Di frequente, mi
vengono sollevate obiezioni, o richiesti chiarimenti, in merito a come, nell'ambito del progetto CCF, si gestisce l’equilibrio della bilancia commerciale estera.
Emettere
Certificati di Credito Fiscale consente, a singoli stati membri dell’Eurozona,
di effettuare azioni espansive della domanda mettendo in circolazione potere d’acquisto:
e questo tramite uno strumento “quasi-monetario” – i CCF, appunto – che non è soggetto
a rimborso (non è quindi debito) e non ha bisogno di essere garantito dalla BCE. La garanzia di valore dei CCF sta nel fatto che saranno utilizzabili per
ridurre obbligazioni finanziarie (in primo luogo tasse e imposte) altrimenti
dovute alla pubblica amministrazione del paese emittente.
In assenza di un
riallineamento valutario, l’incremento di domanda interna produrrebbe un
aumento di importazioni e tenderebbe quindi a peggiorare i saldi commerciali
esteri. Le controindicazioni sono due: riduzione dell’effetto espansivo della
manovra sul PIL, e incremento dell’indebitamento finanziario netto verso l’estero.
Per questo motivo,
il progetto CCF prevede (vedi punto 9, qui) che una parte delle emissioni di
CCF vengano destinate alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse
sostenuti. In particolare, su una dimensione di emissioni annue che può
raggiungere i 200 miliardi, le allocazioni alle aziende del settore privato potrebbero
arrivare a 80, a fronte di costi di lavoro totali lordi dell’ordine di 450.
Questo equivale a
una riduzione effettiva dei costi di lavoro vicina al 20%, che è l’ordine di
grandezza della perdita di competitività subita dall’Italia nei confronti di
altri stati membri dell’Eurozona, quali, in particolare, la Germania. Ed è
anche l’ordine di grandezza di un possibile riallineamento valutario, tra “Nuova
Lira” e “Nuovo Marco”, se l’euro si spaccasse.
L’allocazione di
CCF alle aziende può essere resa più efficace, ad esempio privilegiando i
settori più esposti alla concorrenza internazionale. O più semplicemente
evitando di distribuirli a quelli per loro natura poco o nulla esposti
(finanziario, assicurativo, concessionari di servizi pubblici rivolti in modo
pressoché esclusivo al mercato domestico) e concentrando l’allocazione sugli
altri.
E’ anche possibile
e opportuno, in sede di allocazione, privilegiare le aziende localizzate nel
Sud Italia, in modo da attenuare le differenze di competitività rispetto al
Nord e avviare finalmente a soluzione il problema storico dell’economia
italiana (prima dell’avvento dell’euro…): il dualismo Nord - Mezzogiorno.
Qui di seguito,
rispondo ad alcune delle obiezioni più frequenti che mi vengono sottoposte in
merito al tema del recupero di competitività e degli effetti sui saldi
commerciali esteri.
D. Focalizzare l’attenzione
sul recupero di competitività e sul beneficio per i saldi commerciali non
significa adottare un approccio mercantilista, “beggar-thy-neighbor”, quello
stesso che viene costantemente rimproverato alla Germania ?
R. L’obiettivo del
progetto CCF è il rilancio di domanda, interna, PIL e occupazione. L’azione sul
costo del lavoro lordo e sul recupero di competitività NON è finalizzata ad
incrementare il surplus commerciale estero, ma a lasciare sostanzialmente
invariato il saldo import-export, senza quindi sottrarre domanda netta ai
partner commerciali esteri.
Peraltro, anche
nell’eventualità di svalutazione della Nuova Lira conseguente a un break-up
dell’euro, l’uscita dell’Italia dalla crisi richiederebbe politiche espansive
della domanda interna; il riallineamento valutario sarebbe, anche in questo caso, utile allo scopo di
non creare sbilanci nei saldi esteri, ma del tutto insufficiente DA SOLO a
produrre una significativa ripresa dell’economia italiana.
D. Un
riallineamento valutario agisce in maniera automatica (i prodotti italiani
costano meno di prima, e quindi diventano più concorrenziali
rispetto ai prodotti esteri), l’allocazione di CCF a riduzione dei costi di
lavoro richiede invece che le aziende italiane prendano atto dei minori costi
produttivi ed abbassino i prezzi: potrebbero non farlo.
R. In realtà i
prezzi praticati dalle aziende italiane all’export non sarebbero espressi in
Nuove Lire, ma in valuta straniera: così come in passato non si esportava con prezzi
in lire, ma in dollari, marchi, yen eccetera. Anche nell’eventualità di uscita
dall’euro il beneficio del riallineamento per essere conseguito richiede una
modifica dei listini. Questo in passato non è mai stato un problema e non si
vede perché dovrebbe esserlo oggi implementando il progetto CCF.
Il vantaggio
automatico della svalutazione, senza passare tramite un adeguamento dei prezzi,
si avrebbe invece per le aziende che vendono in Italia in competizione con
prodotti esteri, dato che i prezzi sul mercato domestico sono evidentemente, in
linea di massima, espressi in moneta nazionale. Comunque se in passato adeguare
i listini non è mai stato un problema per le aziende esportatrici, non si vede perché
dovrebbe essere diverso per chi compete (sul mercato italiano) con produttori
esteri, dato che la natura del vantaggio conseguibile, e il modo per ottenerlo, sono i medesimi.
D. Alcune azioni
di contenimento del cuneo fiscale, quindi di riduzione dei costi di lavoro
lordo (mediante sgravi sui contributi sociali e previdenziali a carico delle
imprese) sono stati effettuati, in particolare dal governo Prodi nel 2007. I
benefici sui saldi commerciali esteri e sull’economia in generale non si sono
però visti.
R. Si è trattato di azioni di impatto modesto in
quanto le dimensioni degli interventi e le somme stanziate sono state di pochi miliardi
di euro. Le stime della perdita di competitività dell’Italia nei confronti
della Germania in ogni caso tengono conto dell’impatto di queste azioni. In
loro assenza, la perdita di competitività sarebbe stata magari del 22% invece
che del 20%: il che non significa che le azioni fossero sbagliate in sé, ma che
era del tutto inadeguato il loro ordine di grandezza.
Nessun commento:
Posta un commento