paese (in primo luogo il costo del lavoro) sono costi interni.
E per molti prodotti importati, il venditore accetterebbe di ridurre i suoi
prezzi in valuta estera per non perdere mercato.
Tra l’altro, per sostenere la permanenza italiana
dell’euro si sono introdotti aumenti di IVA e accise che hanno inciso sui
prezzi al consumo altrettanto o forse più di quanto succederebbe a seguito di
una svalutazione.
Le economie del Sud Europa devono rassegnarsi ad avere
una valuta debole ?
Ogni economia, in presenza di un sistema di cambi
flessibili, liberi di fluttuare, ha una valuta che riflette la forza dei suoi
fondamentali.
Razionalizzare il sistema produttivo, la spesa pubblica,
recuperare competitività sono obiettivi assolutamente corretti. Nulla vieta che
l’Italia o altri paesi europei-mediterranei possano in futuro recuperare efficienza.
Ne seguirebbe un rafforzamento della valuta.
Il punto è che la valuta forte non è un bene in
quanto tale, ma in quanto riflette fondamentali forti. Altrimenti è una
camicia di forza.
Va notato che paesi economicamente e socialmente
evoluti possono incontrare, in certi momenti della loro storia, difficoltà che
si gestiscono meglio se si è in grado di sviluppare una politica monetaria e
valutaria autonoma. La Svezia ha attraversato, nel 1990-2, una grave crisi
immobiliare e bancaria, che ha superato anche grazie alla svalutazione della
corona.
Forse anche per questo gli svedesi (così come i
danesi, unico altro paese in cui l’ingresso nell’euro è stato sottoposto a
referendum popolare) hanno deciso di restarne fuori.
E’ vero che la Germania deriva tali vantaggi dall’euro
da renderle inaccettabile il break-up ?
Sicuramente negli ultimi anni la crescita di
competitività ha consentito alla Germania performance economiche di tutto
rilievo e ne ha fortemente rafforzato il peso politico all’interno di
Eurolandia.
Certo, l’economia tedesca è oggi florida, soprattutto
in confronto alle difficoltà e alle sofferenze che affliggono i paesi
mediterranei.
Un esame della situazione evidenzia però che i
vantaggi conseguiti dalla Germania grazie all’assetto del sistema monetario
europeo sono in parte illusori e in parte non sostenibili. La pubblica opinione
tedesca ne sta (ritengo) gradualmente maturando la consapevolezza.
Risposta all’obiezione: la Germania vuole continuare a
produrre un surplus commerciale verso il resto dell’Europa.
Gli sbilanci commerciali all’interno dell’euro sono evidentemente
la causa della crisi debitoria dei paesi periferici.
La strategia di austerità deflattiva imposta
dall’Unione Europea (in effetti dalla Germania) al resto di Eurolandia, se mai
funzionasse, azzererebbe il surplus commerciale dell’Europa “teutonica” nei
confronti dell’Europa “latina”, tramite un mix di riduzioni di consumi e di
recupero di competitività da parte di quest’ultima.
Questo beneficio, che per la Germania vale un 5% di
PIL, è quindi insostenibile. Se la Germania vuole continuare ad avere un
surplus commerciale verso il Sud Europa qualcuno deve continuare a finanziarlo:
e chi se non la Germania stessa ?
Uno sbilancio commerciale permanente è possibile solo
in regime di “transfer union”: il nord produce più di quanto spende e
trasferisce soldi al sud per permettergli di spendere più di quanto produce.
Risposta all’obiezione: il commercio extraeuropeo della
Germania sarebbe pesantemente danneggiato dalla rivalutazione della sua moneta.
Come visto in precedenza, il break-up porterebbe
l’Euro Nord (o il Neo Marco) a valere circa 1,40 contro dollaro, a fronte di una
Nuova Lira a 1,10. Attualmente l’euro quota 1,23 contro dollaro.
La rivalutazione subita dalla Germania verso il mondo
extra euro sarebbe del 13-15% circa, il che è significativo ma non enorme.
Peraltro la Germania sarebbe libera di praticare una
politica di tassi d’interesse e credito più accomodante, che limiterebbe la
rivalutazione.
Dato il rigore della Bundesbank è forse più probabile
che si preferisca sfruttare la rivalutazione per limitare alcuni fattori
inflattivi che si stanno oggi riscontrando in Germania, per esempio riguardo ai
prezzi degli immobili.
Se così fosse, sarebbe comunque una prova in più che
la rivalutazione è perfettamente sopportabile per la Germania, e in effetti
addirittura utile.
Risposta all’obiezione: la Germania grazie all’euro si
finanzia a tassi particolarmente bassi.
Oggi è così perché la moneta fugge dal Sud Europa
verso il mondo teutonico. Ma appunto per questo si stanno formando bolle
speculative, ad esempio nel settore immobiliare (vedi sopra), che i tedeschi
per primi vorrebbero limitare.
La Bundesbank in effetti ha fatto capire di ritenere
troppo espansiva l’attuale politica della BCE, il che è giustificato guardando
alla situazione tedesca ma assurdo pensando al contesto complessivo europeo.
