lunedì 2 maggio 2016

Tutta colpa delle PMI ??



Capita abbastanza frequentemente di imbattersi in opinionisti che si lanciano contro la PMI (Piccole Medie Imprese) italiane, incolpandole di aver contribuito (addirittura in modo decisivo, secondo qualcuno) al declino dell’economia nazionale.

Per esempio, alcuni giorni fa circolava su twitter l’estratto di uno studio (non era riportata né la fonte né l’anno di riferimento, ma poco importa – i dati sicuramente sono corretti o comunque plausibili) che riporto qui testualmente:

“Le grandi imprese (con almeno 250 addetti), con solo 3.465 unità (0,1 per cento) assorbono il 19,4 per cento degli addetti e realizzano il 31,7 per cento del fatturato, il 31,2 per cento del valore aggiunto complessivo e il 36,0 per cento degli investimenti fissi lordi”.

E in merito a questi dati si leggevano commenti tipo: “Una scomoda verità”. “Il nostro modello di piccole e piccolissime imprese è un fallimento”. “Le PMI sono un cancro”.

Un fallimento, un cancro, nientemeno ! dopo che per anni ci si è fatto vanto del dinamismo e dell’imprenditorialità diffusa che caratterizza il tessuto aziendale italiano.

Hanno senso commenti di questo tenore ? al di là dell’eccesso di enfasi, a un’impressione preliminare (molto preliminare…) potrebbe sembrare, in qualche misura, di sì.

Si sta dicendo che le grandi imprese, con meno del 20% degli addetti complessivi, pesano oltre il 31% sul fatturato e sul valore aggiunto, e incidono  per il 36% sugli investimenti. Quindi le grandi imprese sono caratterizzate da più fatturato per addetto, più valore aggiunto per addetto, più investimenti per addetto: grande è bello e piccolo è un disastro, giusto ?

Ragioniamoci un attimo…

Il valore aggiunto è un indicatore di produzione e di reddito. Il PIL nazionale non è altro che la somma del valore aggiunto generato da tutte le unità economiche che operano in Italia. Un alto valore aggiunto per addetto a parità di condizioni è un segnale positivo, ma…

Dal punto di vista di un’azienda, gli investimenti fissi sono invece un costo. E’ il capitale fisico che l’attività aziendale deve remunerare.

Per l’economicità dell’azienda, non è di per sé positivo avere alto valore aggiunto e, contemporaneamente, alti investimenti. Casomai, è in posizione migliore chi ha un elevato rapporto tra valore aggiunto e investimenti.

I dati di cui sopra non vanno interpretati a sfavore delle PMI: casomai il contrario. Le grandi hanno bisogno infatti di maggiori, non minori, investimenti a parità di valore aggiunto generato: come indicato appunto dal fatto che pesano per il 36% sugli investimenti, ma solo per il 31,4% sul valore aggiunto. Il rendimento degli investimenti è quindi più basso rispetto alle PMI.

E’ anche facile calcolare la differenza di rendimento. Sempre sulla base dei dati sopra riportati, fatti pari a 100 sia il valore aggiunto per addetto, che gli investimenti per addetto, delle PMI, per le grandi imprese i due valori sono rispettivamente 190,2 e 233,7. Le grandi producono oltre il 90% di valore aggiunto per addetto in più, ma con investimenti più alti quasi del 134%.

Posto 100 il rapporto valore aggiunto / investimenti delle PMI, il medesimo rapporto per le grandi imprese è quindi 81,4 (= 190,2 / 233,7). Il rendimento del capitale fisico investito è considerevolmente inferiore rispetto alle PMI.

E’ vero anche – come spesso viene fatto notare – che un valore aggiunto per addetto più elevato permette, a parità di condizioni, di pagare retribuzioni più alte (e quindi di attirare professionalità meglio qualificate). Ma anche questo, nel confronto PMI / grandi imprese, non è necessariamente vero: se per produrre un valore aggiunto più alto devo sostenere maggiori investimenti, dovrò anche destinare una maggiore proporzione (del valore aggiunto stesso) al rimpiazzo e all’aggiornamento degli impianti. Non necessariamente residuano maggiori risorse per pagare meglio i dipendenti.

