Visualizzazione post con etichetta Crowding Out. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Crowding Out. Mostra tutti i post

lunedì 7 marzo 2022

Deficit pubblico, spesa privata e "spiazzamento"

 

Un equivoco in cui parecchi commentatori di fatti economici cadono di frequente è che il deficit pubblico produca un effetto di “spiazzamento” (crowding out) della spesa privata. Se il settore pubblico spende più di quanto preleva in tasse, “inevitabilmente” utilizza risorse che verranno sottratte alla spesa privata, giusto ? 

Sbagliato.

In primo luogo, il deficit pubblico mette in circolazione – in mano ai privati – capacità di spesa supplementare. Se il settore pubblico spende più di quanto tassa, il settore privato riceve più soldi di quanti ne versa allo Stato. Il settore privato ha più soldi di prima, non meno soldi.

Bisogna casomai chiedersi se il maggior potere d’acquisto nominale renda possibile produrre e quindi utilizzare non meno, ma casomai più beni e servizi in termini reali: ovvero, se il maggior potere d’acquisto stimoli la produzione e non invece l’inflazione.

Questo dipende dal fatto che nel sistema economico esista, o meno, capacità produttiva sottoutilizzata. La possibilità di produrre maggiori quantità di beni e di servizi esiste in presenza di disoccupazione o sottoccupazione di persone e di impianti. Se non ci sono risorse fisiche inutilizzate, il maggior potere d’acquisto disponibile creerà pressione al rialzo nei prezzi, non maggiore produzione. Il contrario (più produzione a prezzi invariati) si verifica se esistono risorse fisiche inattive da mettere all’opera.

In effetti uno di questi due scenari (incremento del deficit in presenza di capacità inutilizzata) crea le condizioni per una maggiore spesa totale, e con ogni probabilità anche per una maggiore spesa privata (in entrambi i casi, spesa in termini reali, non solo nominali).

Nell’altro caso (incremento del deficit pubblico in assenza di capacità inutilizzata) lo “spiazzamento” si può invece verificare, ma non come conseguenza del deficit pubblico, bensì appunto a causa dei limiti della capacità produttiva. Se le risorse fisiche sono pienamente utilizzate, per costruire un ponte o un ospedale in più devo produrre in misura inferiore qualche altro bene o qualche altro servizio: devo trasferire risorse fisiche da una produzione all’altra. Quando la capacità produttiva è al limite, l’alternativa “burro o cannoni” è reale, non ipotetica.

Questo trade-off però, come detto, non nasce dal deficit pubblico. Per rendersene conto, basta constatare che se il bilancio pubblico è in perfetto pareggio, ogni centesimo di spesa pubblica corrisponde a un centesimo di tasse; e se le risorse produttive sono pienamente utilizzate, effettivamente ogni centesimo di spesa pubblica riduce di un centesimo la spesa privata. Qui c’è “spiazzamento”, certamente: ma non per effetto del deficit (che per ipotesi, nel caso specifico sopra descritto, non esiste). C’è “spiazzamento” a causa del fatto che la capacità fisica di produrre beni e servizi ha un limite.

Per capire se ci sia “spiazzamento”, dobbiamo quindi sempre partire dall’esame dello stato di utilizzo delle risorse fisiche. Non guardare al livello numerico del deficit pubblico – che non rileva.

È del resto l’esistenza stessa del settore pubblico a rendere inevitabile che una certa quantità di beni e di servizi venga prodotta per effetto di decisioni statali e non di decisioni private. In che misura è opportuno e desiderabile ? questo possiamo discuterlo, ed è in effetti uno dei temi chiavi del dibattito politico.

Ma se per “spiazzamento” intendiamo che una quota delle decisioni di spesa sia demandata al pubblico e non al privato, questo avviene a causa dell’esistenza stessa del settore pubblico, non perché il bilancio dello Stato sia, o meno, in deficit.

In sintesi e in conclusione:

UNO, il deficit pubblico di per sé non “spiazza” spesa privata.

DUE, l’incremento di spesa pubblica, anche quando comporta maggior deficit, non “spiazza” spesa privata, a meno di scontrarsi contro il limite delle risorse produttive.

TRE, l’incremento di deficit pubblico in presenza di risorse produttive inutilizzate genera maggiore produzione e maggiore spesa, pubblica e probabilmente anche privata.

QUATTRO, l‘incremento di spesa pubblica “spiazza” spesa privata quando si scontra contro il limite delle risorse produttive, anche se viene effettuato senza aumentare il deficit pubblico.

