sabato 18 maggio 2013

Dieci mesi dopo


Questo documento l’ho scritto nel luglio dell’anno scorso. NON si parla di Certificati di Credito Fiscale… in quel momento il progetto era ancora in fase di gestazione semi-inconscia. Parla del come e perché l’euro non funziona (così-com’è) e al 95% abbondante mi pare ancora attuale.

Non è scritto in forma esoterico-millenaristica (cfr Barnard) o sarcastica-sferzante (cfr Bagnai). Quando scrivo sono pacato (dal vivo un po’ meno, o quantomeno non sempre). Spero non soporifero. Comunque può essere un utile ripasso per conversazioni con “euristi semi-pentiti”, quelli che hanno “quasi” capito ma dicono “insomma quanto si agitano questi anti-euro…”



CHE COSA NON FUNZIONA NELL’EURO ?

 

 

Perché l’euro è all’origine della crisi economica europea ?

 

I cambi di conversione delle varie monete nell’euro sono stati fissati l’1.1.1999 (anche se l’euro come moneta fisica è stato introdotto nel 2002).

 

Nel 1999 la conversione fu effettuata a cambi di mercato che riflettevano, in modo sostanzialmente corretto, la realtà economica dei vari paesi.

 

In questi tredici anni, però, le dinamiche dei vari paesi sono state difformi. La Germania e gli altri paesi dell’ex “area marco” (soprattutto Olanda, Lussemburgo, Austria e Finlandia) hanno tenuto meglio sotto controllo i loro costi interni (in primo luogo il costo del lavoro) rispetto ai paesi mediterranei.

 

Si è creata una differenza di costi e di produttività del 20-25% circa.

 

Non è un fenomeno nuovo: i paesi del nord Europa tendono a essere più disciplinati e meglio controllati dei latini. Infatti in passato il marco, il fiorino ecc. si sono gradualmente rivalutati rispetto alla lira, alla peseta, e anche al franco francese.

 

La flessibilità dei cambi permette di riallineare la competitività dei vari paesi, e fino all’introduzione dell’euro ha evitato la formazione di scompensi nelle bilance dei pagamenti.

 

Con la moneta unica, il prezioso meccanismo del riallineamento dei cambi è venuto meno.

 

Nei primi anni dall’introduzione dell’euro, le differenze di costi e di produttività erano modeste ma sono gradualmente cresciute.

 

Dal 2004 in poi, i paesi “teutonici” hanno costantemente avuto un surplus commerciale pari a circa 150-200 miliardi di euro all’anno, esattamente pari al deficit dei “latini”. In totale circa 1.500 miliardi (a tutt’oggi). I saldi commerciali della zona euro nel suo complesso rispetto al resto del mondo sono invece in equilibrio.

 

Se un’area è costantemente in surplus rispetto all’altra, cioè se vende più di quanto compra, la contropartita evidentemente è la formazione di crediti finanziari.

 

Se questi crediti continuano ad aumentare, a un certo punto la solvibilità dei debitori diventa dubbia o addirittura viene del tutto meno.

 

I debiti dei paesi dell’Europa mediterranea, di conseguenza (sia governativi che del settore privato) sono sempre più difficili da rimborsare e da rifinanziare, nonostante non siano mediamente più elevati rispetto agli altri paesi economicamente avanzati.

 

 

 

Ma la crisi non è stata invece provocata dal fallimento Lehman del 2008 ?

 

Il fallimento Lehman è stato il punto culminante della crisi del credito, che è nata nel settore immobiliare americano e si è poi estesa a tutti i principali paesi occidentali.

 

Si è trattato dello scoppio di una bolla speculativa: anni di crescita economica costante e di continuo aumento dei valori immobiliari hanno spinto le istituzioni finanziarie a concedere credito con facilità via via crescente.

 

Ai primi segnali di rallentamento dell’economia, i finanziatori si sono trovati con un numero crescente di debitori non in grado di far fronte agli impegni.

 

Lehman, importante banca d’affari USA, è fallita nel settembre 2008 dopo che fino all’ultimo si era sperato in un salvataggio che evitasse l’insolvenza. Tutte le principali istituzione creditizie mondiali sono improvvisamente apparse a rischio: nessuno era più in grado di valutare l’affidabilità di nessun altro.

 

Il mercato interbancario si è paralizzato e per alcune settimane non c’è praticamente stata circolazione del credito all’interno delle varie economie.

 

Il blocco del credito ha fatto cadere ordini, produzione e consumi e deteriorato la situazione patrimoniale delle aziende.

 

La “crisi Lehman” è stato affrontata con forti iniezioni di liquidità a favore delle banche, e con incrementi dei deficit dei bilanci pubblici. I metodi sono stati imperfetti e a volte discutibili; comunque a partire da fine 2009, la caduta dell’attività economica si è fermata ed è iniziata una ripresa, sia pur lenta e graduale.

 

La crisi dell’euro è un fenomeno ben distinto dalla crisi Lehman: nasce da scompensi di bilancia dei pagamenti all’interno dell’area euro, a loro volta prodotti dagli andamenti difformi di produttività e costo del lavoro e dall’assenza di un meccanismo equilibratore (la fluttuazione dei cambi).

 

Le crisi dell’euro sarebbe comunque avvenuta. Certo, il suo scoppio in un momento in cui l’economia mondiale era ancora convalescente dagli effetti della crisi Lehman ne ha reso ancora più pesanti gli effetti.

 

 

 

Gli eurobond e l’unione fiscale sarebbero una soluzione ?

 

La proposta degli eurobond nasce dalla considerazione che, se guardiamo Eurolandia nel suo insieme, la situazione della finanza pubblica – misurata sulla base di rapporti quali debito pubblico / PIL e deficit pubblico / PIL - è migliore di quella, per esempio, degli USA.

