lunedì 20 febbraio 2017

CCF non convertibili


Si discute spesso in merito alla possibilità che i Certificati di Credito Fiscale vengano introdotti in forma “non convertibile”. In altri termini, i CCF verrebbero assegnati gratuitamente a una pluralità di soggetti, che però (diversamente dal progetto base) non avrebbero facoltà di cederli in cambio di euro.

Gli assegnatari potrebbero invece utilizzarli come contropartita di transazioni dirette: quindi per pagare beni e servizi, partendo dal presupposto che un ampio ventaglio di operatori economici e commerciali accetterà indifferentemente CCF o euro. Un po’ come avviene per il Sardex (vedi qui e qui) o per altre forme di moneta complementare, ma su scala molto più ampia, in quanto i CCF godrebbero della garanzia di accettazione da parte dello Stato per scontare pagamenti di imposte, tasse, o altre obbligazioni finanziarie (di qualsiasi tipo) verso il settore pubblico.

Se ne parla di frequente, ad esempio, con Stefano Sylos Labini, soprattutto sulla base della preoccupazione che l’immissione di decine di miliardi di CCF produca una forte pressione al ribasso sul valore di mercato dei titoli.

Personalmente, resto dell’opinione che i CCF dovrebbero invece essere negoziabili e cedibili, senza limitazioni, sul mercato finanziario. E questo per varie ragioni.

UNO, l’utilizzabilità fiscale dei CCF a fini fiscali costituisce un fortissimo sostegno al loro valore. Se possiedo un titolo, assegnatomi il 1° luglio 2017, che a partire dal 1° luglio 2019 sarà illimitatamente utilizzabile per scontare pagamenti alla pubblica amministrazione, non ho incentivo a spossessarmene per un valore inferiore al facciale, se non nella misura di un (presumibilmente modesto) tasso di attualizzazione.

DUE, in ogni caso, non si verifica un’immissione immediata e massiccia di titoli sul mercato. Attualmente si sta ragionando su 30 miliardi per il primo anno, da incrementare poi successivamente. Le immissioni sono scaglionate nel tempo: si parte quindi da circa 2,5 miliardi al mese. Al confronto, l’intero mercato dei titoli di Stato italiani ha come numeri di riferimento 2.200 miliardi di debito pubblico totale, e circa 500 miliardi di nuove emissioni annue (per coprire il deficit ma soprattutto per rifinanziare il debito che giunge a scadenza). Le assegnazioni di CCF spostano ben poco rispetto il volume totale delle transazioni di titoli italiani (che beninteso non sono solo i titoli di Stato, ma anche obbligazioni private, azioni, derivati, strumenti ibridi eccetera).

Ma d’altra parte, se anche fosse vero che l’immissione sul mercato dei CCF può produrre una pressione al ribasso sui prezzi,

TRE, rendendoli non convertibili in euro mediante cessione sul mercato finanziario, si costringe l’assegnatario a far conto solo sul loro utilizzo per acquisti di beni e servizi. L’ipotetico problema della pressione al ribasso sui prezzi dei titoli rientrerebbe dalla finestra, perché se pressione ci fosse, gli operatori commerciali accetterebbero i CCF solo a sconto rispetto agli euro. Con in più l’aggravante della mancanza di liquidità di CCF, che tenderebbe a ridurne il valore di mercato (di quanto è difficile prevedere, ma di sicuro l’effetto è di riduzione).

In sintesi, la non convertibilità dei CCF si propone di risolvere un problema che a mio parere non esiste, o è comunque di scarso rilievo: ma se esistesse, ne sarebbe in effetti una soluzione puramente illusoria. Lo sconto massiccio non ci sarà: ma se ci fosse, la non convertibilità non lo evita – al contrario, lo incrementa.


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