domenica 13 ottobre 2024

Quando Giorgetti si impone


Mi chiede un amico: quando Giorgetti impone una linea di politica economica incoerente con i programmi elettorali della coalizione di governo nonché con le posizioni di molti membri del suo partito, sulla base di quale autorità, sulla base di quali leggi è in grado di farlo ?

La risposta è: sulla base della legge del più forte, che è l’establishment finanziario.

Del resto Giorgetti ha un obiettivo nella vita, che non è far funzionare al meglio l’economia nell’interesse dei cittadini, ma accedere, in un prossimo futuro, a qualche prestigiosa e molto ben remunerata carica nel mondo finanziario e bancario. Che so, presidente di Unicredit. Non CEO, per fare il CEO bisogna lavorare.

domenica 6 ottobre 2024

Che cosa non è il debito pubblico

 

Se uno Stato spende la moneta che emette, il debito pubblico (dovrebbe essere evidente) NON è un mezzo di finanziamento del deficit.

Il deficit pubblico si traduce automaticamente in risparmio privato. L’eccesso di spesa rispetto alla tassazione equivale, nel settore privato, a soldi ricevuti eccedenti quanto pagato in tasse: quindi a un incremento del risparmio.

Se lo Stato spende la moneta che emette, non ha bisogno di collocare titoli di debito pubblico per finanziarsi. Il debito pubblico ha una funzione diversa: è uno strumento offerto al settore privato per impiegare il risparmio finanziario generato dal deficit pubblico.

Il problema del debito pubblico, in Italia, esiste SOLO perché utilizziamo una moneta emessa da un soggetto diverso dallo Stato.

venerdì 4 ottobre 2024

I soldi del deficit pubblico

 

Chi segue questo blog mi ha visto molte volte spiegare che il deficit pubblico non è un impoverimento del paese, in quanto la differenza tra spese del settore pubblico e incassi fiscali (il deficit pubblico) rimane in tasca al settore privato. Se lo Stato spende più di quanto incassa, il settore privato incassa più di quanto spende. Questa è un’identità contabile su cui c’è poco, anzi nulla, da discutere.

OK, mi sento a volte replicare: sarà così, ma i sottoscrittori dei titoli del debito pubblico sono in parte stranieri. Per cui è vero che il deficit pubblico si trasforma, o meglio genera, risparmio privato: ma questo risparmio privato finisca in parte in mano a residenti esteri, quindi fuoriesce dal paese.

Le cose stanno un po’ diversamente. 

Il deficit pubblico alimenta automaticamente risparmio privato e non ha bisogno che vengano emessi titoli per finanziarlo. I titoli del debito pubblico sono un’opportunità offerta ai risparmiatori per impiegare, appunto, il risparmio.

Il risparmio fuoriesce dal paese se il saldo commerciale, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni di beni e servizi, è negativa. Se è positiva, al contrario, il risparmio non defluisce dal, ma affluisce nel, paese.

E il saldo commerciale dell’Italia verso l’estero è ampiamente positivo, per circa 50-60 miliardi annui.

E’ vero che una parte dei titoli di Stato offerti dalle pubbliche amministrazioni è sottoscritto da risparmiatori esteri; ma a fronte di questo, ci sono risparmiatori italiani che comprano attività finanziarie straniere. Sono scelte di portafoglio, che derivano da valutazioni di rischio e redditività, dalla volontà di diversificare, in ultima analisi dai gusti personali di ognuno.

Il saldo tra investimenti finanziari e patrimoniali dei residenti italiani verso l’estero, da un lato, e dei residenti stranieri verso l’Italia, dall’altro (la cosiddetta Net International Investment Position, NIIP) è anch’esso positivo: per 165 miliardi secondo il più recente dato Bankitalia (al 31.3.2024).

Per cui, nel caso del nostro paese è del tutto corretto affermare che il deficit pubblico si converte in risparmio privato ITALIANO. Il fatto che una parte dei titoli di Stato emessi vengano acquistati da soggetti stranieri NON rileva e NON smentisce questo dato di fatto.