 

Se il debito pubblico di Eurolandia fosse collettivamente garantito da tutte le economie dell’area euro, non c’è quindi motivo di pensare che si avrebbero difficoltà di finanziamento o addirittura insolvenze, come sta invece avvenendo per i paesi europei “periferici”.

 

Gli eurobond vanno di pari passo con il concetto di unione fiscale. Se il debito dei vari paesi dell’area euro viene “collettivizzato”, è logico che debbano diventare collettive anche la decisioni in merito a tassazione e spesa pubblica.

 

Almeno sotto il profilo economico, si completerebbe quindi la creazione di un effettivo stato unico europeo.

 

Il problema dell’unione fiscale è che, a causa della moneta unica, alcuni paesi europei sono strutturalmente in surplus e altri costantemente in deficit.

 

L’unione fiscale comporta quindi un flusso costante di trasferimenti finanziari da nord a sud Europa. E’ comprensibile che i paesi in surplus, e specialmente la Germania, siano contrari.

 

Ma l’unione fiscale abbinata alla moneta unica è da rigettare soprattutto perché lascia i paesi meno efficienti in una situazione di sottosviluppo e di dipendenza finanziaria, che si perpetua nel tempo.

 

Ne è un esempio proprio l’Italia, che dopo 150 anni di unione fiscale non è riuscita a risolvere il problema del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno.

 

Ma simile è la situazione del Regno Unito (Inghilterra – Scozia), del Belgio (Fiandre – Vallonia), della Germania (Ovest – ex Repubblica Democratica).

 

L’unione fiscale eliminerebbe la crisi dei debiti pubblici degli stati periferici. Condannerebbe però questi stati a una carenza di competitività permanente. E’ una situazione da evitare: alimenta inefficienza, corruzione legata ai trasferimenti di fondi, cultura di dipendenza.

 

 

 

Perché il break-up dell’euro risolverebbe la crisi ?

 

La crisi dell’euro nasce dallo squilibrio delle bilance dei pagamenti. Tornando a una pluralità di valute, i paesi più efficienti vedrebbero le loro rivalutarsi rispetto alle altre.

 

Per esempio un Nuovo Marco varrebbe circa il 20-25% in più rispetto alle valute dei paesi mediterranei. Aumenterebbero la ricchezza e i redditi dei cittadini tedeschi, che potrebbero acquistare beni e servizi, a condizioni più convenienti, dai paesi del Sud Europa.

 

In altri termini, invece di cedere beni contro crediti (a causa dei saldi commerciali sbilanciati) il Nord Europa cederebbe beni contro beni.

 

Si avrebbe un rapido recupero di produzione e di occupazione nei paesi europei periferici, e aumenterebbe drasticamente la loro capacità di rimborsare i debiti.

 

Quindi: per il Nord, maggior capacità di consumo e maggior sicurezza del recuperare i crediti verso il Sud.

 

Per il Sud, maggiore produzione, occupazione e tranquillità nel ripagare i debiti (pubblici e privati).

 

 

 

Sul piano giuridico, l’Italia può emettere una sua valuta ? come avverrebbe in pratica l’uscita dall’euro ?

 

Uno stato sovrano è libero di definire in quale moneta le obbligazioni contratte da un suo residente debbano essere soddisfatte. E’ proprio quanto è avvenuto quando i vari membri dell’unione monetaria europea hanno adottato l’euro.

 

L’Italia potrebbe quindi emanare un provvedimento legislativo tale per cui tutti i crediti, i titoli obbligazionari, i contratti in essere con corrispettivo monetario ecc. regolati dal diritto italiano vengono ridenominati da euro a Nuove Lire.

 

Resterebbero invece denominati in euro i contratti di diritto internazionale.

 

Con riferimento al debito pubblico italiano, in particolare, va tenuto conto che solo il 20% circa del suo ammontare è a fronte di obbligazioni emesse sulla base del diritto internazionale.

 

Per motivi di ordine pratico, è opportuno che attività finanziarie, contratti eccetera vengano convertiti da euro a Nuove Lire sulla base di un rapporto 1:1. Una retribuzione di 3.000 euro mensili diventerebbe quindi pari a 3.000 Nuove Lire, un deposito bancario di 100.000 euro si trasformerebbe in 100.000 Nuove Lire, eccetera.

 

A questo punto, la Nuova Lira verrebbe lasciata libera di fluttuare liberamente nei confronti dell’euro, posizionandosi a un valore coerente con la competitività del paese.

 

 

E’ possibile stimare il cambio Nuova Lira / euro dopo il break-up ? e gli effetti sull’inflazione ?

 

I fattori in gioco sono numerosi, ma una prima considerazione è che con ogni probabilità a uscire dall’euro sarebbero – insieme all’Italia – i vari paesi mediterranei che oggi soffrono di problemi analoghi (su scala anzi più accentuata, se pensiamo a Grecia, Portogallo e anche Spagna).

 

La differenza di produttività e di costo del lavoro unitario che si è creata tra paesi “teutonici” e paesi “latini” dal 1999 a oggi è, si è detto, del 20-25% circa.

 

Se il cambio euro / dollaro prima del break-up è pari a 1,23, l’Euro “residuo” – che a questo punto diventerà la valuta della vecchia “area marco” - si posizionerebbe a 1,40 circa e la Nuova Lira a 1,10 circa. Analoghe o maggiori svalutazioni si avrebbero per la Nuova Dracma, il Nuovo Escudo, la Nuova Peseta ecc.

 

Quanto all’inflazione, è significativo esaminare che cosa avvenne dopo la rottura del sistema monetario europeo nel 1992.

