domenica 9 febbraio 2020

Autocitarsi, perché no ?


Secondo qualche frequentatore di social network, twitteristi in particolare, io indulgo troppo all’autocitazione. I miei interventi di solito includono un link a un articolo di questo blog, dove l’argomento della discussione viene sviluppato, o vengono comunque forniti elementi a supporto.

L’autocitazione, mi dicono, è “inelegante”. Francamente non ho capito la motivazione di questo giudizio. Il blog è lo strumento che utilizzo da sette anni per sviluppare le mie opinioni su (soprattutto) temi macroeconomici. Se l’argomentazione è già predisposta (come molto spesso capita) cosa dovrei fare, un copia incolla ? una parafrasi di quanto ho già scritto altrove ?

Una variante sul tema è quella degli accademici che dicono qualcosa del tipo “come puoi pensare che il post di un blog esprima un’opinione degna di essere presa in considerazione, leggi invece [segue link ad articolo di 50 pagine in inglese con 10 pagine di formule in allegato e 40 citazioni di altri articoli].”

Ora, io non ho problemi né con l’inglese né con le formule, e l’articolo linkato me lo leggo volentieri. Però rimango dell’idea che se si hanno le idee chiare su un argomento di macroeconomia, per spiegarsi non servono 50 pagine e neanche formule di analisi infinitesimale (sapete poi cosa diceva al riguardo Keynes, laureato in matematica – non in economia – a Cambridge ? ecco qui).

Se si hanno le idee chiare, i 280 caratteri di un tweet (o magari di due o tre in successione) bastano per renderle esplicite, in termini comprensibili a persone di media cultura. OK poi le fonti esterne a supporto per chi vuole approfondire, verificare i dati eccetera. Ma il nocciolo, credetemi, o la sai sintetizzare oppure… sei tu che non l’hai capito.

Pochi giorni fa, un docente di economia internazionale (non mi ricordo in quale università) ha preso cappello di fronte alla mia affermazione che il Regno Unito non aveva nulla da temere dalla Brexit perché è in deficit commerciale nei confronti della UE (è il cliente, in pratica, non il fornitore) e perché non acquista (dalla UE) nessun prodotto o servizio che non possa essere prodotto internamente o fornito da aziende non-UE.

Il tipo si è inalberato dicendo che dovevo “leggere la letteratura scientifica di riferimento” (link non forniti, in questo caso) per comprendere dove sbagliavo.

Beh, è mia ferma convinzione che se avesse avuto le idee chiare, avrebbe spiegato in un paio di tweet perché il Regno Unito rischia gravi danni dalla Brexit. Citando fonti a supporto dove era il caso (comprese quelle scritte da lui stesso, ove mai esistessero…): ma per corroborare concetti che nel frattempo aveva resi noti all’audience.

Meglio l’autocitazione che la non-spiegazione, insomma. La prima magari sarà inelegante, ma della secondo proprio non so che farmene.


giovedì 6 febbraio 2020

Caldaie e CCF

Che cosa c'entrano i sistemi di riscaldamento domestici, altrimenti detti caldaie, con il progetto Moneta Fiscale / CCF ? C'entrano. Lo spiegano, in questo articolo apparso su Micromega pochi giorni fa, Biagio Bossone e Stefano Sylos Labini.

martedì 4 febbraio 2020

Per risolvere la crisi serve un nuovo strumento, non nuove regole


La via di “ridiscutere le regole dell’eurosistema” è un vicolo cieco totale, per la semplice ragione che il blocco tedesco è disposto ad aprire il dibattito esclusivamente se la finalità è renderle più rigide. Non viceversa.

Per questo motivo il progetto CCF è concepito come un nuovo strumento da inserire nell’ambito dell’eurosistema, per ottenere gli effetti a noi necessari (rilancio di domanda, produzione e occupazione e contestuale riduzione del rapporto tra Maastricht Debt e PIL) senza che ci sia la necessità di ridiscutere nulla con nessuno.

L’unica possibile alternativa sarebbe, in teoria, la rottura dell’euro. Per la quale, tanto per cominciare, non esiste il necessario consenso politico.

Ma a prescindere da quest’ultimo tema, nessuna ha mai neanche indicato in modo dettagliato e plausibile i meccanismi operativi e i passaggi tecnici che sarebbe necessario attuare per arrivare a rompere l’euro.

Inoltre, i soggetti da coinvolgere nel processo sarebbero un numero molto elevato, e si dovrebbero muovere in modo totalmente compatto e coeso. Mentre oggi tantissimi di questi soggetti sono schierati, al contrario, a favore dello status quo.

Sono quindi molto preoccupato dal fatto che, quando M5S e Lega erano al governo insieme, il nostro gruppo di ricerca abbia trovato ascolto da parte di parlamentari M5S (arrivando successivamente alla presentazione di un progetto di legge firmato da 90 di loro); i quali, però, non sono riusciti a ottenere che la Lega facesse fronte comune con loro per sbloccare la situazione.