 

mercoledì 2 ottobre 2024

Dice Dirk Enhts

 Ci sono economisti TEDESCHI non allineati al mantra dell'euroausterità ?

Non tantissimi ma qualcuno sì. Dirk Ehnts ne è un esempio.


Ed ecco quello che CORRETTISSIMAMENTE dice:



giovedì 26 settembre 2024

La CGIA e gli sprechi

 

Le narrazioni su temi economici (e non solo) quando sono basate su fantasie e luoghi comuni fanno danni, perché orientano negativamente il dibattito e mandano fuori strada la pubblica opinione.

Ne ho avuto una riprova qualche giorno fa a seguito di una discussione con alcuni interlocutori su Twitter, pardon su X, dove è stato citata l’iperbolica cifra di 225 miliardi (all’anno…) come costo di sprechi e inefficienze della pubblica amministrazione.

Ho chiesto la fonte del dato e mi è stato linkato questo documento prodotto dalla CGIA di Mestre, un’associazione di artigiani e piccole imprese che in effetti dispone di un ufficio studi piuttosto attivo.

E il titolo del documento in effetti è “Sprechi e burocrazia ci costano oltre 225 miliardi all’anno”.

Sennonché andando a leggere, a pagina 5, dopo l’elencazione di fatti e misfatti della P.A. italiana, si trova questa affermazione: “E’ evidente che questi malfunzionamenti, tratti da fonti diverse, non si possono sommare, innanzitutto perché sono riferiti ad anni diversi e in secondo luogo perché in alcuni casi le aree di queste analisi si sovrappongono”.

Bravi. Prima sparate un titolo con un numerone, poi ci costruite sopra una narrazione e alla fine ci fate sapere che “è evidente” che avete sommato dati “che non si possono sommare”.

E come giudizio di affidabilità dell’analisi, potremmo già chiudere qui la faccenda.

Ma vale la pena di riflettere un tantino sui dati che sono stati sommati anche se non si potevano sommare. E sono i seguenti.

“Il costo annuo sostenuto dalle imprese per la gestione dei rapporti con le P.A. (burocrazia) è pari a 57,2 miliardi di euro”. Considerarli uno “spreco” equivale a dire che il costo potrebbe o dovrebbe essere zero. Il che è un’evidente assurdità.

“I debiti commerciali di parte corrente della nostra PA nei confronti dei propri fornitori ammontano a 55,6 miliardi di euro”. Probabilmente sono troppi, e questa è un’inefficienza. Ma anche qui è assurdo parlare di 55,6 miliardi di “spreco”. Bisogna confrontare il dato con un livello “normale”, perché una dilazione di pagamento per esempio di 30 o 60 giorni è fisiologica, e poi valutare il costo dell’inefficienza, che non è certo l’intero importo del maggior debito (un’azienda preferisce un cliente che paga a 30 giorni e non a 180, ma non è che mette a perdita l’intero importo del credito “lungo” se alla fine il pagamento arriva. A parte che per assurdo sarebbe una perdita per il fornitore ma un guadagno per la PA, quindi non una perdita secca per il sistema economico).

“La lentezza della giustizia costa al paese 2 punti di PIL all’anno, ovvero 40 miliardi di euro”. Come si stima l’impatto economico di un fenomeno del genere ? non ne ho la minima idea. L’ha detto il ministro Nordio, ma da dove nasce la valutazione ?

“Il deficit logistico-infrastrutturale penalizza il nostro sistema economico per un importo di 40 miliardi di euro all’anno”. Questo non è uno “spreco”, ma l’indicazione (che poi va motivata) che occorre spendere meglio, ma probabilmente DI PIU’, non di meno.

Gli unici “sprechi” che possono effettivamente essere definiti tali, nell’elencazione, sono quelli della sanità e quelli del trasporto pubblico locale, rispettivamente per 21 e per 12,5 miliardi. Sulla base di stime ovviamente da verificare e da discutere.