 

Le monete dei vari paesi erano legate da un sistema di cambi fissi, che dovette essere abbandonato in quanto – per motivi analoghi agli attuali – le parità erano diventate incoerenti con i costi interni e la competitività dei vari paesi.

 

In particolare, il cambio lira / marco tedesco passò da circa 750 a circa 1.000 (inizialmente anche 1.200, ma avvenne poi un assestamento).

 

A fronte di una rivalutazione del marco pari al 33% (superiore quindi a quanto si può prevedere che avverrebbe oggi) non ci fu nessun incremento dell’inflazione italiana. Anzi la tendenza fu a una graduale discesa rispetto al livello precedente (circa 5%).

 

Anche oggi non c’è da temere una significativa crescita dell’inflazione per varie ragioni:

·         La domanda interna è oggi fortemente inferiore alle capacità produttive dell’economia.

·         I costi interni manterrebbero gli stessi valori di prima dell’uscita dall’euro.

·         I produttori stranieri che esportano in Italia accetterebbero almeno in parte di sacrificare margine per non perdere quota di mercato, praticando quindi incrementi di prezzo inferiori alla svalutazione della Nuova Lira.

·         Le materie prime tipicamente sono denominate in dollari. La rivalutazione del dollaro rispetto alla Nuova Lira avverrebbe in misura percentualmente inferiore a quella dell’euro “Nuovo Marco” (probabilmente 10-15%, non 20-25%).

 

 

 

I cittadini italiani non sarebbero fortemente impoveriti per effetto dell’uscita dall’euro ?

 

In assenza di una significativa ripresa dell’inflazione, il potere d’acquisto di salari e pensioni verrebbe preservato.

 

Quanto alle attività patrimoniali e finanziarie:

·         Gli immobili valgono in primo luogo in funzione del loro valore d’uso, che naturalmente non viene modificato da fenomeni monetari.

·         Per i valori azionari si verificherebbe probabilmente un forte recupero. Oggi i valori (basti guardare alla borsa) sono fortemente compressi dalla violenta contrazione del credito che è stata prodotta dalla crisi dell’euro, e che verrebbe a questo punto meno.

·         I titoli obbligazionari a lungo termine (BTP e altri) salirebbero anch’essi di quotazione. Oggi i corsi sono compressi a causa dell’alto livello dello spread BTP / Bund, che sconta il timore che l’Italia non sia in grado di rimborsare il debito, o sia costretto a rimborsarlo in una valuta diversa dall’euro. Il recupero di sovranità monetaria da parte dall’Italia elimina, di fatto, il rischio di default.

·         Depositi bancari e attività a reddito fisso a breve termine resterebbero invariate in termini numerici. Verrebbero ridenominate da euro a Nuove Lire e, in assenza di rilevanti fenomeni inflattivi (che, come visto sopra, non sono da prevedersi) il loro potere d’acquisto interno non verrebbe penalizzato.

 

In pratica, non ci sarebbe nessun depauperamento riguardo al potere d’acquisto interno di salari, pensioni e valori patrimoniali (questi ultimi anzi in parecchi casi crescerebbero).

 

 

 

Perché gli Stati Uniti d’America utilizzano una moneta unica senza che ne nascano problemi ?

 

La dimensione dell’economia USA e la popolazione sono dello stesso ordine di grandezza di Eurolandia. Ma gli USA sono realmente uno stato unitario. Tassazione e spesa pubblica sono prevalentemente stabiliti dal governo federale.

 

Esiste inoltre un’identità culturale, nazionale e linguistica che l’Europa non possiede. Ci si sente prima statunitensi e poi texani o californiani; da noi, prima olandesi o spagnoli e poi europei.

 

Inoltre, gli organi esecutivi e legislativi sono direttamente o indirettamente eletti da tutta la popolazione, non da quella dei singoli stati.

 

Questo significa che trasferimenti finanziari interni sono accettati molto più facilmente di quanto avverrebbe in un’ipotetica “transfer union” europea. Per lo stesso motivo, sovvenzioni massicce vengono accettate (anche se non senza problemi) tra Nord e Sud Italia, tra Germania Ovest e Germania Est (ma non tra Olanda e Portogallo).

 

La popolazione USA è poi fortemente mobile. Se non c’è lavoro in Oregon vado a trovarmelo nell’Illinois. Se faccio il camionista in Sicilia e non ho clienti, mi aiuta poco che la DHL cerchi trasportatori in Finlandia (naturalmente su tutto ciò incide parecchio il fattore linguistico).

 

Ultimo e più importante: anche in conseguenza di quanto sopra, la distribuzione geografica del reddito negli USA è molto più omogenea che in Eurolandia. Per esempio, consideriamo quali stati USA hanno un reddito pro-capite inferiore del 20% o più rispetto alla media nazionale. Sono solo tre: Mississippi, Arkansas e West Virginia, per un totale di 9 milioni di residenti (meno del 3% del totale nazionale).

 

In Eurolandia, sono in questa situazione Spagna, Portogallo, Grecia e tutti i piccoli stati di recente ingresso: oltre il 20% della popolazione totale, che sale a più del 25% se consideriamo distintamente regioni di dimensione media simile agli stati USA (entrerebbe a questo punto nel computo l’Italia meridionale).

 

Una distribuzione del reddito omogenea garantisce che gli sbilanci finanziari interni siano di modesto importo. Questa è la situazione USA, non quella di Eurolandia.

 

Chiaramente, gli USA sono una cosiddetta “area valutaria ottimale”: una regione dove i vantaggi dell’adozione di una moneta unica superano nettamente gli svantaggi. Per Eurolandia, è vero il contrario.

 

 

 

Non è giusto che la Germania goda i vantaggi della sua efficienza ?

 

Certo che è giusto ! l’economia e l’industria tedesca sono di prim’ordine ed è assolutamente corretto che il cittadino tedesco goda, in media, di un tenore di vita elevato.