Le ragioni di questo mi sfuggono. E mi sfugge che cosa, esattamente, la Lega abbia intenzione di fare, se e quando tornerà al governo in posizione di leader in una futura, eventuale coalizione maggioritaria.


sabato 1 febbraio 2020

Valuta forte e dipendenza dall’import


Ogni tanto riemerge l’argomentazione secondo la quale sì, certo, usare l’euro avrà magari alcune controindicazioni, ma “se sei dipendente dall’import perché non possiedi materie prime, avere una moneta forte è utile: così compri a costi vantaggiosi”.

A parte il “dettaglio” che l’Italia realizza un surplus commerciale estero vicino a 60 miliardi annui, al netto ovviamente di tutte le importazioni e quindi anche al netto degli acquisti di materie prime, l’argomentazione sopra citata è sbagliata. Del tutto sbagliata: concettualmente e praticamente.

La moneta forte la usi, ma non la emetti. Non è la tua: è la moneta di un altro, che tu ti sei vincolato a utilizzare.

Usare l’euro ti rende (forse) meno dipendente dai fornitori di materie prime, ma crea un altro tipo di dipendenza: dall’emittente degli euro, che è un soggetto esterno. Perché questo soggetto esterno la moneta forte te la presta, non te la regala.

Per di più, “la moneta forte che permette di comprare a costi vantaggiosi” è deleteria per il tessuto produttivo del paese, appunto perché rende più conveniente comprare, e meno conveniente produrre.

Usare una moneta emessa da terzi, e sopravvalutata rispetto ai fondamentali della propria economia, equivale – quello sì – a vivere a debito, sopra le proprie possibilità. Oppure impone di assoggettarsi ad austerità per contrarre la domanda interna, in modo da eliminare il deficit commerciale. Quello che l’Italia ha fatto tra il 2011 e il 2013: operazione “riuscita”, con la “piccola” controindicazione che l’economia è stata devastata e milioni di persone sono state gettate in povertà.

E’ incredibile che gli euroausterici – quelli che ripetono continuamente di odiare il debito – non si rendano conto di tutto questo.


lunedì 27 gennaio 2020

Elementi chiave per avviare il progetto CCF


Un governo determinato e coeso.

Un governo che controlli il MEF. Il governo gialloverde non lo controllava: Tria rispondeva a Mattarella e quindi alla UE.

Un Ministro dell’Economia che dia corso al progetto, anche in presenza di pareri dubitativi o negativi da parte di organismi tecnico-burocratici.

Descrivere il progetto per quello che è: la soluzione per risolvere le disfunzioni dell’Eurosistema, non per romperlo – e non lo si vuole rompere perché, introducendo i CCF, non ne esiste più alcuna necessità.

Spiegare al mercato, in termini chiari, semplici e privi di ambiguità, che il Maastricht Debt – il debito in euro da rimborsare e rifinanziare – diminuirà costantemente in rapporto al PIL.

Se la UE minaccia la procedura d’infrazione, rispondere che non ce ne sono i presupposti, e andare avanti tranquilli.

Se la UE mette in atto la procedura d’infrazione, proseguire comunque tranquilli. Francia e Spagna sono stati in procedura d’infrazione per una decina d’anni.

Se la UE sanziona, proseguire comunque tranquilli. La potenziale sanzione (lo 0,2% del PIL) è niente in confronto ai benefici del progetto CCF.

Continuare senza esitazioni anche in caso di turbolenze di mercato. Rientreranno in pochi mesi quando il mercato constaterà che il rapporto Maastricht Debt / PIL si riduce, che la crescita riparte, e che non c’è alcuna volontà né necessità di rompere l’euro.


mercoledì 22 gennaio 2020

Il QE provoca svalutazione, non inflazione


I programmi di Quantitative Easing messi in atto dalla BCE hanno prodotto un apparente paradosso.

Sono stati completamente inefficaci per quanto riguarda l’obiettivo dichiarato, alzare il tasso d’inflazione verso l’obiettivo BCE del 2% (o per essere più esatti, “inferiore ma vicino al 2%”).

Hanno invece prodotto un consistente riallineamento al ribasso del cambio.

Nell’estate del 2014, l’euro valeva oltre 1,30 dollari. In quel periodo, si è cominciato a parlare con sempre maggiore insistenza del possibile avvio di un programma di QE da parte della BCE.

Il programma è stato alla fine annunciato da Mario Draghi nel gennaio 2015, e attuato a partire da marzo. E tra l’estate 2014 e l’inizio del QE ha avuto luogo una svalutazione dell’euro fino a circa 1,10 dollari. In anticipo, in effetti, rispetto all’avvio del programma, per la nota tendenza dei mercati a recepire gli effetti di un mutamento di politica prima che avvenga, via via che la sua attuazione diventa sempre più certa.