 

domenica 21 dicembre 2014

Elementi per la stima dei moltiplicatori del reddito


Il moltiplicatore del reddito, in termini generali, può essere definito come “maggior PIL generato da un incremento di capacità di spesa messo a disposizione dell’economia”.

Il moltiplicatore tiene conto di una catena di effetti, di cui rappresenta la sintesi.

Nel caso di un incremento di spesa pubblica, che si verifica senza spiazzamento (“crowding out”) di altre spese, il PIL per definizione si incrementa immediatamente per un importo pari al 100% della maggior spesa. A questo punto, inizia un ciclo virtuoso: il maggior reddito in circolazione si traduce in maggior consumi privati, stimola creazione di occupazione che a sua volta incrementa redditi e consumi, eccetera.

Nel caso di riduzioni di imposte, o di incrementi di sostegni alla spesa privata (pensioni, sussidi ecc.), il meccanismo è analogo, ma con un’importante differenza: il primo passaggio non è pari al 100% ma è ridotto dell’importo della propensione marginale al risparmio. Se quest’ultima è pari, per esempio, al 16%, il primo passaggio dà un beneficio dell’84% dell’intervento e non del 100%.

Le rilevazioni a consuntivo dei moltiplicatori non sono semplici perché occorre “filtrare” una serie di altre perturbazioni, che si verificano, costantemente, nell’ambito del sistema economico.

Un principio generale da tenere sempre in evidenza, comunque, è che in una situazione di alto utilizzo delle risorse produttive (che equivale a dire di bassa disoccupazione) gli effetti di spiazzamento di altre spese sono predominanti. Se lo stato avvia un investimento pubblico, lo appalta ad aziende che devono posporre l’esecuzione di altre commesse, o rifiutare ordini. Se assume un nuovo dipendente pubblico, questa persona probabilmente ha, o può trovare, alternative nel settore privato.

Predominano quindi gli effetti inflazionistici: retribuzioni e prezzi salgono, la produzione effettiva no, se non in misura molto modesta, e il moltiplicatore è basso.

In situazione di PESANTE sottoutilizzo delle risorse produttive, come l’attuale, è vero esattamente il contrario: si rimettono al lavoro risorse altrimenti destinate a restare inoperose, e il moltiplicatore è quindi elevato.

Un altro elemento da tenere in considerazione è che l’incremento di domanda a parità di condizioni tende a peggiorare i saldi commerciali esteri, il che erode l’impatto sul PIL. Nel progetto Moneta Fiscale, comunque, questo effetto è compensato dal fatto che una quota di CCF è attribuita alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti: migliora quindi la loro competitività, producendo maggiori esportazioni nette che compensano le maggiori importazioni (soprattutto di materie prime) causate dalla maggiore domanda. Vedi, qui, i punti da 19 a 25.

Ancora: un programma di espansione del potere d’acquisto in circolazione ELEVATO e PERMANENTE stimola la domanda in misura assai accentuata, anche perché molte categorie di spesa (specialmente di beni di consumo durevoli) sono state rinviate negli ultimi anni, persino da parte di chi se la sarebbe potuti comunque permettere. Questo lascia supporre che la propensione marginale al risparmio sia bassa, il che tra l’altro attenua molto la differenza tra moltiplicatore della spesa pubblica e moltiplicatore delle minori tasse (e dei sostegni alla spesa privata in generale).

Quest’ultima differenza è ridotta anche dal fatto che, in genere, un programma di riduzione delle tasse, o di incremento dei sostegni alla spesa privata, (anche via assegnazione di CCF) è di attivazione più rapida rispetto alle spese pubbliche dirette (specialmente se per investimenti, in quanto questi ultimi richiedono progetti, appalti, provvedimenti legislativi complessi eccetera). C’è quindi più tempo perché gli effetti indotti successivi all’azione originaria sulla domanda abbiano modo di manifestarsi.

Infine, constatata la permanenza del maggior livello di potere d’acquisto nell’ambito del sistema economico, si riattiva anche la domanda di credito (da un lato) e la volontà del sistema bancario di concederlo (dall’altro). Anche perché migliora il merito di credito dei richiedenti (privati ed aziende), che godono di redditi disponibili più alti.

In definitiva, ci sono motivi molto fondati per ipotizzare un moltiplicatore superiore (forse anche di parecchio) all’unità, nelle condizioni attuali, a seguito di un incremento (ripeto) ELEVATO e PERMANENTE del potere d’acquisto in circolazione prodotto da azioni del tipo contemplato nel progetto Moneta Fiscale:

UNO, effetti di spiazzamento della spesa modestissimi, dato l’attuale enorme sottoutilizzo delle risorse produttive.