 

Ma questo sarebbe ancora meglio assicurato proprio dall’adozione, da parte della Germania, di una moneta rivalutata. Redditi e patrimoni dei cittadini tedeschi aumenterebbero il loro potere d’acquisto nei confronti del resto del mondo e in particolare dell’Europa del Sud. Questo darebbe loro una maggior capacità di spesa e di consumo.

 

Oggi invece la competitività tedesca, in parte “drogata” dall’assenza di un sistema di cambi flessibili, produce (invece di maggior benessere e capacità di consumo) accumuli di crediti finanziari: che non migliorano il benessere oggi, e rischiano di vanificarsi in futuro via via che l’Europa del Sud viene gradualmente spinta verso l’insolvenza.

 

In un’economia aperta, il benessere è tanto più elevato quanto più è condiviso. Questa non è certo la situazione di Eurolandia oggi, e al di là delle apparenze non è un vantaggio nemmeno per la Germania.

 

 

 

E’ giusto affermare che i paesi in maggiore difficoltà hanno avuto, in passato, comportamenti inadeguati o non virtuosi ?

 

E’ una semplificazione così grossolana e approssimativa che si può a buon diritto definirla fuorviante. Per esempio, Spagna e Irlanda sono entrati in crisi con parametri di bilancio pubblico (deficit e debito) nettamente migliori della media dell’area euro. L’Italia ha mantenuto il suo rapporto debito / PIL allo stesso livello (121%) del 1995. Nello stesso periodo, la Germania è salita dal 56% all’81%.

 

Chiaramente i paesi che si sono rivelati meno efficienti avrebbero potuto e possono far meglio varie cose. Ma parlare in termini pseudomoralistici di “colpe” e di “virtù” non è né corretto né utile. Per ogni debitore in difficoltà c’è un creditore che l’ha affidato incautamente: se c’è colpa, è dai due lati (come ha dimostrato una volta di più, peraltro, la crisi del credito che ha portato al fallimento Lehman nel 2008).

 

In realtà i paesi meno efficienti hanno potuto accumulare (e finanziare) deficit commerciali per anni proprio in quanto si affermava (senza fondamento giuridico né sostanziale) che l’appartenenza all’area euro proteggeva i vari stati da rischi di default. Il caso Grecia ha fatto piazza pulita di questa illusione.

 

 

 

Perché non è possibile risolvere la crisi con l’austerità fiscale e la ristrutturazione delle economie meno efficienti ?

 

La linea d’azione che la Germania, per il tramite dell’Unione Europea, ha imposto e sta continuando a sostenere nei confronti degli altri paesi europei si fonda su due principi.

 

Da un lato, i debiti dei vari paesi europei, e in primo luogo i debiti statali, sono troppo alti. Occorre quindi abbassare la spesa pubblica e aumentare le imposte per ridurli.

 

Dall’altro lato, i paesi meno competitivi devono ristrutturare le loro economie,  recuperare produttività, ridurre i costi e colmare il gap con i paesi della vecchia “area marco”.

 

In pratica, soprattutto nei paesi mediterranei questo si è tradotto in aumenti di tasse, riduzioni di prestazioni pensionistiche e sanitarie e riforme della legislazione del lavoro. Una strategia cosiddetta di “deflazione interna”: hai un gap di competitività del 20-25% ? riduci i tuoi costi per pari importo. E siccome i debiti che hai accumulato a causa della tua scarsa competitività sono in buona parte debiti governativi, aumenta le tasse e taglia la spesa sociale per pagarli.

 

Ci sono due problemi fondamentali che minano alla radice la strategia di “deflazione interna” via austerità. In primo luogo, il gap di produttività del 20-25% medio (e più alto per le economie meno evolute, quali la Grecia) si è formato in tredici anni e non si può certo colmare in un anno o due. Le retribuzioni e i redditi notoriamente hanno vischiosità al ribasso: varie categorie sono in grado di attivare protezioni e rendite di posizione che rendono impossibile riduzioni violente in tempi brevi.

 

Inoltre, comprimendo i costi si riducono inevitabilmente redditi, consumi e valori patrimoniali (ad esempio i prezzi degli immobili). A questo punto si apre un grave problema per il sistema bancario. Le banche hanno sempre più difficoltà a dare credito, o anche solo a confermare quello in essere, ad aziende e a privati che soffrono cali di reddito lordo e ancora di più (a causa della maggiore tassazione) di reddito disponibile e di risparmio.

 

Si attiva così un circolo vizioso che diventa rapidamente una spirale mortale: meno costi, meno redditi, meno consumi, più tasse, meno risparmio, meno credito, meno produzione. Nonostante le maggiori tasse il gettito non sale e – con il PIL in calo – i rapporti deficit / PIL e debito / PIL non migliorano, anzi hanno prospettive di peggioramento.

 

Non mi risulta che una strategia di deflazione interna via austerità abbia mai risolto i problemi di paesi penalizzati da un sistema monetario mal concepito. Dopo anni di tentativi e sofferenze inflitte inutilmente alla popolazione, tutti i principali paesi occidentali hanno finito per abbandonare il “gold standard” negli anni Venti e Trenta; le parità del sistema monetario europeo sono saltate nel 1992; l’Argentina ha rotto il cambio fisso peso / dollaro nel 2001, ecc.

 

Tra l’altro l’esempio greco dimostra che, senza un riallineamento valutario, diventa inutile anche il default sul debito pubblico. Il debito greco è stato fortemente ridotto ma l’economia non è competitiva se la Grecia continua a usare la stessa moneta della Germania. Non c’è ripresa e anche il debito post-stralcio risulterà impossibile da rimborsare.

