Un recente rapporto di Mediobanca fa il punto sull’economia italiana, in particolare analizzando
il Jobs Act. La grande banca d’affari è ottimista sui benefici di un mercato del
lavoro flessibile. Non può, tuttavia, esimersi dal notare che il recupero del
PIL è ben lontano dall’essere un’autentica ripresa.
Il Ministero
dell’Economia, nell’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (settembre
scorso), prevede una crescita dello 0,9% nel 2015 e un’accelerazione all’1,3%-1,5%
nel 2016-2019.
Zero virgola o uno
virgola non è ripresa. Ripresa è se l’Italia comincia a creare lavoro e a
recuperare il milione di posti persi tra il 2008 e il 2014. A questi ritmi non
c’è recupero: al massimo, il quadro dell’occupazione non peggiora.
Al di là dell’ottimismo
di facciata, Renzi ne appare consapevole. Spesso afferma che le regole dell’Eurosistema
– soprattutto i limiti al rapporto deficit pubblico / PIL – insistono troppo sul
consolidamento fiscale, a scapito dello sviluppo. Regolarmente però aggiunge
“sono sbagliate ma le rispetteremo”.
Questo però non è accettabile.
Senza una vera ripresa produttiva e occupazionale, il consolidamento fiscale è
controproducente e peraltro destinato a fallire.
Consapevole della
situazione, il responsabile dell’ufficio studi di Mediobanca Securities,
Antonio Guglielmi (con cui ho avuto il piacere di collaborare sul tema) riprende
la proposta che ho elaborato insieme a un gruppo di ricercatori, tra cui Biagio
Bossone, Massimo Costa, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini e il compianto
Luciano Gallino.
Si tratta di introdurre
un nuovo strumento finanziario, i Certificati di Credito Fiscale (CCF): titoli
da assegnare gratuitamente a una pluralità di soggetti – lavoratori, aziende, pensionati,
disoccupati, fornitori del settore pubblico. Un CCF dà diritto a ridurre
pagamenti futuri dovuti alle pubbliche amministrazioni, per qualsiasi causale (tasse,
imposte, contributi, tariffe, ticket sanitari).
Sono, quindi, diritti
a sconti fiscali futuri. Il titolare può monetizzarli in anticipo in quanto un
CCF emesso, ad esempio, a giugno 2016 e utilizzabile a partire dal giugno 2018,
ha valore fin d’oggi: è infatti negoziabile e trasferibile, con un prezzo di
mercato pari al valore facciale (lo sconto fiscale usufruibile alla scadenza)
al netto di un fattore di attualizzazione finanziaria (presumibilmente modesto)
che incorpora l’effetto del differimento.
Mediobanca
analizza gli effetti di un’emissione di 20 miliardi di CCF nel 2016,
incrementati a 40 dal 2017 in poi. Ne segue la crescita del potere d’acquisto
in circolazione e della domanda aggregata.
Benché più
contenute rispetto ad altre ipotesi elaborate dal nostro gruppo di ricerca, sono
dimensioni sufficienti a portare lo sviluppo del PIL italiano al 3% annuo, avviando
il recupero dell’occupazione e risanando il tessuto produttivo.
La crescita del
PIL produce anche l’aumento del gettito, compensando gli sconti fiscali
ottenuti, a scadenza, dai titolari dei CCF. Il maggior denominatore riduce il
rapporto debito pubblico / PIL, mentre il deficit (inteso come differenza tra
spese pubbliche e incassi pubblici in euro) rimane a zero in ogni anno.
Una parte delle
assegnazioni di CCF andranno alle aziende, in funzione dei costi di lavoro
sostenuti. Questo riduce il costo del lavoro effettivo, migliora la
competitività ed evita che la ripresa squilibri i saldi commerciali esteri. La
maggiore competitività consentirà infatti alle aziende italiane di esportare di
più e di guadagnare quote di mercato interno nei confronti della concorrenza
estera, compensando le maggiori importazioni dovute alla ripresa.
I CCF consentono anche
di introdurre un sistema di “clausole di salvaguardia non pro-cicliche”. Se in
un dato anno la congiuntura mettesse a rischio gli obiettivi di finanza
pubblica, in particolare l’equilibrio entrate-uscite in euro, il governo
potrebbe sostenere in CCF (e non in euro) alcune spese, o introdurre imposte a
fronte delle quali il contribuente riceve una compensazione in CCF.
Se Monti avesse utilizzato
questi strumenti, le azioni di consolidamento fiscale non avrebbero causato la pesante
contrazione di PIL e occupazione (5% di PIL e 500.000 posti di lavoro persi)
prodottasi nel 2012-2013.
I CCF permettono inoltre
di raggiungere le finalità del Fiscal Compact. L’Eurosistema prevede che la BCE
garantisca i debiti pubblici dei vari paesi, purché s’impegnino al pareggio di
bilancio e alla riduzione del rapporto debito / PIL. In pratica la BCE
garantisce gli attuali livelli di debito, se non si incrementano.
Ora, i CCF
consentono manovre espansive ed anticicliche senza richiedere maggiori
garanzie alla BCE. Non sono, infatti, debito da rimborsare. Non sono collocati
sul mercato per raccogliere denaro da restituire a scadenza. Lo stato emittente
si impegna solo ad accettarli a riduzione di pagamenti futuri, dovuti
all’emittente stesso. Un impegno che nessuno potrà costringerlo a disconoscere:
l’emittente non può essere forzato al default.
I CCF non sono peraltro
neanche moneta legale. Non esiste obbligo di accettazione da parte di soggetti
privati o pubblici (stato emittente a parte). L’unico emittente di moneta
legale ad accettazione obbligatoria in tutta l’Eurozona (l’euro) rimane la BCE.
I CCF sono un
ibrido: né debito né moneta legale. Ma hanno valore, incrementano il potere
d’acquisto in circolazione e risolvono le disfunzionalità dell’Eurosistema.
Non
sorprendentemente, ricevo spesso critiche sia da chi ritiene l’euro comunque destinato
alla rottura, sia da chi vuole evitarla e vede i CCF come l’anticamera della
scomparsa dell’euro.
Ai primi, faccio
notare che l’attuale sistema è disfunzionale e va corretto: ma “spaccare” la
moneta unica ha difficoltà operative e politiche ardue da superare.
Ai secondi, che l’Eurosistema
odierno, se non se ne risolvono le gravissime inefficienze, implica anni di
ristagno economico, tensioni sociali crescenti ed è alla fine, comunque,
condannato all’estinzione. Certo, i CCF potrebbero diffondersi fino a sostituire
totalmente l’euro. Ma non ce n’è necessità, se il sistema diventa funzionale.
D’altra parte il rischio di rottura / scomparsa dell’euro rimarrà, altrimenti,
sempre presente.
Ripetere di
continuo (come fa Draghi, e nella sua posizione si può capirlo…) che “l’euro è
irreversibile” indica la consapevolezza che la reversibilità è invece un’ipotesi
concreta. Janet Yellen non affermerebbe mai che il dollaro è irreversibile…
Sono i difetti dell’Eurosistema
odierno che ne fanno rischiare l’estinzione. I CCF sono in grado di rendere
efficiente un assetto che oggi non è tale.
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