In sintesi…

Il numerone di 225 miliardi è una sparata priva di senso. Però è stata pubblicata, gira, e qualcuno (non pochi) la prende come un fatto, come un “dato certificato”.

Un dibattito costruito su queste basi fa solo confusione, e danno.

 


martedì 24 settembre 2024

Quando l’assicurazione non funziona

 

Il ministro Musumeci se ne è uscito con l’ipotesi di rendere obbligatoria, per gli immobili di proprietà privata, l’assicurazione su rischi catastrofali quali inondazioni ed eventi di origine climatica. O almeno questo concetto gli è stato attribuito. Poi ha fatto una rapida marcia indietro.

Meno male che l’ha fatta, perché l’idea è pessima: e non solo in quanto imporrebbe l’equivalente di una (ulteriore) imposta patrimoniale sugli immobili.

L’idea è pessima perché nel caso fosse attuata, c’è da aspettarsi che i proprietari di immobili delle zone a maggior rischio non riuscirebbero a trovare coperture assicurative, quantomeno per importi di premi non esorbitanti.

Il problema è analogo a quanto si riscontra esaminando l’alternativa sanità pubblica vs sanità privata. Ammesso che il privato sia, in media, più efficiente del pubblico (del che dubito, ma lasciamo il tema per un'altra occasione) il problema è che le assicurazioni private fanno molta fatica a coprire i soggetti ad alto rischio.

Le malattie che richiedono cure molto onerose possono, semplicemente, non essere assicurabili.

Determinate forme di rischio possono essere gestite solo a livello di collettività nazionale, quindi di settore pubblico, perché l’onere economico si ripartisce su milioni o decine di milioni di persone: un universo enormemente più ampio di quello di qualsiasi compagnia assicurativa.

L’assicurazione che lavora per il profitto valuta invece la redditività della singola copertura, e in certi casi i conti semplicemente non tornano.

Imporre di utilizzare il settore assicurativo privato per certi tipi di rischio è inaccettabile, e in parecchi casi impercorribile.

 

venerdì 20 settembre 2024

Come si sta fuori dalla UE

 

E’ interessante questo video del mio antico quasi-collega Alberto Forchielli, che conversa, come fa ogni tanto, con Fabio Scacciasestesso Villani.

Interessante non perché dica cose particolarmente originali, ma perché non mi sarei molto aspettato di sentirle dire a Forchielli, di cui è nota la vicinanza con Romano Prodi. 

E da una persona vicina a Prodi stupisce quanto esplicitamente confuti uno dei luoghi comuni più logori e stantii che gli europeisti hanno costantemente sulle labbra: che per quanti difetti di funzionamento possa avere la UE, non c’è speranza, non c’è possibilità, non c’è strada plausibile per migliorare la situazione economica e sociale dell’Italia, per “affrontare e superare le sfide del nostro tempo” se non fondendosi nella Grande Unione Europea.

L’argomentazione, semplice ma chiara e diretta, a contrario è che tantissimi paesi fanno bene al di fuori della UE, e comunque non pensano minimamente a integrarsi in chissà quale superstruttura politica.

Tra gli esempi citati, il Cile, la Svizzera, la Corea del Sud. Ma ovviamente se ne possono fare molti altri.

Perché la situazione è del tutto evidente: al mondo ci sono oltre 200 nazioni. La stragrande maggioranza, cioè quelli non appartenenti alla UE perché non ci sono voluti entrare o perché non sono neanche paesi europei, non stanno affatto definendo la creazione di un’Unione Americana o di un’Unione Asiatica o di un’Unione Africana (o meglio a quanto ne so un’Unione Africana esiste ma non ha minimamente funzioni o ambizioni simili a quelli della UE).

Tutto molto semplice. Fuori dalla UE, non c’è nessuna tendenza a creare nulla di simile in altre parti del mondo.

La UE è un progetto unico. E non funziona.