 

 

 

Gli interventi della BCE possono essere sufficienti per superare la crisi ?

 

La Banca Centrale Europea (BCE) ha effettuato due tipi principali di interventi “non convenzionali” (diversi cioè dalle modifiche dei tassi d’interesse) per limitare gli effetti della crisi.

 

In primo luogo, ha acquistato grosse quantità di titoli di stato italiani, spagnoli, greci, portoghesi e irlandesi per sostenerne i prezzi. Se proseguita, questa strategia porterebbe alla “transfer union” di cui si sono visti i limiti. Infatti è stata fortemente criticata dalla Germania, che alla “transfer union” si oppone, fino a portare alle dimissioni dal consiglio direttivo della BCE di due membri tedeschi (Weber e Stark).

 

In secondo luogo, tra fine 2011 e inizio 2012 sono state attivate operazioni di LTRO (Long Term Refinancing Operations) per circa 1.000 miliardi di euro. In pratica, la BCE ha erogato finanziamenti fino a tre anni di durata e al tasso dell’1% a un ampio ventaglio di banche europee, prendendo a garanzia attività finanziarie quali (principalmente) titoli di stato dei vari paesi.

 

Le LTRO sono state utili perché molte banche europee rischiavano di non riuscire a raccogliere fondi sul mercato intercreditizio o tramite raccolta dal pubblico, e quindi di avere grossi problemi a rifinanziare impegni in scadenza (tra cui prestiti obbligazionari). Si è quindi evitato il fallimento di qualche grosso istituto.

 

E’ stato notato (e da molti criticato) che le banche non hanno, con queste grandi masse di liquidità, espanso il credito, ma le hanno lasciate “parcheggiate” (per la parte non necessaria a far fronte a impegni in scadenza) in depositi presso la BCE.

 

Non è però corretto accusare le banche per questo. Le politiche di deflazione interna via austerità, come visto, deteriorano consumi, redditi, risparmio, valori immobiliari: tutti i fattori alla base della qualità di credito di aziende e privati.

 

Di fronte a questa situazione, una banca non può adottare politiche di espansione del credito. Lascia i soldi in deposito presso la BCE e ci si aggrappa come a un salvagente, sperando che prima o poi la tempesta passi.

 

Gli LTRO hanno prodotto, nei primi mesi del 2012, un incremento di valore dei titoli di stato soprattutto dei paesi periferici (Italia e Spagna in primo luogo). Le banche li hanno comprati per avere attività da dare in garanzia e ottenere i finanziamenti BCE. I tassi e gli spread sono migliorati, il che ha prodotto l’illusione che la crisi fosse in via di soluzione.

 

Ma già ad aprile 2012 è apparso evidente che il beneficio degli LTRO era temporaneo: tassi e spread sono risaliti ai livelli di ottobre – novembre 2011 e oltre.

 

La BCE ha un solo mezzo per far definitivamente cessare la crisi dei debiti sovrani europei: garantire esplicitamente la solvibilità di tutti gli stati. Una soluzione che equivarrebbe a trasformare tutti i debiti pubblici in eurobond. Non è la soluzione giusta, non è compatibile con il mandato attribuito alla BCE e naturalmente è totalmente inaccettabile per la Germania.

 

La BCE, a onor del vero, non ha mai preteso che i suoi interventi avessero natura di “soluzione permanente”. Ha affermato che erano utili per “guadagnare tempo” e permettere ai governi di riformare e ristrutturare le rispettive economie.

 

Il che riconduce alle politiche di “deflazione interna via austerità”: è stato guadagnato tempo, sì, ma per fare le cose sbagliate…

 

 

 

Che cosa si può dire degli strumenti attivati dall’Unione Europea (EFSF e ESM) ? e del “fiscal compact” ?

 

EFSF (European Financial Stability Facilities) ed ESM (European Stability Mechanism) sono risorse messe a disposizione dei vari paesi dell’area euro per sostenere le emissioni di debito degli stati in difficoltà.

 

Gli stanziamenti totali sono dell’ordine di 1.000 miliardi di euro ed è stato affermato, da vari leader politici, che essi costituiscono un “firewall”, una barriera protettiva contro “l’incendio”. La metafora lascia intendere che le tensioni interne al sistema euro sono causate non da un fattore strutturale ma da un qualche “piromane”.

 

In pratica si afferma: non è il sistema che è mal costruito, i piromani o, fuor di metafora, la speculazione finanziaria lo attacca per trarne profitti. Firewall sufficientemente alti e spessi bloccheranno queste azioni.

 

In realtà le risorse che i mercati dei capitali internazionali possono mobilitare, quando ravvisano un’incoerenza di prezzi che crea un’opportunità di profitto, sono superiori alla capacità di difesa di qualsiasi “firewall”.

 

L’unico “firewall” realmente adeguato sarebbe la garanzia totale della BCE, che ha risorse infinite in quanto i soldi li stampa. Ma qui si ricade nel tema transfer union, eurobond e tutto ciò che ne segue.

 

Il “fiscal compact” è un accordo tramite il quale 25 paesi (su 27) appartenenti all’Unione Europea (i 17 che usano l’euro e altri 8: non hanno aderito, al momento, Regno Unito e Repubblica Ceca) si sono impegnati a rispettare vincoli particolarmente rigorosi e stringenti in merito a deficit e debito pubblico. Può essere considerato l’espressione in forma di trattato della politica di “austerità deflattiva” ispirata dalla Germania e dall’Unione Europea.

 

Va ricordato che il “fiscal compact” è l’erede di vincoli di bilancio che esistevano già nel trattato di Maastricht con cui fu istituita l’unione monetaria, e che la Germania (insieme alla Francia) fu uno dei primi paesi a violare.

 

 

 

Può esserci un contributo alla soluzione da parte dei paesi extra-euro, eventualmente tramite il Fondo Monetario Internazionale ?