Intorno al livello di 1,10, il cambio ha oscillato da allora a oggi (quindi, ormai, per cinque anni).

In tutti questi anni, non si è verificato invece alcun significativo incremento dell’inflazione media dell’Eurozona. Il che stupirà chi crede alla favola secondo la quale svalutazione e inflazione vanno sempre e comunque di pari passo.

In realtà, la spiegazione è semplice. Le politiche fiscali rimanevano orientate al consolidamento. Non veniva immesso potere d’acquisto supplementare, utilizzabile per comprare beni e servizi.

Veniva invece emessa moneta per comprare titoli. Saliva quindi il prezzo di questi ultimi (e scendeva di conseguenza il loro tasso di rendimento). Senza alcun impatto rilevante e sistematico sui prezzi al consumo.

Come mai, invece, si verificava un impatto sul cambio ? perché veniva ritirata dal mercato una grossa quantità di attività finanziarie (sostanzialmente, i titoli di Stato acquistati nell’ambito delle operazioni di QE). Gli investitori vendevano e si guardavano, quindi, intorno alla ricerca di impieghi alternativi.

Questi impieghi alternativi in molti casi erano reperibili all’interno dell’Eurozona. Ma in parte, ci si rivolgeva anche al resto del mondo.

Gli euro ricevuti da chi vendeva i titoli di Stato venivano quindi ceduti per comprare azioni, obbligazioni o altri investimenti. E questi investimenti in parte erano in dollari o comunque extra Eurozona.

Il QE senza espansione fiscale ha quindi prodotto, per ragioni perfettamente comprensibili, un deprezzamento del cambio euro – dollaro. E nessun impatto degno di nota, al contrario, sull’inflazione.


domenica 19 gennaio 2020

La cosiddetta inflazione da costi


Parecchi testi di economia distinguono tra “inflazione da domanda” e “inflazione da costi”. La prima, generata da un eccesso di domanda rispetto alla capacità del sistema economico di produrre beni e servizi. La seconda, dal fatto che per cause esterne si produce un incremento di costo di determinati input produttivi.

Il tipico esempio della (cosiddetta) inflazione da costi è costituito dagli oil shocks degli anni Settanta. Il prezzo del petrolio è repentinamente salito, prima a seguito della guerra del Kippur (1973), poi della crisi iraniana (1979). Se una materia prima importante come il petrolio sale di prezzo, è inevitabile che l’inflazione (più precisamente, il tasso di crescita del livello generale dei prezzi) si incrementi, giusto ?

In realtà il fenomeno è più complesso. Se un input produttivo aumenta di costo, si verifica una redistribuzione di reddito a favore di chi fornisce quell’input, e a danno degli altri soggetti economici. Ma la domanda complessiva di beni e di servizi non aumenta: anzi, se l’input è importato dall’esterno – come il petrolio per la maggior parte dei paesi occidentali – la capacità di spesa di famiglie e imprese non sale ma, al contrario, scende. Perché mai i prezzi dovrebbero aumentare ?

In prima istanza, l’effetto della crescita di costo di un input produttivo è che il reddito si ridistribuisce. A danno di aziende e cittadini e a favore dei produttori di petrolio, nel caso degli oil shocks. A danno dei datori di lavoro e a favore dei dipendenti se questi ultimi riescono a ottenere rilevanti incrementi salariali. Eccetera.

Spesso si afferma che l’inflazione si genera perché le aziende “passano l’incremento di costo sui prezzi dei beni e dei servizi”. Ma è un’affermazione insufficiente a descrivere quanto accade. Come fa questo “passaggio” ad avvenire, se la capacità di spesa degli acquirenti di questi beni e di questi servizi non è aumentata ?

L’inflazione innescata dagli oil shocks (ma anche, in misura minore ma apprezzabile, dagli incrementi salariali di fine anni Sessanta) non si sarebbe prodotta se non fosse stata “assecondata” da una maggiore disponibilità di moneta e credito messa a disposizione dal settore pubblico e dal sistema bancario. Questa disponibilità ha fatto sì che l’incremento di costo degli input produttivi non si traducesse in un calo degli utili nominali delle aziende, e dei redditi nominali dei lavoratori: calo che avrebbe avuto conseguenze sulla solvibilità dei debitori e sul sistema finanziario, innescando addirittura il rischio di una catena di dissesti bancari.

In ultima analisi, anche la cosiddetta “inflazione da costi” si è prodotta a causa di uno squilibrio tra domanda (a valori nominali) e offerta (intesa come capacità di generazione di valore aggiunto da parte del sistema produttivo).

L’offerta così definita è scesa, la domanda no – perché è stata sostenuta dalle autorità pubbliche per evitare di comprimere i redditi nominali di aziende e cittadini, e di mandare in crisi il sistema bancario. La domanda nominale si è quindi portata al di sopra dell’offerta nominale e ne è seguita inflazione: il male minore, date le circostanze.