DUE, propensione marginale al risparmio bassa perché si “rimbalza” da livelli di consumi estremamente depressi.

TRE, credito bancario che, a sua volta, ha le condizioni per risalire da una base fortemente compressa (è in calo costante da tre anni e mezzo, cioè dall’avvio delle politiche di austerità).

QUATTRO, assenza di erosione della maggior domanda interna a causa di un peggioramento dei saldi commerciali esteri, perché una parte dei CCF verranno assegnati alle aziende, migliorandone nettamente la competitività.

Il moltiplicatore va applicato all’ammontare incrementale delle assegnazioni, in quanto serve a stimare il maggior PIL prodotto dal maggior potere d’acquisto a disposizione.

Attualmente, il progetto Moneta Fiscale è impostato sull’assegnazione di 90 miliardi di CCF il primo anno, che salgono a 150 il secondo e a 200 il terzo.

Con un moltiplicatore pari a 1,2 il risultato in termini di maggior PIL è:

il primo anno, 90 x 1,2 = 108

il secondo anno (150 – 90) x 1,2 = 60 x 1,2 = 72

il terzo anno (200 – 150) x 1,2 = 50 x 1,2 = 60.

Beninteso, 108, 72 e 60 sono incrementi rispetto all’anno precedente.

Una considerazione conclusiva: chi teme che il moltiplicatore sia basso dovrebbe fornire una spiegazione del perché le politiche di austerità hanno dato, particolarmente da metà 2011 in poi, risultati così pesantemente negativi. Evidentemente, il moltiplicatore è stato NETTAMENTE superiore a 1, contrariamente alle aspettative di chi le ha progettate e messe in atto.

Non si vede il motivo per cui se il moltiplicatore delle RIDUZIONI di potere d’acquisto è stato molto alto, dovrebbe essere basso il moltiplicatore degli AUMENTI di potere d’acquisto…

lunedì 8 dicembre 2014

Ancora sui moltiplicatori fiscali


Un intervento di rilancio dell’economia basato sull’immissione di potere d’acquisto, mediante spesa pubblica, sovvenzioni alla spesa privata, riduzioni di prelievo fiscale o una combinazione di tutti questi interventi (deficit spending), è tanto più efficace quanto più alto è il cosiddetto “moltiplicatore fiscale”, o “moltiplicatore keynesiano”.

Il moltiplicatore è il rapporto tra incremento del PIL e dimensione del deficit spending. La domanda che si pone è: il deficit spending produce una crescita del PIL più che proporzionale, meno che proporzionale o addirittura nulla (come a volte sostengono alcuni economisti critici del pensiero keynesiano) ?

La risposta dipende fortemente dalle caratteristiche dell’azione di deficit spending, nonché del momento in cui viene effettuata.

La spesa pubblica diretta contribuisce al PIL. Se lo stato effettua un’opera pubblica che altrimenti non sarebbe stata posta in atto, o se assume un dipendente che altrimenti sarebbe risultato disoccupato, il PIL risulta incrementato in misura pari al valore dell’opera o, rispettivamente, alla retribuzione del dipendente.

Questo è il primo effetto, che di per sé corrisponde a un moltiplicatore 1 tra deficit spending e incremento di PIL. Dopodiché si attiva un meccanismo amplificativo: il maggior reddito creato (perché l’opera pubblica ha generato produzione, quindi reddito, a beneficio delle aziende a cui sono stati appaltati i lavori, e il dipendente pubblico percepisce uno stipendio di cui prima non disponeva) avvia una catena virtuosa: consente ai soggetti che ne beneficiano di consumare di più, quindi crea domanda, stimola le aziende in grado di soddisfare questa domanda ad effettuare nuove assunzioni, eccetera.

Ci sono, di conseguenza, fondati presupposti per presumere che il deficit spending che prende la forma di maggior spesa pubblica diretta produca un incremento di PIL con un multiplo superiore a 1, sotto due condizioni.

La prima è che la maggior domanda si rivolga a beni di produzione interna, e non a importazioni.

La seconda è che non si verifichino effetti di “crowding out”, o spiazzamento. Se lo stato, ad esempio, avvia un investimento pubblico, che tuttavia induce le aziende appaltatrici a posporre altre attività per eseguirlo – perché non hanno la capacità produttiva necessaria a sviluppare questa nuova commessa unitamente ad altre già in portafoglio – la produzione complessiva del sistema economico non aumenta. Casomai aumentano i prezzi, perché le aziende utilizzano la maggior domanda per ottenere condizioni economiche migliori, in quanto c’è più richiesta complessiva per le attività produttive da esse svolte.