 

Una partecipazione c’è stata, ad esempio in sede di ristrutturazione del debito greco. Tuttavia i paesi extra-euro si sono rifiutati di espanderla in maniera rilevante.

 

Perché infatti paesi esterni all’area euro dovrebbero fornire risorse per permettere alle nazioni della vecchia area marco di ridurre il loro impegno, quando sono questi ultimi i creditori dei paesi in difficoltà ?

 

E perché insistere a sostenere un sistema che appare sempre più strutturalmente mal impostato ?

 

Inoltre: le economie emergenti, in primo luogo la Cina, dovrebbero partecipare alla sovvenzione di nazioni europee che sono tuttora ben più ricche di loro.

 

In questo contesto, che gli USA o i paesi emergenti corrano al soccorso del sistema euro appare quindi non solo politicamente difficile, ma anche poco logico.

 

 

 

Ma allora l’unico sistema perché le economie meno evolute superino la crisi è la manipolazione della valuta ?

 

Definire un sistema di cambi flessibili “manipolativo delle valute” è un luogo comune ricorrente ma infondato.

 

Se Germania e Italia hanno monete diverse, la fluttuazione del cambio riflette le condizioni di fondo e i vantaggi o problemi specifici che le rispettive economie incontrano nel tempo.

 

La flessibilità dei cambi è in realtà un meccanismo stabilizzatore.

 

I cambi fissi e, a maggior ragione, la moneta unica sono stati spesso definiti un elemento di stabilità: sono invece un fattore di grave rigidità.

 

 

 

Svalutare non significa rinunciare alla stabilità della moneta ? non alimenta l’inflazione ?

 

Una svalutazione sicuramente rende più costose le importazioni, inclusi gli acquisti di materie prime. Ma l’impatto sull’inflazione complessiva è molto inferiore a quanto spesso si pensa.

 

Nel 1992 il cambio lira / marco è passato da 750 a 1.000 (con punte transitorie anche a 1.200) ma l’inflazione italiana, allora intorno al 5%, come visto, non è affatto salita. La maggior parte dei costi di produzione di un paese (in primo luogo il costo del lavoro) sono costi interni. E per molti prodotti importati, il venditore accetterebbe di ridurre i suoi prezzi in valuta estera per non perdere mercato.

 

Tra l’altro, per sostenere la permanenza italiana dell’euro si sono introdotti aumenti di IVA e accise che hanno inciso sui prezzi al consumo altrettanto o forse più di quanto succederebbe a seguito di una svalutazione.

 

 

 

Le economie del Sud Europa devono rassegnarsi ad avere una valuta debole ?

 

Ogni economia, in presenza di un sistema di cambi flessibili, liberi di fluttuare, ha una valuta che riflette la forza dei suoi fondamentali.

 

Razionalizzare il sistema produttivo, la spesa pubblica, recuperare competitività sono obiettivi assolutamente corretti. Nulla vieta che l’Italia o altri paesi europei-mediterranei possano in futuro recuperare efficienza. Ne seguirebbe un rafforzamento della valuta.

 

Il punto è che la valuta forte non è un bene in quanto tale, ma in quanto riflette fondamentali forti. Altrimenti è una camicia di forza.

 

Va notato che paesi economicamente e socialmente evoluti possono incontrare, in certi momenti della loro storia, difficoltà che si gestiscono meglio se si è in grado di sviluppare una politica monetaria e valutaria autonoma. La Svezia ha attraversato, nel 1990-2, una grave crisi immobiliare e bancaria, che ha superato anche grazie alla svalutazione della corona.

 

Forse anche per questo gli svedesi (così come i danesi, unico altro paese in cui l’ingresso nell’euro è stato sottoposto a referendum popolare) hanno deciso di restarne fuori.

 

 

 

E’ vero che la Germania deriva tali vantaggi dall’euro da renderle inaccettabile il break-up ?

 

Sicuramente negli ultimi anni la crescita di competitività ha consentito alla Germania performance economiche di tutto rilievo e ne ha fortemente rafforzato il peso politico all’interno di Eurolandia.

 

Certo, l’economia tedesca è oggi florida, soprattutto in confronto alle difficoltà e alle sofferenze che affliggono i paesi mediterranei.

 

Un esame della situazione evidenzia però che i vantaggi conseguiti dalla Germania grazie all’assetto del sistema monetario europeo sono in parte illusori e in parte non sostenibili. La pubblica opinione tedesca ne sta (ritengo) gradualmente maturando la consapevolezza.

 

 

 

Risposta all’obiezione: la Germania vuole continuare a produrre un surplus commerciale verso il resto dell’Europa.

 

Gli sbilanci commerciali all’interno dell’euro sono evidentemente la causa della crisi debitoria dei paesi periferici.

 

La strategia di austerità deflattiva imposta dall’Unione Europea (in effetti dalla Germania) al resto di Eurolandia, se mai funzionasse, azzererebbe il surplus commerciale dell’Europa “teutonica” nei confronti dell’Europa “latina”, tramite un mix di riduzioni di consumi e di recupero di competitività da parte di quest’ultima.

 

Questo beneficio, che per la Germania vale un 5% di PIL, è quindi insostenibile. Se la Germania vuole continuare ad avere un surplus commerciale verso il Sud Europa qualcuno deve continuare a finanziarlo: e chi se non la Germania stessa ?

 

Uno sbilancio commerciale permanente è possibile solo in regime di “transfer union”: il nord produce più di quanto spende e trasferisce soldi al sud per permettergli di spendere più di quanto produce.

 

 

 

Risposta all’obiezione: il commercio extraeuropeo della Germania sarebbe pesantemente danneggiato dalla rivalutazione della sua moneta.