In realtà, i dati evidenziano un’altra cosa: che le grandi imprese operano tendenzialmente, rispetto alle PMI, in settori a maggiore intensità di capitale. Mediamente devono quindi investire di più, ed è quindi del tutto fisiologico che abbiano anche valori aggiunti più alti.

Se poi il maggior valore aggiunto si accompagna a retribuzioni più elevate, non è una conseguenza della dimensione in quanto tale (Walmart ha 2,3 milioni di dipendenti, ma non ha la fama di essere un'azienda ad alte retribuzioni medie...). La variabile esplicativa è con ogni probabilità, anche in questo caso, l'intensità di capitale, che significa (in media, ma non sempre e non necessariamente) impiantistica più complessa e maggior fabbisogno di personale tecnico qualificato.

Peraltro – e anche questa non è una sorpresa – è più difficile ottenere rendimenti elevati (in proporzione) dove si investe molto, rispetto a dove è sufficiente investire poco. Quindi non stupisce che il rapporto valore aggiunto / investimenti sia migliore per le PMI.

La conclusione è che PMI e grande impresa sono macromodelli di azienda differenti, più o meno appropriati in funzione del contesto. Ma demonizzare le PMI, sulla base di quattro indici di bilancio interpretati a sproposito, porta decisamente fuori strada. 

Rischia, in effetti, di tradursi in un’autentica azione di depistaggio: attribuire i problemi dell’economia italiana, massacrata da vent'anni di politiche restrittive della domanda, e pesantemente procicliche soprattutto dal 2011 in poi, a fattori strutturali che in realtà sono sempre esistiti. E senza mai impedire (anzi) all’Italia di crescere e di svilupparsi, prima che entrasse in azione l'euroausterità... che è il vero problema, non la dimensione delle aziende.

8 commenti:

  1. C'è poi un aspetto concreto che caratterizza il made in Italy.....sono i distretti industriali che grazie alla moltitudine di imprese specializzate permetto una grandissima efficienza ed elasticitò alle nostre medie imprese. Un esempio tra i tanti, le dichiarazioni di Montipò (Presidente Interpump group): «Vero. Qui c’erano presupposti culturali unici. Il sapere meccanico diffuso come da nessuna altra parte al mondo. E poi l’apertura e l’umanità di gente straordinaria. Quando sono partito, sono stati tanti piccoli artigiani di qui a dirmi: mi pagherai quando li avrai. Avevano battezzato che il cavallo avrebbe vinto e si sono fidati. E poi la competenza: a Reggio ci sono 100 artigiani in grado di fare un albero a cammes che giri bene. Provi a vedere in qualsiasi altro Paese dell’Occidente. Forse ne troverà uno o due, in tutta una Nazione».

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    1. Verissimo. E questa versatilità, questo patrimonio di competenze va tutelato. Anche perchè nasce da caratteristiche genetiche e culturali degli italiani: individualisti magari all'eccesso, non bravi a organizzarsi in grandi unità, ma creativi, innovativi e flessibili quanto o più di chiunque altro.

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  5. Il nanismo delle aziende è un bene o un male?
    Lorenzo Zanellato

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    1. Né un bene ne' un male di per se': ci sono piccole aziende che funzionano meglio delle grandi, e viceversa. Ma spesso sento discorsi dei soliti economisti-soloni secondo i quali la piccola dimensione e' un problema di per se'. Mai viste prove convincenti. E se sfasci dieci aziende piccole non ne nasce una grande, rimane il nulla...

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  6. Oltretutto persino in Usa per la maggior part ci sono Pmi.. c'e un grafico di Bloomberg che indica oltre il 70% degli introiti ed affari è dato dalle Pmi

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