Risposta all’obiezione: la Germania vanta crediti
verso il resto d’Europa e non vuole depauperarne il valore.
Questa è l’unica obiezione realmente fondata. Il Nord
Europa e specialmente la Germania hanno accumulato crediti verso il Sud. Se si
verifica il break-up, in che valuta verranno rimborsati ?
In effetti, alla base del sostegno che la Germania dà
alle politiche di “austerità deflattiva” c’è l’idea che i debitori meridionali,
ristrutturandosi e riducendo i consumi, saranno in grado di rimborsare i debiti
in moneta non svalutata.
Questa strategia è totalmente fallita in Grecia, dove
i creditori hanno già dovuto accettare uno stralcio di impatto superiore a
quello che avrebbe prodotto la conversione dei debiti greci in Nuove Dracme. E
per di più l’economia greca, continuando a utilizzare l’euro, rimane non
competitiva e saranno inevitabili altri stralci. Le sofferenze inflitte alla
popolazione greca sono risultate completamente inutili.
Gli altri paesi mediterranei hanno un gap di
competitività con la Germania inferiore a quello greco. Le continue tensioni
sui mercati finanziari e i pessimi dati economici italiani e spagnoli indicano
tuttavia che anche in questi paesi l’austerità deflattiva sta sconfiggendo se
stessa: più tasse, meno consumi, meno redditi, meno gettito, conti pubblici che
non migliorano, PIL in calo, difficoltà di rimborso del debito che aumentano
invece di diminuire.
In un sistema economico, il consumo di qualcuno è il
reddito di qualcun altro. Il Sud Europa migliora la sua capacità di rimborsare
debiti non se abbassa consumi e produzione insieme, ma solo se spende di
meno a parità di produzione.
Questo è possibile solo se la domanda interna viene
sostituita da domanda esterna, cioè se si riequilibrano i saldi commerciali senza
che scenda la produzione. Non si è mai visto accadere questo in tempi
ragionevolmente veloci, senza passare per un riallineamento valutario.
L’alternativa è quindi (dal punto di vista dei
creditori nord europei) tra la svalutazione del valore dei crediti e il rischio
di mancato rimborso.
Va ricordato che il break-up dell’euro rende superflui
gli impegni finanziari dei vari paesi con riferimento ai “firewalls” (EFSF e
ESM). Questi impegni finirebbero per gravare in primo luogo sulla Germania, e
il loro venir meno mitigherebbe ulteriormente i supposti impatti negativi del
break-up.
Esistono centri di potere finanziari che osteggiano la
riforma del sistema monetario europeo ?
Io non lo credo,
nel senso che non lo posso escludere ma mi sfugge da un lato quali siano questi
centri di potere, dall’altro tramite quali meccanismi la situazione attuale
crei loro vantaggi.
Le varie banche d’affari, hedge funds eccetera sono
sicuramente istituzioni notevolmente spregiudicate e abituate a cercare
occasioni di profitto in qualsiasi contesto, compresi quelli negativi per le
economie e per le popolazioni.
Un conto tuttavia è speculare sulle inefficienze di un
sistema, un altro osteggiarne la riforma. Non vedo prova di questo, anche
perché il settore finanziario prospera (come e più di qualsiasi altro) in un
contesto di crescita economica, adeguata disponibilità di credito, valori delle
attività patrimoniali che salgono: la crisi dell’euro ostacola pesantemente
tutto questo.
Chi si oppone allora alla riforma del sistema
monetario europeo, e come si spiega l’atteggiamento variegato della pubblica
opinione ?
I tradizionali partiti di governo (anche quelli
attualmente all’opposizione) considerano l’euro un pilastro dell’attuale
sistema economico europeo e sono orientati a difenderne l’esistenza e
l’assetto. Sono stati loro stessi, in definitiva, a promuoverlo e ad
approvarlo.
Centri di potere importanti sono poi la Commissione
Europea e la Banca Centrale Europea, per i quali l’euro è un presupposto di
potere e influenza se non addirittura (nel caso della BCE) il motivo stesso
della loro esistenza.
L’opinione pubblica dei vari paesi europei manifesta
crescenti dubbi e scetticismo sull’euro e sulle politiche economiche con cui se
ne sta affrontando la crisi. A fronte di molte persone dichiaratamente a favore
della riforma del sistema euro, peraltro, altri (pur dubbiosi) non hanno
adeguatamente chiaro in che misura i suoi problemi strutturali sono
responsabili delle difficoltà economiche.
C’è poi una naturale tendenza al mantenimento dello
status quo: si teme il cambiamento perché c’è preoccupazione che venga gestito
male e finisca per aggravare la situazione invece di risolverla. Preoccupazione
comprensibile, vista l’incompetenza di cui hanno dato e continuano a dar prova
vari organismi sia a livello nazionale che europeo.
Se si arriverà al break-up dell’euro, che cosa
innescherà la decisione ?
In primo luogo, la pressione della pubblica opinione
sui partiti politici, in conseguenza del grave e crescente malessere economico
che tocca tutti i paesi dell’Europa mediterranea.