 

Come visto in precedenza, il break-up porterebbe l’Euro Nord (o il Neo Marco) a valere circa 1,40 contro dollaro, a fronte di una Nuova Lira a 1,10. Attualmente l’euro quota 1,23 contro dollaro.

 

La rivalutazione subita dalla Germania verso il mondo extra euro sarebbe del 13-15% circa, il che è significativo ma non enorme.

 

Peraltro la Germania sarebbe libera di praticare una politica di tassi d’interesse e credito più accomodante, che limiterebbe la rivalutazione.

 

Dato il rigore della Bundesbank è forse più probabile che si preferisca sfruttare la rivalutazione per limitare alcuni fattori inflattivi che si stanno oggi riscontrando in Germania, per esempio riguardo ai prezzi degli immobili.

 

Se così fosse, sarebbe comunque una prova in più che la rivalutazione è perfettamente sopportabile per la Germania, e in effetti addirittura utile.

 

 

 

Risposta all’obiezione: la Germania grazie all’euro si finanzia a tassi particolarmente bassi.

 

Oggi è così perché la moneta fugge dal Sud Europa verso il mondo teutonico. Ma appunto per questo si stanno formando bolle speculative, ad esempio nel settore immobiliare (vedi sopra), che i tedeschi per primi vorrebbero limitare.

La Bundesbank in effetti ha fatto capire di ritenere troppo espansiva l’attuale politica della BCE, il che è giustificato guardando alla situazione tedesca ma assurdo pensando al contesto complessivo europeo.

 

 

 

Risposta all’obiezione: la Germania vanta crediti verso il resto d’Europa e non vuole depauperarne il valore.

 

Questa è l’unica obiezione realmente fondata. Il Nord Europa e specialmente la Germania hanno accumulato crediti verso il Sud. Se si verifica il break-up, in che valuta verranno rimborsati ?

 

In effetti, alla base del sostegno che la Germania dà alle politiche di “austerità deflattiva” c’è l’idea che i debitori meridionali, ristrutturandosi e riducendo i consumi, saranno in grado di rimborsare i debiti in moneta non svalutata.

 

Questa strategia è totalmente fallita in Grecia, dove i creditori hanno già dovuto accettare uno stralcio di impatto superiore a quello che avrebbe prodotto la conversione dei debiti greci in Nuove Dracme. E per di più l’economia greca, continuando a utilizzare l’euro, rimane non competitiva e saranno inevitabili altri stralci. Le sofferenze inflitte alla popolazione greca sono risultate completamente inutili.

 

Gli altri paesi mediterranei hanno un gap di competitività con la Germania inferiore a quello greco. Le continue tensioni sui mercati finanziari e i pessimi dati economici italiani e spagnoli indicano tuttavia che anche in questi paesi l’austerità deflattiva sta sconfiggendo se stessa: più tasse, meno consumi, meno redditi, meno gettito, conti pubblici che non migliorano, PIL in calo, difficoltà di rimborso del debito che aumentano invece di diminuire.

 

In un sistema economico, il consumo di qualcuno è il reddito di qualcun altro. Il Sud Europa migliora la sua capacità di rimborsare debiti non se abbassa consumi e produzione insieme, ma solo se spende di meno a parità di produzione.

 

Questo è possibile solo se la domanda interna viene sostituita da domanda esterna, cioè se si riequilibrano i saldi commerciali senza che scenda la produzione. Non si è mai visto accadere questo in tempi ragionevolmente veloci, senza passare per un riallineamento valutario.

 

L’alternativa è quindi (dal punto di vista dei creditori nord europei) tra la svalutazione del valore dei crediti e il rischio di mancato rimborso.

 

Va ricordato che il break-up dell’euro rende superflui gli impegni finanziari dei vari paesi con riferimento ai “firewalls” (EFSF e ESM). Questi impegni finirebbero per gravare in primo luogo sulla Germania, e il loro venir meno mitigherebbe ulteriormente i supposti impatti negativi del break-up.

 

 

 

Esistono centri di potere finanziari che osteggiano la riforma del sistema monetario europeo ?

 

Io non lo credo, nel senso che non lo posso escludere ma mi sfugge da un lato quali siano questi centri di potere, dall’altro tramite quali meccanismi la situazione attuale crei loro vantaggi.

 

Le varie banche d’affari, hedge funds eccetera sono sicuramente istituzioni notevolmente spregiudicate e abituate a cercare occasioni di profitto in qualsiasi contesto, compresi quelli negativi per le economie e per le popolazioni.

 

Un conto tuttavia è speculare sulle inefficienze di un sistema, un altro osteggiarne la riforma. Non vedo prova di questo, anche perché il settore finanziario prospera (come e più di qualsiasi altro) in un contesto di crescita economica, adeguata disponibilità di credito, valori delle attività patrimoniali che salgono: la crisi dell’euro ostacola pesantemente tutto questo.

 

 

 

Chi si oppone allora alla riforma del sistema monetario europeo, e come si spiega l’atteggiamento variegato della pubblica opinione ?

 

I tradizionali partiti di governo (anche quelli attualmente all’opposizione) considerano l’euro un pilastro dell’attuale sistema economico europeo e sono orientati a difenderne l’esistenza e l’assetto. Sono stati loro stessi, in definitiva, a promuoverlo e ad approvarlo.

 

Centri di potere importanti sono poi la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea, per i quali l’euro è un presupposto di potere e influenza se non addirittura (nel caso della BCE) il motivo stesso della loro esistenza.

 

L’opinione pubblica dei vari paesi europei manifesta crescenti dubbi e scetticismo sull’euro e sulle politiche economiche con cui se ne sta affrontando la crisi. A fronte di molte persone dichiaratamente a favore della riforma del sistema euro, peraltro, altri (pur dubbiosi) non hanno adeguatamente chiaro in che misura i suoi problemi strutturali sono responsabili delle difficoltà economiche.