Stesso discorso per l’assunzione di dipendenti pubblici: il “crowding out” non c’è se assumo disoccupati. Se il mercato del lavoro, invece, è già tonico, cioè se sostanzialmente chi vuole lavorare ha già la possibilità di farlo, il dipendente pubblico verrà assunto solo se gli verranno offerte condizioni migliori rispetto a quelle delle alternative di lavoro che il settore privato gli propone. L’effetto quindi sarà di aumentare le retribuzioni, e di conseguenza i prezzi, non l’occupazione.

Spesso si sostiene che il moltiplicatore della spesa pubblica è più elevato del moltiplicatore delle riduzioni di prelievo fiscale (o dei sostegni alla spesa privata). La motivazione di questa affermazione può essere sintetizzata come segue.

La spesa pubblica (sempre che non ci sia “crowding out” e che la maggior domanda si rivolga a produzione interna, e non a importazioni) già di suo, come visto, ha un moltiplicatore 1, e gli effetti indotti la porteranno quindi a un moltiplicatore più alto di 1.

Nel caso delle riduzioni di prelievo fiscale e dei sostegni alla spesa privata, si rendono disponibili maggiori mezzi finanziari al settore privato: questo maggior potere d’acquisto potrebbe essere in parte risparmiato, e non speso. Potrebbe quindi esserci un moltiplicatore inferiore a 1, almeno inizialmente, che supererebbe l’unità solo in seguito, grazie agli effetti indotti sopra descritti e presumibilmente con un ritardo temporale quantomeno di alcuni mesi.

Tutto questo ha portato a teorizzare il concetto del “moltiplicatore del bilancio pubblico in pareggio”. In pratica, aumentando la spesa e nello stesso tempo aumentando le tasse, si dovrebbe conseguire un incremento complessivo del PIL grazie al fatto che il moltiplicatore della spesa è superiore al moltiplicatore delle tasse (che in questo caso agisce in senso negativo). Questo, mantenendo nello stesso tempo in pareggio (nell’immediato, effetti successivi a parte) il saldo tra maggiori spese pubbliche e maggiori incassi fiscali.

Quest’ultima teorizzazione, tuttavia, è a mio parere dubbia. Occorre ricordare che le azioni di spesa pubblica hanno tempi di attuazione generalmente più lunghi rispetto alle riduzioni di imposte (o ai sostegni alla spesa privata).

Tra delibera di effettuazione di un’opera pubblica e sua effettiva attuazione, intercorrono tempi che possono anche essere molto ampi, per la definizione dell’opera, gli appalti, la progettazione e l’esecuzione del lavori.

Più semplice e rapido è il caso dell’assunzione di dipendenti pubblici, che comunque richiede procedure amministrative, bandi, concorsi eccetera.

L’effetto di una riduzione d’imposte, o dell’erogazione di sostegni alla spesa privata, è probabilmente, in media, più veloce.

In sintesi, sugli effetti di un’azione di “deficit spending” appare legittimo affermare quanto segue:

UNO, è sicuramente ottenibile un moltiplicatore superiore a 1, e forse anche largamente superiore, in presenza di un elevato livello di sottoutilizzo delle risorse produttive (com’è oggi il caso nell’Eurozona in generale, e in Italia in particolare).

DUE, questo non sarebbe il caso in presenza di un contesto economico tonico, in cui predominerebbero gli effetti di “crowding out”.

TRE, quanto menzionato al punto UNO richiede che la maggior domanda attivata dalle politiche di “deficit spending” si rivolga a produzione interna e non a incremento delle importazioni nette. Questo è ragionevole se l’azione di “deficit spending” si accompagna a un miglioramento del cambio effettivo, che può essere ottenuto in almeno due modi: un riallineamento valutario (che richiede un sistema di cambi flessibili), oppure l’utilizzo di una parte sufficiente dell’azione di “deficit spending” per migliorare il cuneo fiscale a beneficio delle aziende che producono sul territorio nazionale.

QUATTRO, non è scontato che il moltiplicatore della spesa pubblica sia più alto del moltiplicatore delle riduzioni di imposte (o di altre forme di sostegno alla spesa privata). Il beneficio della prima è più diretto ma questo potrebbe essere compensato da tempi più lunghi per l’attivazione delle decisioni di spesa.