mercoledì 23 dicembre 2015

CCF, riallineamenti valutari e saldi commerciali esteri



Di frequente, mi vengono sollevate obiezioni, o richiesti chiarimenti, in merito a come, nell'ambito del progetto CCF, si gestisce l’equilibrio della bilancia commerciale estera.

Emettere Certificati di Credito Fiscale consente, a singoli stati membri dell’Eurozona, di effettuare azioni espansive della domanda mettendo in circolazione potere d’acquisto: e questo tramite uno strumento “quasi-monetario” – i CCF, appunto – che non è soggetto a rimborso (non è quindi debito) e non ha bisogno di essere garantito dalla BCE. La garanzia di valore dei CCF sta nel fatto che saranno utilizzabili per ridurre obbligazioni finanziarie (in primo luogo tasse e imposte) altrimenti dovute alla pubblica amministrazione del paese emittente.

In assenza di un riallineamento valutario, l’incremento di domanda interna produrrebbe un aumento di importazioni e tenderebbe quindi a peggiorare i saldi commerciali esteri. Le controindicazioni sono due: riduzione dell’effetto espansivo della manovra sul PIL, e incremento dell’indebitamento finanziario netto verso l’estero.

Per questo motivo, il progetto CCF prevede (vedi punto 9, qui) che una parte delle emissioni di CCF vengano destinate alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti. In particolare, su una dimensione di emissioni annue che può raggiungere i 200 miliardi, le allocazioni alle aziende del settore privato potrebbero arrivare a 80, a fronte di costi di lavoro totali lordi dell’ordine di 450.

Questo equivale a una riduzione effettiva dei costi di lavoro vicina al 20%, che è l’ordine di grandezza della perdita di competitività subita dall’Italia nei confronti di altri stati membri dell’Eurozona, quali, in particolare, la Germania. Ed è anche l’ordine di grandezza di un possibile riallineamento valutario, tra “Nuova Lira” e “Nuovo Marco”, se l’euro si spaccasse.

L’allocazione di CCF alle aziende può essere resa più efficace, ad esempio privilegiando i settori più esposti alla concorrenza internazionale. O più semplicemente evitando di distribuirli a quelli per loro natura poco o nulla esposti (finanziario, assicurativo, concessionari di servizi pubblici rivolti in modo pressoché esclusivo al mercato domestico) e concentrando l’allocazione sugli altri.

E’ anche possibile e opportuno, in sede di allocazione, privilegiare le aziende localizzate nel Sud Italia, in modo da attenuare le differenze di competitività rispetto al Nord e avviare finalmente a soluzione il problema storico dell’economia italiana (prima dell’avvento dell’euro…): il dualismo Nord - Mezzogiorno.

Qui di seguito, rispondo ad alcune delle obiezioni più frequenti che mi vengono sottoposte in merito al tema del recupero di competitività e degli effetti sui saldi commerciali esteri.

D. Focalizzare l’attenzione sul recupero di competitività e sul beneficio per i saldi commerciali non significa adottare un approccio mercantilista, “beggar-thy-neighbor”, quello stesso che viene costantemente rimproverato alla Germania ?
R. L’obiettivo del progetto CCF è il rilancio di domanda, interna, PIL e occupazione. L’azione sul costo del lavoro lordo e sul recupero di competitività NON è finalizzata ad incrementare il surplus commerciale estero, ma a lasciare sostanzialmente invariato il saldo import-export, senza quindi sottrarre domanda netta ai partner commerciali esteri.
Peraltro, anche nell’eventualità di svalutazione della Nuova Lira conseguente a un break-up dell’euro, l’uscita dell’Italia dalla crisi richiederebbe politiche espansive della domanda interna; il riallineamento valutario sarebbe, anche in questo caso, utile allo scopo di non creare sbilanci nei saldi esteri, ma del tutto insufficiente DA SOLO a produrre una significativa ripresa dell’economia italiana.

D. Un riallineamento valutario agisce in maniera automatica (i prodotti italiani costano meno di prima, e quindi diventano più concorrenziali rispetto ai prodotti esteri), l’allocazione di CCF a riduzione dei costi di lavoro richiede invece che le aziende italiane prendano atto dei minori costi produttivi ed abbassino i prezzi: potrebbero non farlo.
R. In realtà i prezzi praticati dalle aziende italiane all’export non sarebbero espressi in Nuove Lire, ma in valuta straniera: così come in passato non si esportava con prezzi in lire, ma in dollari, marchi, yen eccetera. Anche nell’eventualità di uscita dall’euro il beneficio del riallineamento per essere conseguito richiede una modifica dei listini. Questo in passato non è mai stato un problema e non si vede perché dovrebbe esserlo oggi implementando il progetto CCF.
Il vantaggio automatico della svalutazione, senza passare tramite un adeguamento dei prezzi, si avrebbe invece per le aziende che vendono in Italia in competizione con prodotti esteri, dato che i prezzi sul mercato domestico sono evidentemente, in linea di massima, espressi in moneta nazionale. Comunque se in passato adeguare i listini non è mai stato un problema per le aziende esportatrici, non si vede perché dovrebbe essere diverso per chi compete (sul mercato italiano) con produttori esteri, dato che la natura del vantaggio conseguibile, e il modo per ottenerlo, sono i medesimi.
  
D. Alcune azioni di contenimento del cuneo fiscale, quindi di riduzione dei costi di lavoro lordo (mediante sgravi sui contributi sociali e previdenziali a carico delle imprese) sono stati effettuati, in particolare dal governo Prodi nel 2007. I benefici sui saldi commerciali esteri e sull’economia in generale non si sono però visti. 
R. Si è trattato di azioni di impatto modesto in quanto le dimensioni degli interventi e le somme stanziate sono state di pochi miliardi di euro. Le stime della perdita di competitività dell’Italia nei confronti della Germania in ogni caso tengono conto dell’impatto di queste azioni. In loro assenza, la perdita di competitività sarebbe stata magari del 22% invece che del 20%: il che non significa che le azioni fossero sbagliate in sé, ma che era del tutto inadeguato il loro ordine di grandezza.


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