 

C’è poi una naturale tendenza al mantenimento dello status quo: si teme il cambiamento perché c’è preoccupazione che venga gestito male e finisca per aggravare la situazione invece di risolverla. Preoccupazione comprensibile, vista l’incompetenza di cui hanno dato e continuano a dar prova vari organismi sia a livello nazionale che europeo.

 

 

 

Se si arriverà al break-up dell’euro, che cosa innescherà la decisione ?

 

In primo luogo, la pressione della pubblica opinione sui partiti politici, in conseguenza del grave e crescente malessere economico che tocca tutti i paesi dell’Europa mediterranea.

 

La stessa opinione pubblica tedesca, peraltro, sta acquisendo consapevolezza che i vantaggi che la Germania ha ricavato dall’euro hanno una contropartita: i vari interventi di salvataggio sono passi che portano sempre più vicini alla transfer union, cioè al finanziamento permanente – da parte dei paesi ex area marco – di tutto il resto della zona euro.

 

Infine, l’instabilità finanziaria europea e la grave recessione che le politiche di austerità deflattiva hanno prodotto sono seri fattori di limitazione della crescita per tutto il resto del mondo. E’ plausibile che le maggiori potenze economiche mondiali, USA e Cina, renderanno sempre più esplicite le loro pressioni per arrivare a una soluzione permanente del problema.

 

 

 

Il break-up dell’euro non significa la fine del progetto di unità europea ?

 

Non necessariamente. L’Unione Europea è l’evoluzione di organismi di cooperazione economica e libero scambio – la CECA, il MEC, la CEE – che hanno svolto un ruolo complessivamente positivo nel promuovere la collaborazione tra le varie economie del continente.

 

Al di là delle finalità economiche, molti degli artefici del processo di integrazione erano sicuramente, in buona fede, animati dalla volontà di evitare le incomprensioni e i dissidi che hanno afflitto secoli di storia europea.

 

L’unione politica può essere un coronamento di questo processo, anche se va ricordato che i conflitti tra popoli non si evitano raggruppandoli in unità statali più ampie: se così fosse, non esisterebbero le guerre civili.

 

Al di là di ciò, la creazione di un autentico governo europeo – con effettivi organi legislativi ed esecutivi, eletti dalla totalità dei cittadini europei – è un obiettivo di cui occorre verificare in primo luogo se sia realmente desiderato dalla maggioranza della popolazione dei vari paesi.

 

Ma ammesso che si arrivi alla creazione degli Stati Uniti d’Europa, va ricordato che continueranno a sussistere parecchi dei motivi che rendono l’Europa un’area non ottimale per l’utilizzo di una moneta unica, tra cui le disomogeneità economiche e linguistiche e la scarsa mobilità della popolazione.

 

Tra i vari scenari, è concepibile che si arrivi un giorno a un’unità politica senza l’unità monetaria. Si può obiettare che sarebbe un caso senza precedenti, ma senza precedenti era anche l’adozione della stessa moneta da parte di 17 nazioni…

 

Un’entità politica può unificare parecchie cose quali il sistema elettorale, gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari, l’esercito, la politica estera, ma altre dovranno necessariamente restare distinte per un periodo di tempo molto lungo. La lingua per esempio: se gli Stati Uniti d’Europa nasceranno, continuerà a essere utilizzata una pluralità di idiomi. Non è tipico, ma è la situazione di vari stati (Canada e Svizzera ad esempio) che non risentono di particolari problemi per questo.

 

Il progetto Lingua Unica Europea era così privo di fattibilità che nessuno l’ha varato. Il progetto Moneta Unica Europea è altrettanto privo di senso, ma (ahimè…) questo era meno ovvio… e oggi ne soffriamo le conseguenze.

6 commenti:

  1. Sembra che i CCF possano diventare oggetto di una proposta di legge del M5S:

    http://www.beppegrillo.it/2013/05/m5s_120_miliardi_subito_per_le_pmi/index

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  2. Caro Cattaneo,grazie del suo erudito articolo sull'EURO.
    Faccio parte ( insieme a moltissimi altri )della sua corrente di
    pensiero, ma il chiodo resta sempre quello: individuata la patologia, riusciremo mai a guarire il morbo?
    Con stima GFC

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    1. La cura esiste, quindi mi prendo il rischio di essere ottimista... il problema sono "solo" i tempi della politica. Ma forse, forse, si sta veramente per sbloccare qualcosa di importante.

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  3. Mi associo al ringraziamento.
    @ BRANCA DORIA: Marco faceva notare in un commento su Voci dalla Germania che il programma di Alternative für Deutschland, pur con qualche punto debole, differisce solo marginalmente dal suo progetto. Questa potrebbe dunque sembrare una buona base di confronto. Certo anche a me par di rilevare una certa difficoltà nella circolazione di proposte e di idee che tendono per lo più a rimanere confinate nei rispettivi orticelli nazionali. Nel mio piccolo faccio quel che posso perché ho una discreta conoscenza di varie lingue ma tant'è...
    Ciao.
    carlo

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    1. Le proposte nascono a livello nazionale, ma i movimenti di opinione che criticano (a ragion veduta) l'euroassetto ormai stanno prendendo piede dappertutto. Poi, possono piacere di più o di meno UKIP, AfD, Syriza, M5S, FN: ma è indicativo, e importante, che in ognuno dei principali paesi si sta discutendo seriamente, e direi anche costruttivamente, di come cambiare rotta.

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    2. in effetti-velatamente e capziosamente-sul mio sgangherato blog in data 12 maggio inneggiavo a Alternative fur
      Deutschland.

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