La stessa opinione pubblica tedesca, peraltro, sta
acquisendo consapevolezza che i vantaggi che la Germania ha ricavato dall’euro
hanno una contropartita: i vari interventi di salvataggio sono passi che
portano sempre più vicini alla transfer union, cioè al finanziamento permanente
– da parte dei paesi ex area marco – di tutto il resto della zona euro.
Infine, l’instabilità finanziaria europea e la grave
recessione che le politiche di austerità deflattiva hanno prodotto sono seri
fattori di limitazione della crescita per tutto il resto del mondo. E’
plausibile che le maggiori potenze economiche mondiali, USA e Cina, renderanno
sempre più esplicite le loro pressioni per arrivare a una soluzione permanente
del problema.
Il break-up dell’euro non significa la fine del
progetto di unità europea ?
Non necessariamente. L’Unione Europea è l’evoluzione di organismi di cooperazione
economica e libero scambio – la CECA, il MEC, la CEE – che hanno svolto un
ruolo complessivamente positivo nel promuovere la collaborazione tra le varie
economie del continente.
Al di là delle finalità economiche, molti degli artefici
del processo di integrazione erano sicuramente, in buona fede, animati dalla
volontà di evitare le incomprensioni e i dissidi che hanno afflitto secoli di
storia europea.
L’unione politica può essere un coronamento di questo
processo, anche se va ricordato che i conflitti tra popoli non si evitano
raggruppandoli in unità statali più ampie: se così fosse, non esisterebbero le
guerre civili.
Al di là di ciò, la creazione di un autentico governo
europeo – con effettivi organi legislativi ed esecutivi, eletti dalla totalità
dei cittadini europei – è un obiettivo di cui occorre verificare in primo luogo
se sia realmente desiderato dalla maggioranza della popolazione dei vari paesi.
Ma ammesso che si arrivi alla creazione degli Stati
Uniti d’Europa, va ricordato che continueranno a sussistere parecchi dei motivi
che rendono l’Europa un’area non ottimale per l’utilizzo di una moneta unica,
tra cui le disomogeneità economiche e linguistiche e la scarsa mobilità della
popolazione.
Tra i vari scenari, è concepibile che si arrivi un
giorno a un’unità politica senza l’unità monetaria. Si può obiettare che
sarebbe un caso senza precedenti, ma senza precedenti era anche l’adozione
della stessa moneta da parte di 17 nazioni…
Un’entità politica può unificare parecchie cose quali
il sistema elettorale, gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari,
l’esercito, la politica estera, ma altre dovranno necessariamente restare
distinte per un periodo di tempo molto lungo. La lingua per esempio: se gli
Stati Uniti d’Europa nasceranno, continuerà a essere utilizzata una pluralità
di idiomi. Non è tipico, ma è la situazione di vari stati (Canada e Svizzera ad
esempio) che non risentono di particolari problemi per questo.
Il progetto Lingua Unica Europea era così privo di
fattibilità che nessuno l’ha varato. Il progetto Moneta Unica Europea è
altrettanto privo di senso, ma (ahimè…) questo era meno ovvio… e oggi ne
soffriamo le conseguenze.
Sembra che i CCF possano diventare oggetto di una proposta di legge del M5S:
RispondiEliminahttp://www.beppegrillo.it/2013/05/m5s_120_miliardi_subito_per_le_pmi/index
Caro Cattaneo,grazie del suo erudito articolo sull'EURO.
RispondiEliminaFaccio parte ( insieme a moltissimi altri )della sua corrente di
pensiero, ma il chiodo resta sempre quello: individuata la patologia, riusciremo mai a guarire il morbo?
Con stima GFC
La cura esiste, quindi mi prendo il rischio di essere ottimista... il problema sono "solo" i tempi della politica. Ma forse, forse, si sta veramente per sbloccare qualcosa di importante.
EliminaMi associo al ringraziamento.
RispondiElimina@ BRANCA DORIA: Marco faceva notare in un commento su Voci dalla Germania che il programma di Alternative für Deutschland, pur con qualche punto debole, differisce solo marginalmente dal suo progetto. Questa potrebbe dunque sembrare una buona base di confronto. Certo anche a me par di rilevare una certa difficoltà nella circolazione di proposte e di idee che tendono per lo più a rimanere confinate nei rispettivi orticelli nazionali. Nel mio piccolo faccio quel che posso perché ho una discreta conoscenza di varie lingue ma tant'è...
Ciao.
carlo
Le proposte nascono a livello nazionale, ma i movimenti di opinione che criticano (a ragion veduta) l'euroassetto ormai stanno prendendo piede dappertutto. Poi, possono piacere di più o di meno UKIP, AfD, Syriza, M5S, FN: ma è indicativo, e importante, che in ognuno dei principali paesi si sta discutendo seriamente, e direi anche costruttivamente, di come cambiare rotta.
Eliminain effetti-velatamente e capziosamente-sul mio sgangherato blog in data 12 maggio inneggiavo a Alternative fur
EliminaDeutschland.